Da Tuzla a Sarajevo, da Bihać a Velika Kladuša: i volontari e attivisti, bosniaci o internazionali, che supportano dal basso i diritti e le necessità dei migranti in transito in Bosnia ed Erzegovina
7 min letturadi Duccio Facchini e Manuela Valsecchi (reportage pubblicato con l'autorizzazione di Altreconomia. È possibile sostenere Altreconomia qui con una donazione o abbonarsi alla rivista)
“Lo sanno tutti quello che succede da queste parti: i croati che ci picchiano se tentiamo di attraversare la frontiera, l’Europa che ci respinge. Che cosa volete che vi racconti?”. Zakaria è un giovane uomo afghano di etnia hazāra che se ne è andato da Kabul. Ha raggiunto la cittadina di Velika Kladuša, nel Cantone Una Sana, nel Nord-Ovest della Bosnia ed Erzegovina. A inizio novembre è qui, solo e bloccato in un insediamento informale all’addiaccio chiamato “Elicottero”: non c’è alcuna pista d’atterraggio ma solo fango e qualche albero. Il resto della sua famiglia è in Svezia. Lui, più volte respinto con brutalità dagli agenti croati quando ha tentato di attraversare i boschi, si considera fortunato: “Accanto a me c’è un compagno che ha moglie e tre figli al seguito”, dice indicando la tenda dei vicini dove bambini piccolissimi mangiano per terra.
Fa freddo e non è ancora arrivato l’inverno. Al 31 ottobre le Nazioni Unite stimano tra le 800 e le 1.100 persone al di fuori dei campi istituzionali (che ne ospitano poco meno di 3mila). È a persone come Zakaria che l’Ue nega intenzionalmente l’accesso alla protezione, preferendo confinarle in Bosnia ed Erzegovina in condizioni degradanti. Una strategia della deterrenza che si protrae da anni nel Paese divenuto, dal 2018, crocevia per decine di migliaia di rifugiati provenienti da aree di conflitto e di elevata instabilità politica del Medio Oriente e in particolare da Afghanistan, Siria, Iraq e Pakistan. Tra il gennaio 2018 e la fine del 2021 ne hanno pagato il conto almeno 84mila persone, quelle che sarebbero entrate “irregolarmente” in Bosnia ed Erzegovina e che sono state censite dalle istituzioni internazionali (Unhcr, Oim).
Tra i pochi che supportano le persone di questo squat c’è anche una piccola organizzazione di volontari locali che si chiama Rahma. I suoi membri portano coperte e vestiti alle persone che vivono nelle tende, oggetto di frequenti sgomberi. Saldano anche cerchioni delle auto per creare forni da campo dove bruciare legna, cucinare qualcosa, scaldarsi.
Rahma è una delle realtà finanziate nella primavera di quest’anno dalla rete italiana RiVolti ai Balcani, nata nel 2019 e composta da oltre 35 organizzazioni (Altreconomia è tra i fondatori e ha contribuito alla realizzazione di importanti dossier di denuncia). Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre 2021 una delegazione della rete ha svolto una missione di monitoraggio dei progetti solidali verso le persone in movimento, supportati complessivamente con 55mila euro, parte delle donazioni ricevute grazie alla campagna di raccolta fondi lanciata nel dicembre 2020 dopo l’incendio del campo profughi di Lipa. Siamo andati con loro per incontrare decine di volontari e attivisti, bosniaci o internazionali, impegnati su un campo dismesso dalle istituzioni europee e non solo: quello della solidarietà quotidiana, dal basso.
Il viaggio inizia a Tuzla, la città della “liberazione” per gli scampati al genocidio di Srebrenica del 1995, a Nord-Est di Sarajevo. Da quattro anni qui giungono i migranti in transito prevalentemente dalla vicina Serbia. È un punto nodale della rotta interna al Paese che conduce verso le zone di frontiera con la Croazia come Bihać e Velika Kladuša. Il luogo chiave della solidarietà è la stazione degli autobus e dei treni, dove a gennaio 2020 c’era una tendopoli abitata da 1.000 persone. Da oltre quattro anni diversi volontari aiutano notte e giorno le famiglie o i singoli di passaggio (ultimamente provenienti anche da Ghana e Gambia), fornendo loro generi di prima necessità come cibo, vestiti, sacchi a pelo, il biglietto del pullman per raggiungere Sarajevo e tentare di continuare il percorso (il treno per Bihać è stato cancellato).
