Il voto in Bosnia Erzegovina lascia il paese ancora senza vincitori e ancora più diviso tra spinte secessioniste e interessi geopolitici
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Il 2 ottobre la Bosnia Erzegovina è andata al voto nel bel mezzo della peggior crisi politico-istituzionale della sua breve storia di paese indipendente. Il sistema ideato dagli Accordi di Dayton che posero fine alla guerra nel 1995 è considerato tra i più complicati al mondo ed è costantemente messo a dura prova dalle spinte secessioniste e segregazioniste delle correnti nazionaliste serba e croata. La corruzione dilagante, l’alta percentuale di disoccupazione e l’esodo di massa, soprattutto dei più giovani, tolgono linfa vitale alla società civile e alle forze politiche che si battono per una Bosnia Erzegovina unita, democratica e realmente multietnica.
I risultati hanno visto i partiti non nazionalisti ottenere la maggioranza alla presidenza nazionale, ma il loro parziale successo è stato oscurato dalla mossa dell’Alto Rappresentante che ha modificato la legge elettorale e la Costituzione dell’entità della Federazione di Bosnia Erzegovina poco dopo la chiusura dei seggi. Questo ha scatenato un’ulteriore divisione della società su base etnica e sottolineato le spaccature presenti all’interno della comunità internazionale.
In questo articolo vediamo come è diviso il paese dal punto di vista territoriale e politico-amministrativo, per cosa si è votato e perché queste elezioni sono importanti per il futuro del paese.
"In Bosnia ci sono più politici che abitanti"
La divisione territoriale e politico-amministrativa della Bosnia Erzegovina è scaturita dagli Accordi di pace di Dayton che nel 1995 posero fine alla guerra.
Il paese balcanico è diviso in due entità, la Federazione di Bosnia Erzegovina (FBiH) e la Republika Srpska (RS). Il distretto autonomo di Brčko, istituito nel 2000, completa il quadro territoriale. L’entità della FBiH detiene il 51% del territorio ed è a sua volta divisa in dieci cantoni, di cui sei a maggioranza bosgnacca (bosniaco-musulmana) e quattro a maggioranza croata. La RS, che gestisce il restante 49% del territorio, è a maggioranza serba.
La struttura politica della Bosnia Erzegovina si compone di quattro livelli. Al primo livello abbiamo lo Stato centrale guidato da una presidenza tripartita, i cui tre posti sono equamente assegnati a membri dei popoli costitutivi (bosgnacchi, serbi e croati) che ruotano ogni otto mesi durante un mandato quadriennale. Il secondo livello è quello delle sopracitate entità: entrambe possiedono una Costituzione e un governo propri. Il terzo livello corrisponde ai cantoni, anch’essi dotati di proprie istituzioni legislative, esecutive e giudiziarie. A ogni cantone appartengono alcune competenze esclusive, su tutte il corpo di polizia e il sistema educativo. Il resto delle responsabilità, tra cui i trasporti e i sistemi sanitario e di protezione sociale, sono condivise con le autorità dell'entità. Infine, al quarto livello (il terzo per la RS) troviamo le municipalità: sono 143, di cui 79 in FBiH e 64 in RS.
Questo sistema cervellotico, che è un esempio di consociativismo in cui i tre principali gruppi etnici del paese si spartiscono la torta, ha prodotto 14 governi, 13 premier e ben 166 ministeri. I candidati alle ultime elezioni, per tutti i livelli amministrativi, erano 7.258. Non è un caso, dunque, che i cittadini bosniaco-erzegovesi scherzino sul fatto che nel paese ci sono più politici che abitanti.
Per cosa si votava
I votanti in Bosnia Erzegovina, ufficialmente 3.368.666 tra residenti e membri della diaspora, avevano di fronte a sé quattro schede elettorali differenti. Tutti, indipendentemente dall’entità di riferimento, erano chiamati a votare i tre membri della presidenza e il parlamento nazionale. Coloro che risiedono nella FBiH dovevano eleggere anche il parlamento dell’entità e le assemblee cantonali, mentre i residenti in RS la presidenza e il parlamento dell’entità.
Da notare che i membri bosgnacco e croato della presidenza nazionale possono essere eletti esclusivamente dai residenti nell’entità della FBiH, mentre il membro serbo da coloro che risiedono in RS.
