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In Brasile la maglia della nazionale di calcio è diventata un simbolo dell’estrema destra

12 Gennaio 2023 6 min lettura

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In Brasile la maglia della nazionale di calcio è diventata un simbolo dell’estrema destra

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C'è un colore dominante nell'assalto dei bolsonaristi alle istituzioni - Parlamento, Corte suprema e Palazzo presidenziale - avvenuto a Brasilia domenica scorsa. La maggior parte degli assalitori ha indossato infatti una maglia gialla, un colore che riporta al 2016, quando le strade del Brasile furono invase dalle proteste contro il governo di Dilma Rousseff, l’erede politica di Lula il cui esecutivo stava venendo travolto dalle accuse di corruzione. Già all’epoca, era il giallo (o meglio, il verdeoro) il colore dei manifestanti: come faceva notare sul Guardian Jonathan Watts, “Molti contestatori indossavano la maglia giallo canarino della nazionale di calcio”.

Era da quell’humus culturale che stava nascendo il consenso politico che due anni dopo avrebbe portato Bolsonaro alla presidenza. Qualcosa, nel rapporto tra calcio e politica in Brasile, stava prendendo all’epoca un piega particolare e insolita: l’amarelinha stava diventando un simbolo politico egemonizzato dall’estrema destra. Si apriva così una storia che è arrivata fino all’assalto dei giorni scorsi, e con la Federcalcio brasiliana che ha dovuto pubblicare un comunicato in cui rivendicava la maglia della nazionale come un simbolo “apartitico e democratico”, sconfessando i bolsonaristi. Ma come si è arrivati a questo punto?

La crisi del rapporto tra calcio e società

Nel corso dei decenni, il calcio in Brasile ha ricoperto vari ruoli: è stato una forma di riscatto sociale, uno strumento di oppressione razziale, un'arma di democratizzazione (si pensi all’esperienza corinthiana di Sócrates), una leva propagandistica della dittatura militare. Sostanzialmente, però, la Seleção ha mantenuto per tutta la sua esistenza un’aura abbastanza apolitica e super partes.

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Questo equilibrio ha iniziato a spezzarsi nei primi anni dello scorso decennio. Nel suo libro inchiesta sui Mondiali in Brasile Ladri di sport (Agenzia X, 2014), scritto assieme a Mauro Valeri, Ivan Grozny Compasso raccontava l’inizio di questa crisi. I Mondiali del 2014 erano stati, assieme alle Olimpiadi di Rio di due anni dopo, il grande coronamento della rinascita economica del paese sotto il governo di Lula, ma all’atto concreto si erano rivelati un incubo inimmaginabile sotto un governo di sinistra. Le grandi multinazionali avevano depredato, con il benestare dell’esecutivo, la piccola economia informale dei quartieri popolari e delle favelas, mentre colossali progetti urbanistici scacciavano i poveri sempre più ai margini delle comunità. I Mondiali erano stati accompagnati da una campagna di repressione politica, sfociata nelle grandi proteste del 2013: nessuno, prima di allora, poteva immaginarsi il Brasile protestare contro il calcio, con i murales di Neymar che venivano addirittura vandalizzati.

Era la rabbia di chi si sentiva traditi dal governo. La rabbia sociale finì per aggravarsi negli anni successivi a causa delle Olimpiadi di Rio de Janeiro e delle accuse di corruzione che screditarono ulteriormente l’amministrazione Rousseff. Nel 2010, Dilma aveva vinto le elezioni con 12 milioni di voti in più di José Serra, ma già nel 2014 il divario dal rivale Aécio Neves si era ridotto ad appena 3,5 milioni. L’opinione pubblica stava slittando da sinistra verso destra: uno studio condotto dall’Universidade Federal de Minas Gerais evidenziava già nel 2015 come la maggior parte dei manifestanti fossero di estrazione bianca e alto-borghese, ideologicamente conservatori e addirittura favorevoli all’intervento dell’esercito per rimuovere Rousseff. Un’altra indagine contemporanea indicava che tra i contestatori vi era un robusto consenso in favore dell’allora deputato dello stato di Rio, Jair Bolsonaro.

Bolsonaro divenne il nome di punta della destra, capitalizzando la fama ottenuta durante le proteste, tanto che già nel marzo 2016 annunciava di voler correre per la presidenza. Nel frattempo, le proteste della destra avevano messo in luce una cambio di prospettiva nei confronti del calcio rispetto a quelle del 2013: la maglia della nazionale era divenuta un simbolo identitario e nazionalista fortissimo, andando a rappresentare il “popolo brasiliano” che si opponeva all’èlite governativa. Bolsonaro colse la palla al balzo e fece della maglia verdeoro, e più in generale del supporto del mondo del calcio, la sua esatta cifra politica. Nel 2018 - dopo una campagna condotta con il supporto esplicito di notissimi calciatori ed ex-calciatori come Rivaldo, Ronaldinho, Kaká, Lucas Moura e Felipe Melo - vinse le elezioni staccando di oltre 10 milioni di voti il candidato trabalhista Fernando Haddad.

