Post Recensioni

Il finale di Breaking Bad è un inno alle larghe intese

3 Ottobre 2013 10 min lettura

author:

Il finale di Breaking Bad è un inno alle larghe intese

Iscriviti alla nostra Newsletter

8 min lettura

Domenica scorsa è andata in onda negli Stati Uniti l'ultima puntata della serie tv Breaking Bad, attualmente trasmessa in Italia da AXN (sulla quale mancano ancora una manciata di puntate per pareggiare i conti). Quelli che seguono sono sei pensieri a caldo a stagione conclusa, quindi se hai paura possano contenere spoiler non andare avanti: ne ha. Anche se non hai finito tutti gli episodi della famiglia Robinson: fermati qui, è meglio.

I. PRIMA DI HEISENBERG
QUANDO VEDI BILL COSBY MIRA ALLA TESTA.

Mesi fa qualche mio contatto Facebook particolarmente mattacchione ha pubblicato una foto di ciò che rimaneva (al 2005) della famiglia Robinson, provocando la prevedibile nostalgia di un piccolo pubblico social tutto concorde nel notare la posa da jazzista fallito di Theo o la bombabilità della piccola Rudy (che ho scoperto chiamarsi Rudith solo poche ore fa). Quella sera - stile terapia di gruppo - ho scoperto essere tanti quelli che guardano i Robinson ancora oggi (vanno in onda su K2: da una certa ora in poi parte una maratona infinita ogni giorno). La cosa mi ha fatto pensare: quante sono le persone che ancora oggi, quando possono, guardano i Robinson? E cosa li porta a vedere uno show vecchio di trent'anni e ripercorrere le piccole disavventure quotidiane di una famiglia di Brooklyn e i loro grandi insegnamenti per giovani famiglie di colore (giuro che a un certo punto la tendenza iper-didattica dilaga fino a spiegare cosa sia il ciclo mestruale)?

Le mie risposta più immediate: uno, il senso di infinita serenità dato dal circolo familiare, una risposta di lana calda a ogni problema, la comprensione e la giustizia intervallata da buffi balletti improvvisati; e due, la dopante sensazione di cieca e inalterata fiducia per il sistema economico egemone, per i consumi spensierati, celebrato dal benessere di una famiglia nera emancipata e protagonista di un sogno americano in pieno corso d’opera (loro come per gli altri personaggi: i nonni, i colleghi, la prof di matematica di Theo, brasiliana osso duro perché sa che a darsi da fare nella terra dei sogni ci si guadagna ALLA GRANDE). E l'ostentazione naturale - e mai superba - della compravendita di beni, siano essi quadri all'asta per 10mila dollari, automobili per i freschi sedicenni o litrate di succo d'arancia consumate senza pudore.

Vince l’esemplarità del modello di riproduzione capitalistico, sul cui crollo si può presumere si basino gran parte delle serie tv contemporanee: primi duemila, si incrina un sistema che si fa deviato e poi parallelo (The Sopranos, The Wire), prefigurando la negazione d'ogni benessere o artificio (Lost) e portando alla corruzione dell'io sofferente di fronte allo stravolgimento tutto materiale della vita comune alle soglie di questa evoluzione (Mad Men) o in futuro ormai incorreggibile (Black Mirror). Si può presumere, si può convenire sul fatto che la dimensione narrativa televisiva, da Ettore Andenna in poi, si fa più problematica. Di sicuro stiamo peggio.

Uno dice: l’individuo diventa materialmente più povero - e più minacciato - in uno scenario senza più le antiche convenzioni socio-economiche, nel quale i cimiteri di scaffali pieni di barattoli e le prigioni sventrate da non-morti diventano casa (The Walking Dead, In The Flesh), e può essere così. E allora in Breaking Bad il rapporto tra Stato, salute, agiatezza, rapporti sociali e produttivi, un "io" debole e senza più nulla da perdere si sfalda, “mostrificando” (?) il vicino di casa che poi giustificherà il proprio purissimo gusto nel vivere la vera malavita con la necessità di trovare i soldi per la propria famiglia, per le proprie cure. Ok che i Robinson sono comedy, però provate a paragonare il benessere di Seinfeld (anni ‘90) alla profonda crisi di tutto di Louie (oggi). Cliff Robinson, a cancro diagnosticato, l'avrebbe risolta con un abbraccio in salotto. Qui c’è da prepararsi all'apocalisse zombie, drama o meno - e se vedete Cosby mirate alla testa.