Nelle prime ore successive alla chiusura dei seggi, sistemi di calcolo in possesso dei partiti più rilevanti hanno cominciato a fornire in tempo reale risultati attendibili, ma provvisori. Quelli ufficiali e definitivi dovrebbero essere confermati al più tardi il 1 novembre, secondo la tabella di marcia pubblicata dalla Commissione Elettorale Centrale (CIK) sul proprio sito.
La parziale vittoria dei non nazionalisti
La struttura multilivello della Bosnia Erzegovina obbliga a letture multiple e talvolta contraddittorie delle elezioni. Mano a mano che il lento e non ancora completo spoglio da parte della CIK andava avanti (secondo l’ultimo aggiornamento ufficiale del 16 ottobre sono state scrutinate tra il 94% e il 99% delle schede elettorali di ogni livello amministrativo), le prime proiezioni hanno trovato conferma. Al netto del 50% di astensionismo, che dimostra la scarsa fiducia dei cittadini nella classe politica, è possibile fare due considerazioni.
La prima vede la vittoria dei candidati non nazionalisti alla presidenza nazionale. Per la prima volta nella breve storia del paese i membri non nazionalisti saranno la maggioranza grazie al successo dei social-democratici Denis Bećirović e Željko Komšić nella corsa alla posizione, rispettivamente, di membro bosgnacco e croato. Il primo ha sconfitto Bakir Izetbegović, figlio del primo presidente della Bosnia Erzegovina indipendente Alija Izetbegović e leader del Partito d'Azione Democratica (SDA), principale partito nazionalista bosgnacco che finora aveva sempre avuto un suo rappresentante alla presidenza. Il secondo ha avuto la meglio di Borjana Krišto, candidata dell'Unione Democratica Croata (HDZ BiH), principale partito nazionalista croato e gemello del partito al governo in Croazia. Anche se appartenente al SNSD, nominalmente il Partito dei Socialdemocratici Indipendenti in RS, Željka Cvijanović è la delfina del leader secessionista Milorad Dodik ed è da considerarsi l’unica rappresentante nazionalista alla presidenza.
Nei restanti livelli amministrativi, invece, certifica l’ennesima vittoria dei tradizionali partiti etno-nazionalisti. Se alcune grandi città, in particolare la capitale Sarajevo, hanno dato segnali di cambiamento già alle elezioni locali del 2020, spodestando i partiti di cui sopra, non si può dire altrettanto per il resto del paese.
Secondo l’ultimo censimento controverso del 2013, l’unico effettuato dopo la dichiarazione d’indipendenza del 1992, gran parte degli abitanti della Bosnia Erzegovina vive in zone rurali o periferiche in cui la rete clientelare dei partiti etno-nazionalisti è ben radicata. Oltre alla retorica identitaria che insinua la paura del giudizio in coloro che vorrebbero votare a prescindere dall’appartenenza etnica, il consolidamento di queste reti è favorito dalla precarietà in cui versa gran parte della popolazione. Il tasso di disoccupazione, che a luglio 2022 superava di poco il 30%, spinge molte persone a votare in cambio di lavoro o denaro. Secondo varie indiscrezioni, quest’anno il valore di un voto avrebbe raggiunto i 200 marchi (circa 100 euro).
“Le assunzioni si effettuano quasi esclusivamente su base etnica,” afferma Azra Zornić, ex consulente legale della Corte Costituzionale e attivista per una Bosnia Erzegovina unita e realmente multietnica. “In ogni azienda pubblica ci sono quote da assegnare ai tre gruppi etnici principali. Spesso funziona così anche nelle aziende private, dove teoricamente questo principio potrebbe decadere, perché i proprietari delle aziende appartengono loro stessi a uno dei tre gruppi etnici e di conseguenza sono legati a uno dei partiti etno-nazionalisti”.
Il fatto che proliferino queste reti clientelari mette in dubbio la validità dell’egemonia dei partiti etno-nazionalisti che si sta nuovamente delineando. È opinione piuttosto diffusa, ma difficilmente verificabile, che molti cittadini vorrebbero liberarsi di questi partiti e permettere alle forze più progressiste di lavorare assieme alla modifica della Costituzione che svincoli il funzionamento della società dall’appartenenza etnica. Ciò è emerso appunto dall’elezione dei nuovi presidenti, anche se la presidenza nazionale è un’istituzione alquanto simbolica all’interno di un sistema parlamentare. Per poter far uscire la Bosnia Erzegovina dallo stallo in cui è intrappolata sin dal 1995 è necessario che i partiti progressisti e multietnici facciano breccia anche al di fuori delle città principali. “I cittadini seguono le persone,” sottolinea Omer Berbić, prossimo candidato sindaco di Tuzla. “Se si riesce a piazzare figure credibili e amate del proprio partito o coalizione nel resto delle municipalità che contano, poi si può puntare ai cantoni e infine alle entità”.