Tra loro ci sono anche Nihad e Senad. Economista il primo, giornalista il secondo, ci accolgono in un ristorante di Tuzla per raccontarci il loro impegno quotidiano. “Quello che facciamo non è un ‘aiuto’ -premette Nihad- è solidarietà, è il rispetto della vita umana”. È capitato che accompagnassero le persone in ospedale o le ospitassero a casa per la notte. “Noi apriamo lo zaino e diamo quel che abbiamo lì dentro”. Denunciano l’incapacità delle autorità governative nonché la presenza “mediatica” delle organizzazioni internazionali. “Alle quattro del pomeriggio staccano e se ne vanno, fanno solo la foto con i migranti alla consegna degli aiuti”, è un grosso problema, accusa Senad, che per la sua attività è stato attaccato e diffamato sui social network (ha portato in tribunale i responsabili). Quando visitiamo il magazzino dei volontari -sostenuti economicamente da RiVolti- alcuni operai stanno montando inferriate per proteggere il sito da “incursioni”. Oltre ad aiutare i migranti, Nihad e Senad si ritrovano anche a pulire l’area di passaggio, volutamente trascurata dalle autorità per alimentare un clima di intolleranza. Il dito e la luna in una delle città più inquinate d’Europa per via del carbone.
Altri due progetti solidali di Tuzla sono quelli portati avanti dall’associazione Emmaus e dal centro Puz, anche questi sostenuti da RiVolti ai Balcani. Il primo mette a disposizione un “daily center” dove “persone esauste possono farsi una doccia, bere un tè caldo, lavare i vestiti e prenderne di nuovi, ricaricare i telefoni, cucinare qualcosa, tagliarsi i capelli e parlare”, racconta Dzeneta. Nel cortile c’è un murale in inglese che ricorda: “I miei sogni non sono illegali”. È un luogo dove 20-30 persone in media al giorno possono incontrare una figura “amica”, ricevere sostegno psicologico, raccogliere informazioni sui propri diritti e sul sistema di accoglienza bosniaco. Il centro Puz coordinato da Daniel ad esempio in tre anni scarsi ha aiutato qualcosa come 18mila persone, messo a disposizione nel tempo due “case sicure” per i più vulnerabili (almeno 800 quelli accolti), e supportato nell’iter quasi 200 richiedenti asilo. Con i fondi di RiVolti sta pagando l’affitto di tre appartamenti a Tuzla per fornire un tetto a chi ha fatto domanda di protezione, sviluppando nove piani individuali in un embrionale progetto di “accoglienza diffusa”.
A qualche ora di auto da lì c’è Compass 071, una delle antenne solidali di Sarajevo. La capitale è un altro snodo della rotta. L’organizzazione, nata da un nucleo di singoli volontari su strada, si è attrezzata per offrire servizi essenziali presso un locale appena ristrutturato anche grazie alla rete italiana. Ogni giorno passano tra le 70 e le 140 persone per farsi una doccia, lavare i vestiti, bere qualcosa, ottenere supporto psicologico e legale oltreché ricaricare il telefono o utilizzare un pc. “Il nostro centro -spiega Ilma, una delle volontarie- è aperto a ognuno, non importano etnia, nazionalità, religione, orientamento sessuale o politico. Vogliamo solo creare un luogo sicuro per chiunque ne abbia bisogno”. Non mancano i detrattori e ogni tanto la polizia passa a fare visita. Siamo al punto che i ragazzi devono spazzare la strada per dimostrare le proprie “buone intenzioni”.