II. CON HEISENBERG
I DUE MONDI CHE VEDI QUANDO GUARDI LA TV O SEMPLICEMENTE “VIVI IN UNA SOCIETÀ”.

Poi ci sono due tipi di persone. Quelle alle quali devi spiegare le cose e quelle che ci arrivano in ogni caso. È tipo una lotta di due mondi, una divisione sistemica per eserciti, e la guerra - la tua - per cercare di capire in che posto inquadrare chi ti sta davanti e te stesso a seconda delle circostanze. Diciamo che esiste un Mondo Uno dove le cose si fanno alla velocità del moto terrestre e un altro (Due) che le dà per scontate e vive sopra un ordine diverso. Stessa cosa: ci sono gli show che rispondono a un determinato canone estetico-morale per missione, per negligenza, pigrizia, vocazione, divertimento, e vanno nel primo mondo, e poi chi sta dall'altra parte. Così avrai serie tv per una maggioranza salutare, un po’ mediocre e genuinamente buona che talvolta ha bisogno di sentirsi Il Male in terza persona e provare il brivido, per un fine superiore ponderabilissimo o a causa di personali e fluide leggi morali (Dexter); e serie che non lo fanno.

Sempre per il primo gruppone, serie dagli scenari asettici in cui non mangeresti mai per non impregnare l'ambiente di microbi, nelle quali i colleghi-amici non potrebbero compromettersi in una relazione, tanto più se lui è vedovo e ha una figlia (Castle, Lie To Me), le serie dove esiste l’ingombrante e buffa sottotraccia amorosa; poi ci sono le altre, chi ne fa a meno, chi moltiplica. E ancora gli show dove l'azzardo e il potere si fanno perversione erotica sugli scalini di casa (che sia con degli sconosciuti o con tuo fratello), nei quali alla scena di sesso viene deputata la parte di "Simbolo Della Morbosità Controversa Di Una Trama In Realtà Piuttosto Plastica E Aderente Al Primo Mondo" (Game of Thrones, Homeland). Poi chi ne fa a meno.

C'è un'ecosistema di sentimenti di base che animano la vita della gran parte delle storie messe in scena in tv (e che poi vedi interpretare nella vita vera) che ricadono nel generone amore-tradimento-rivalsa-onore, come esistesse una volontà di base nell'accomunare le storie di ognuno, insaporendole di sesso sporadico, devianza da contingentare e sottrarre al pianeta dei Normali (Criminal Minds, NCIS e affini), più tratti di cinismo gratuito, tale da portare ogni tipo di spettatore a rivalutare la propria vita senza ridiscutere la propria capacità d'intendimento e immaginarsi migliore (Dr House); e poi le altre. Breaking Bad, in "sei" stagioni, è stato "le altre". (Quasi) mai un richiamo a quell'altro Mondo, se non ironico. (Quasi) mai la necessità di fare i conti con la tradizione narrativa televisiva: in cinque/sei anni Breaking Bad ha viaggiato sui binari originali di una nuova costruzione che prevedesse la lenta analisi attorno alla vita di un uomo che ha deciso di spendere gli ultimi mesi della sua vita come non aveva mai fatto, non risparmiando nulla (e non risparmiando nulla al racconto, quindi) ma senza il linguaggio del Mondo Uno. Non per scelta stilistica, quanto per ampiezza d'angolazione, per profondità del viaggio.

Heisenberg è certamente percorso da un'indicibile voglia di vendetta: contro un mondo che gli ha accomodato addosso i maglioni da prof del college, verso un cognato unto e reazionario, verso una moglie frustrata, una cognata cleptomane, un figlio difficilissimo, un datore di lavoro coi sopracciglioni, una coppia di amici di gioventù che gli hanno sottratto un futuro milionario (ecco IL tradimento), ma non è l'unica matrice del male, il generatore d'odio. Degradare per bene verso l'inferno vuol dire ponderare ogni passo, assaggiare il calore dello scalino con la pianta del piede, divertirsi perché in fin dei conti "I liked it. I was good at it, and I was really... I was alive": è necessario fare i conti con una logica meno evidente di quella dell'altra tv, che vorrebbe il tutto ridotto a una sequenza di azioni e reazioni animate o meno dalle quattro sensazioni di default e le inserzioni delle berline giapponesi. In questo lavoro di esplorazione su cosa sia raccontabile di realmente nuovo nelle tenebre di una persona più morta che altro e che non fossero già stati raccontati, Breaking Bad ha (quasi) sempre colto il bersaglio, non mancando di testimoniare quanto la devastazione (che ormai sappiamo) gratuita e indiscriminata abbia rovinato scriteriatamente le vite di centinaia di persone nel raggio di azione di uno solo - epicentro "the family". Senza redenzioni o scuse credibili. "(Quasi) sempre" perché poi è arrivato il finale.