La mossa di Schmidt
La sera del 2 ottobre, a scrutinio in pieno svolgimento e mentre si discuteva già delle possibili coalizioni di governo, è entrato in scena l’Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina, la massima autorità politica del paese. Una sorta di viceré nominato dal Consiglio per l’attuazione della pace (PIC) che ha il compito di far rispettare gli Accordi di Dayton e che, tra i vari poteri, ha anche quello di imporre nuove leggi senza dover richiedere il consenso alle autorità locali. Questo controllo internazionale sulla Bosnia Erzegovina durerà fino a quando il paese non sarà ritenuto politicamente e democraticamente stabile e autosufficiente.
Sfruttando i poteri conferitigli dal PIC a Bonn nel 1997, circa un’ora dopo la chiusura dei seggi Christian Schmidt ha comunicato alcune modifiche alla legge elettorale e alla Costituzione della Federazione di Bosnia Erzegovina, scatenando l’aspra reazione dell’opinione pubblica bosniaco-erzegovese che lo accusa di aver cambiato le carte in tavola a scrutinio in corso e oscurato l’importanza delle elezioni. Komšić, leader del partito multietnico Demokratska Fronta (DF) e ufficiosamente rieletto alla presidenza come membro croato, ha presentato ricorso alla Corte Costituzionale della Bosnia Erzegovina affinché vengano annullate le modifiche imposte dall’Alto Rappresentante.
Le modifiche principali riguardano la Camera dei Popoli della FBiH, la camera alta del parlamento dell’entità progettata per consentire ai tre principali gruppi etnici di esercitare un notevole potere decisionale.
Prima del 2 ottobre i 58 delegati della Camera dei Popoli venivano scelti dalle 10 assemblee cantonali: a ciascuno dei tre principali gruppi etnici spettavano 17 seggi, mentre gli altri 7 appartenevano agli “altri”, una categoria costituzionale che comprende le minoranze etniche e coloro che non si identificano con nessuno dei tre principali gruppi etnici. Schmidt ha aumentato il numero totale dei delegati a 80 (23 seggi a testa per i tre popoli costitutivi e 11 per gli “altri”) e modificato la modalità con cui vengono eletti, precisando che le modifiche erano necessarie per evitare ostruzioni come quella con cui l’HDZ BiH, il principale partito nazionalista croato, ha impedito la formazione del governo della FBiH durante lo scorso mandato.
Come ha spiegato nel suo articolo per Euronews il giornalista bosniaco Aleksandar Brezar, l’aumento dei seggi consente ora agli “altri” di selezionare un rappresentante per ogni cantone, ma la modalità con cui i delegati vengono eletti dalle assemblee cantonali consolida i tre gruppi etnici, rafforzando il potere dei loro rappresentanti. Mentre prima erano le intere assemblee di ogni cantone a eleggere quali rappresentanti etnici sarebbero saliti alla Camera dei Popoli, ora ogni caucus etnico approva i propri delegati. In parole più semplici: i bosgnacchi scelgono quali rappresentanti bosgnacchi di un certo cantone andranno alla Camera dei Popoli e lo stesso vale per gli altri gruppi etnici e per la categoria “altri”. E come mostrano le prime analisi, la distribuzione del numero dei delegati di ogni cantone favorisce i grandi partiti etno-nazionalisti e i loro candidati. Su tutti l’HDZ BiH di Dragan Čović. Infatti, la seconda accusa del blocco di partiti che si definisce pro-Bosnia Erzegovina sostiene che la riforma di Schmidt favorisca esclusivamente i croato-nazionalisti dell’HDZ BiH, che sono stati gli unici promotori di una riforma che, secondo loro, risolverà il problema di rappresentatività della comunità croata all'interno del governo federale. Zagabria, nella persona del primo ministro Andrej Plenković, non ha nascosto l'attività di lobbying portata avanti negli ultimi mesi e ha espresso la sua soddisfazione per il risultato ottenuto.