Una battaglia culturale

I recenti fatti di Brasilia erano purtroppo ben prevedibili cinque anni fa. Già allora, pochi mesi prima del voto, lo scrittore Marcelo Rubens Paiva dichiarava alla rivista Época: “Non si può più utilizzare la maglia della Seleção, che si è trasformata nel simbolo di una massa comandata da golpisti”.

Capire come la maglia di una nazionale di calcio possa diventare un simbolo politico nazionalista è abbastanza semplice, ma tutt’altro che scontato, se consideriamo che anche lo storico Eric J. Hobsbawm ha sentito il bisogno di parlarne (in Nations and nationalism since 1780. Programme, myth, reality, 1992). Bolsonaro non ha fatto altro che seguire un impulso fisiologico delle manifestazioni del 2015 e 2016, a cui poi si è aggiunto il bisogno, da parte dell’elettorato di sinistra, di allontanarsi ancora di più dalla Seleção, già compromessa ai loro occhi dalle conseguenze dell’organizzazione del Mondiale del 2014.

In Italia, questo aspetto del dibattito è stato a lungo sottovalutato, anche se nel maggio 2016 Doppiozero ha pubblicato un interessante articolo del semiologo Paolo Demuru sull’uso simbolico dell’amarelinha da parte della destra brasiliana sempre più radicale. Per Demuru,  con la crisi sportiva del calcio brasiliano - senza trofei dalla Copa América del 2007, e addirittura travolto, nel Mondiale casalingo che lo vedeva favorito assoluto, 7-1 dalla Germania - “il desiderio di partecipazione e il senso d’appartenenza che la narrazione sul calcio riusciva prima a soddisfare si sono riversati sul terreno della narrazione politica”. Citando Umberto Eco, Demuru ricordava che il potere è “il possesso della chiave dell’interpretazione” del simbolo, e metteva in guardia da chi avrebbe potuto impossessarsi del simbolo per padroneggiarne il potere. E concludeva, infine, usando quella parola che all’epoca pareva tanto esagerata quanto oggi naturale: “l’impeachment [di Rousseff, ndr] è un colpo di stato mascherato, un golpe”.

In seguito Bolsonaro ha cercato di andare oltre, provando a egemonizzare l’intero mondo del calcio brasiliano:. In questi quattro anni di governo, non ha mai mancato di farsi ritrarre allo stadio in varie partite di campionato, o mostrarsi sui social con magliette di vari club locali. Se di Matteo Salvini, o di qualunque altro politico italiano, possiamo sapere senza difficoltà che squadra tifi, dell’ormai ex Presidente brasiliano non è mai stato possibile, poiché a turno ha girato quasi tutti i club del paese, come se li tifasse tutti. Naturalmente la nazionale è rimasta il suo pallino principale: quando nel 2019 il Brasile è tornato a vincere la Copa América, Bolsonaro si è fatto ritrarre nelle foto di rito assieme alla squadra con il trofeo tra le mani.

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Alla fine, la Seleção è rimasta il suo unico vero appiglio sportivo, dato che in particolar modo negli ultimi anni diverse tifoserie dei club (e anche un po’ di calciatori) hanno iniziato a organizzare manifestazioni contro di lui e, nei mesi immediatamente precedenti le ultime elezioni, in favore di Lula. D’altronde, nelle manifestazioni pro-democrazia che nella giornata di lunedì hanno risposto all’assalto di Brasilia, gli ultras sono stati di nuovo parte attiva. Ma anche questo è un segno di quanto il Brasile sia spaccato: la destra che si identifica nella nazionale, la sinistra che invece veste i colori dei club.

Alle elezioni dello scorso ottobre, Bolsonaro aveva invitato i suoi sostenitori ad andare a votare indossando la maglia verdeoro, per rivendicare come suo quel simbolo, divenuto per la destra un tratto distintivo tra i “veri” brasiliani e tutti gli altri. Invece il Brasile - anche se con uno scarto molto ridotto: circa 2 milioni di voti - ha scelto Lula. E il nuovo Presidente ha subito dovuto fare un appello alla popolazione per riappropriarsi della maglia amarelinha usurpata dai bolsonaristi (anche perché, di lì a pochi giorni, sarebbero iniziati i Mondiali in Qatar). I fatti di pochi giorni fa testimoniano che c’è ancora molta strada da fare, ma quella per i colori della Seleção si annuncia come una tra le più importanti battaglie culturali che il nuovo governo dovrà combattere.

(Immagine in anteprima via Wikimedia Commons)

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