Poco distante c’è l’ottica di Hasan Avci, giovane rifugiato turco che collabora con i volontari della Ong Collective Aid. Nell’arco di pochi mesi ha fornito presso il suo negozio ereditato dal suocero una visita medica e un paio di occhiali ad almeno 100 persone in movimento a prezzi calmierati (a carico di RiVolti ai Balcani). Quando lo incontriamo in un bar del quartiere racconta di una lettera ricevuta da una delle persone che ha supportato: “Mi ha scritto che non aveva mai usato gli occhiali prima d’ora. ‘Il mondo è bellissimo’”.
Lenti, scarpe e telefoni sono i primi beni dei migranti che la polizia croata distrugge, poco prima di rimandarli indietro (una “catena” di respingimenti che può partire anche dalla frontiera italo-slovena). Lo sa bene Anela, che dalla fine del 2017, a Bihać, a ridosso della frontiera Nord, aiuta “i migranti e chiunque abbia bisogno d’aiuto”. Ha iniziato a raccogliere e distribuire cibo e vestiti insieme ad amici. Oggi, con il figlio neo-maggiorenne e una vicina, ha riadattato un intero magazzino “domestico” per stoccare giacconi, coperte, scarponcini, cibo, tende e medicinali. La “colpa” di aiutare le persone le ha attirato campagne d’odio e la sua piccola attività di pensione ci ha rimesso.
Le autorità del resto giocano contro la solidarietà: nel Cantone Una Sana, dove ricade la cittadina, sono in vigore divieti propagandistici come quello che impedisce a realtà informali “non autorizzate” di distribuire aiuti alle persone in stato di necessità. Anela, punto di riferimento dei volontari internazionali, sottolinea la collaborazione ad esempio con la Croce Rossa di Bihać o con Ipsia-Acli per la distribuzione degli aiuti. Sempre a Bihać, RiVolti ai Balcani ha contribuito in maniera decisiva (oltre 40mila euro) alla predisposizione delle cucine della Croce Rossa locale, dotata presso la propria sede anche di un sistema di lavanderia che ha in capo quel che arriva dalla remota tendopoli di Lipa, a 30 chilometri dal magazzino di Anela. Bihać è una città che vuole respirare. Non è detto che sia obbligatoria la distribuzione di un aiuto.
Lo ricorda Marine, fondatrice dell’associazione u Pokretu (“In movimento”). In uno stabile della Municipalità di Bihać, proprio di fronte allo scheletro a rustico del Dom Penzionera più volte sgomberato e oggi chiuso da grate, stanno ristrutturando uno spazio di socialità, condivisione, dialogo e interazione. Dalla primavera di quest’anno -anche grazie ai finanziamenti di RiVolti- i volontari hanno organizzato una rassegna cinematografica e mercatini aperti alle persone in transito ma soprattutto ai residenti. Stanno ristrutturando uno stabile per fare laboratori, corsi di formazione, esposizioni. Un’umanità che si lega con i volontari della stazione di Tuzla e che si ritrova nelle parole di Dario, proprietario di un piccolo market a Velika Kladuša. Rifugiatosi a Toronto nel 1994, è tornato a casa vent’anni dopo. Il suo negozio aderisce all’iniziativa dei voucher digitali solidali che garantiscono un paniere di beni ai migranti (per spese da 9 a 35 marchi, ovvero 5-18 euro). Lo copre No Name Kitchen, altra realtà sostenuta dalla rete. Dario lo fa innanzitutto per sé. “Qui intorno ci sono almeno 500 persone nei boschi. Le temperature a gennaio e febbraio crollano. Non hanno diritto a fare la spesa come chiunque altro? E poi era una vita che non vedevo bambini correre per strada qui fuori”.
Foto anteprima: Anela, attivista bosniaca di Bihać, cittadina a Nord-Ovest della Bosnia ed Erzegovina. Nel magazzino di casa raccoglie beni di prima necessità. Dal 2017 è un punto di riferimento per i volontari internazionali e non si fa spaventare dai propagandistici divieti delle autorità © Manuela Valsecchi