Le modifiche dell’Alto Rappresentante avrebbero già ingolosito i croato-bosniaci e i loro alleati a Zagabria. Anđelko Maslać, portavoce dell’HDZ BiH, ha dichiarato che “ora l’obiettivo prioritario è portare a termine una completa riforma della legge elettorale”. Lunedì 3 ottobre il presidente croato Zoran Milanović ha fatto sapere che garantirà il suo appoggio alla comunità croata in Bosnia Erzegovina se questa dovesse richiedere una maggiore autonomia. Fosse anche sotto forma di una terza entità che, va da sé, minerebbe le fondamenta della già instabile integrità territoriale del paese.
Komšić, leader del partito multietnico Demokratska Fronta (DF) e ufficiosamente rieletto alla presidenza come membro croato, ha presentato ricorso alla Corte Costituzionale della Bosnia Erzegovina affinché vengano annullate le modifiche imposte dall’Alto Rappresentante. Komšić, inoltre, ha chiesto alla CIK di non convalidare i risultati fino a che la Corte Costituzionale non si sarà espressa.
Schmidt ha contribuito anche a rendere evidente la frattura in seno alle istituzioni che rappresentano la comunità internazionale in Bosnia Erzegovina. Le ambasciate di Stati Uniti d’America e Gran Bretagna hanno appoggiato la decisione. L’Unione Europea ne ha preso le distanze, sottolineando che Schmidt ha agito da solo. L’Eurodeputato austriaco dei Verdi Thomas Waitz ha giudicato l’azione del diplomatico tedesco “uno schiaffo in faccia agli elettori”. Insieme a una coalizione di rappresentanti dei parlamenti europeo, olandese, tedesco e francese, l’Eurodeputata Tineke Strik ha chiesto la revoca delle modifiche affermando che riforme del genere vanno implementate tramite un processo democratico e non imposte dall’alto.
La mossa di Schmidt viene dunque considerata da molti come l’ennesimo colpo inferto alle già flebili speranze di progresso di una popolazione che, dopo 30 anni di narrazioni nazionaliste, si è espressa a favore di candidati socialdemocratici.
“La possibilità di essere eletti alla Camera dei Popoli dipende da una combinazione di appartenenza etnica e luogo di residenza,” dice Damir Arnaut, avvocato esperto in diritto costituzionale e membro del partito multietnico Naša Stranka. “Questa è pura discriminazione. In un incontro con Schmidt precedente alle elezioni gli ho detto che se dovessi portarlo in tribunale vincerei”. Non è questa la via da seguire, secondo Arnaut, tenendo presente che ci sono già cinque sentenze della Corte Europea per i Diritti Umani che affermano che vincolare la candidabilità dei cittadini a principi etnici è incostituzionale. A una di queste cause, la cosiddetta sentenza Pilav, ha partecipato anche lo stesso Arnaut.
Inoltre, è interessante notare come Schmidt sia andato contro anche la risoluzione che il suo paese, la Germania, aveva adottato contro queste discriminazioni a luglio, poche settimane prima che Schmidt annunciasse la possibile implementazione della riforma elettorale. Quell’annuncio aveva portato il 25 luglio circa 7.000 persone in protesta sotto la sede dell’Alto Rappresentante, che aveva desistito e concesso alle forze politiche della FBiH altro tempo per trovare un accordo prima del suo intervento.
Frode in Republika Srpska
Nei giorni successivi alle elezioni varie irregolarità emerse durante il conteggio hanno minato la credibilità dell’intero processo elettorale. Dubbi sulla sua effettiva regolarità erano emersi già nella giornata di domenica quando a Bosanski Novi, in RS, cinque membri della commissione elettorale locale erano stati arrestati per aver portato al seggio varie schede elettorali precompilate. Ed è proprio la RS il centro delle principali tensioni. Dopo diverse proteste per le strade di Banja Luka e l’invio di numerose denunce da parte dell’opposizione, la CIK ha ordinato il riconteggio dei voti per la presidenza e la vicepresidenza della RS.
Durante la notte tra il 2 e il 3 ottobre Jelena Trivić, leader del Partito del Progresso Democratico (PDP), e Milorad Dodik si sono autoproclamati entrambi vincitori. Le prime proiezioni davano Trivić nettamente in vantaggio, tant’è che, accompagnata dal presidente del partito, è scesa a festeggiare in piazza insieme ai suoi sostenitori. La mattina seguente, con già un numero consistente di seggi scrutinati, la CIK ha rivelato come Dodik fosse in realtà avanti di circa 30mila voti. Un vantaggio che si è mantenuto tale con ancora 44 seggi da scrutinare.