III. DOPO HEISENBERG
IL FINALE DI BREAKING BAD SERVE A FARTI VENIRE UN PO’ IL MAGONE.

È arrivato il finale e ha trascinato cinque stagioni e mezza dall'altra parte, nell’altro Mondo, con i giovani innamorati e le suonerie personalizzate, il ricominciare a fumare perché c'ho dei problemi, la necessità di risolvere ogni pezzo di trama come se quest'altro mondo, quello in cui è sempre vissuto, non fosse mai esistito. Nazisti che la prendono sul personale se li si chiama bugiardi, redazioni di testate storiche che contribuiscono indirizzi al primo falso ideologico, volanti che passano distratte, giovani reclusi pieni d'odio e morte che hanno la lucidità di rammentare al proprio aguzzino e mentore che è il caso che faccia da solo (levarsi dal cazzo sparandosi) e che poi scappano via in preda a una crisi isterica. Addirittura un marchingegno capace di sparare a filo d'uomo e atterrare un'intera mandria di sicari d'ultradestra trapanando le pareti (ok Walter White-MacGyver, ma qui forse è troppo), il setting perfetto per la salvezza di Jesse e la sua ultima prestazione da mentore. C'è spazio persino per un dentista giocherellone e un po’ matto che convince Rudith e un suo amichetto obeso a farsi controllare i denti, e Cliff a passare dallo studio perché è un po’ che non si fa dare una controllatina.*

E come fa una paranoide come Lydia a riscoprirsi metodica nel contattare i signori della droga di turno? Veleno in un pacchetto di Stevia? L'intero episodio è un meccanismo troppo perfetto per esser stato pianificato in poche settimane d'isolamento montano ai confini della vita da un malato terminale al quale non resta che aspettare di morire: ogni avvenimento si trasforma in mossa già tracciata nei piani dell'ultimo Heisenberg, quello che non decide di destituire l'impero ma distruggerlo, né di passare lo scettro, pur riconoscendo quasi fiero il lavoro del suo protégé in un'atmosfera quasi sollevata, meno oscura del solito, un inno alle larghe intese, alla pacificazione, all'estinzione dei conflitti e agli incentivi alle startup. Una partita aperta e chiusa senza perdere, senza toni cupi, che lascia dietro di sé una scia di plasticosa liceità morale ("the whole thing felt shady morality-wise”) e vite ormai inutili da visitare come uno spettro venuto da un futuro ipotetico (Matt Zoller Seitz parla di effetto Christmas Carol).

La stessa ammissione di "colpa" di Walter di fronte a Skyler ("l’ho fatto per me e devo dire che ero pure abbastanza bravo") sembra quasi venire da un'altra persona, distante, solo un'eco di quella traccia (quella della vanità) che forse sarebbe potuta scoppiare in maniera ancora più fragorosa, garantire un finale meno pacifico, una catarsi meno imbarazzante. C'è vanità in ogni gesto prima e dopo il recinto di legno nel New Hampshire, lasciato dietro le spalle col cappello frivolo e badass alla Heisenberg, così come presuntuoso è l'ultimo gesto che lo accompagna per terra, lo sguardo compiaciuto del maestro che ammira soddisfatto le sua eredità (scolastica alla "ma che bravo Jesse, come con le scatole di legno", economico-imprenditoriale) con una maschera in mano (e già morire pensando ai bei tempi andati gingillando l’attrezzo mi smorza ogni libido nei confronti di Vince Gilligan).**

Iscriviti alla nostra Newsletter


Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it.

Walter cade lentamente sul pavimento, vittima della sua stessa sventagliata di pallottole (e non a causa del cancro né della detenzione: "Live free or die", dice la targa sulla macchina mentre fa benzina) lasciando le sue impronte di sangue su uno di quei cosi da laboratorio che servono a produrre la specialità della casa ("Baby blue"). L'anima evapora dal corpo sotto forma d’inquadratura che sale e parte un'air-metal da fine '80 preso SICURAMENTE dal videotributo di qualche fan (privo fisicamente di orecchie) che serve a farti venire il magone. A un certo punto sembra il finale agnostico di Settimo Cielo dove il pastore muore sposando una delle figlie gravide e intorno era tutto un coro "Praise the Lord!" (me lo sto inventando NO SPOILER).

Questo è perché per il finale pensavo meglio, il resto ha bisogno di riflessioni più lunghe. Poi "Special love I had for you" sì, è vero.

*= La storia del dentista è tratta dai Robinson, stagione 2 - episodio 16, e non c'entra nulla.
**= In senso figurato. 

Segnala un errore

Leave a comment