I voti degli altri 2.195 seggi elettorali dovranno essere contati nuovamente. Nella conferenza stampa di lunedì 10 ottobre la CIK ha comunicato di aver preso in considerazione diverse obiezioni e aver avuto accesso a prove e materiale video che testimoniano casi di frode. “Il processo elettorale è così contaminato che non è possibile determinarne i risultati esatti”, ha affermato il presidente della CIK Suad Arnautović. Allargando lo sguardo all’intero territorio nazionale, il team legale della coalizione civile “Pod Lupom” (Sotto Controllo), che è stata fondata nel 2014 con l’obiettivo di osservare le elezioni in maniera imparziale, ha esaminato 91 gravi violazioni del processo elettorale. Alcune di esse potrebbero influire sui risultati finali. Armin Fazlić su Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa scrive che altri candidati di entrambe le entità hanno segnalato irregolarità e che sono state registrate anche varie pressioni sugli elettori.
Milorad Dodik ha criticato l’annuncio del riconteggio in RS e ha minacciato nuovamente di avanzare col processo di secessione. Coloro che aspirano a una Bosnia Erzegovina libera dagli etno-nazionalismi sperano nella sconfitta di Dodik, ma Trivić suonerebbe una musica molto simile. “In RS esiste un’opposizione, ma è solo politica, non ideologica,” sostiene Samir Beharić, ricercatore e analista politico. “Non c’è partito che non sia pro-secessione, che non neghi il genocidio e glorifichi i criminali di guerra o che, in un modo o nell’altro, non sia filorusso”.
La RS è infatti un’entità etnicamente molto più omogenea della FBiH ed è invasa da una retorica nazionalista ancor più accesa. È irrealistico aspettarsi un cambiamento a breve termine. Ed è proprio in quest’ottica che sarebbe fondamentale far evadere l’altra entità dalla gabbia della separazione etnica. Il rischio è quello di veder Sarajevo sempre più schiacciata tra la spinta secessionista della RS proveniente dal nordest e quella segregazionista dell’HDZ BiH nella parte sudoccidentale. Non è casuale che queste spinte abbiano trovato terreno più fertile recentemente. Dodik e Čović, i leader principali delle correnti nazionaliste serba e croata, sono alleati nella destabilizzazione della Bosnia Erzegovina e si supportano a vicenda.
Un supporto ulteriore arriva anche dagli altri leader autoritari dell’est Europa. I legami tra Čović e le frange più estreme d’Europa sono meno visibili, mentre Dodik non perde occasione per mostrare pubblicamente le sue amicizie. In occasione di queste elezioni il presidente serbo Aleksandar Vučić ha mandato segnali ambigui, ma manifesti con il volto di Dodik erano ovunque a Belgrado. Il presidente ungherese Viktor Orbán ha inviato un video di sostegno alla vigilia del voto. L’endorsement più significativo è arrivato dalla Russia di Vladimir Putin, che ha ospitato Dodik a Mosca il 20 settembre esprimendogli il suo appoggio. L’incontro si è rivelato particolarmente utile per Dodik, che in RS ha perso un po’ di consenso e aveva bisogno di riguadagnare le simpatie dei moltissimi filorussi che vivono nell’entità. Putin è sempre pronto a sfruttare l’area dei Balcani occidentali come arma di distrazione nei confronti dell’Occidente. In particolare la Bosnia Erzegovina, che dipende interamente dalla Russia per le sue provvigioni di gas.
Stati Uniti, Unione Europea, Ungheria, Serbia, Croazia e Russia, senza dimenticare la Cina e la Turchia, che in questo momento non sembrano avere particolari obiettivi strategici da perseguire: la Bosnia Erzegovina attira un coacervo di interessi geopolitici di numerosi attori esterni. Sullo sfondo le sofferenze dei cittadini locali che stanno abbandonando in massa il paese. Più di 400.000 bosniaci sono emigrati negli ultimi otto anni. Teo, 40enne di Mostar con un passato in Spagna, è stato categorico al riguardo: “Se i partiti nazionalisti resteranno ancora al potere, me ne andrò di nuovo”.
Immagine in anteprima: frame video Al Jazeera via YouTube