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Crisi migratoria in Bosnia: una guerra fra poveri cavalcata dai nazionalisti e “finanziata” dall’Europa

21 Marzo 2021 17 min lettura

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Crisi migratoria in Bosnia: una guerra fra poveri cavalcata dai nazionalisti e “finanziata” dall’Europa

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di Alia Alex Čizmić

Il 4 marzo in una zona boscosa nei pressi di Saborsko, un villaggio croato a circa 40 km dal confine con la Bosnia Erzegovina, un migrante di nazionalità ancora sconosciuta ha perso la vita dopo essersi imbattuto in una mina antiuomo. Secondo Andreja Lenard, portavoce della polizia di Karlovac, regione amministrativa a cui appartiene Saborsko, altre quattro persone, di cui due pakistani, sono rimaste ferite. Una sarebbe in pericolo di vita.

Quella mina fatale era una delle circa 17mila ancora presenti in Croazia, stando ai dati del Ministero dell’Interno croato. Saborsko, vittima di un massacro in cui furono brutalmente uccise 29 persone il 12 novembre 1991 durante la guerra che ha portato alla dissoluzione della Jugoslavia, è uno dei 46 comuni contaminati.

Il problema delle mine inesplose riguarda anche la Bosnia Erzegovina, dove 617 persone sono morte accidentalmente o in operazioni di sminamento dalla fine della guerra. Il Centro di Rimozione Mine della Bosnia Erzegovina stima che l’1,97% del territorio debba ancora essere sminato. Un compito non semplice, dato che gli smottamenti che si sono verificati nel corso degli anni, in particolare durante le alluvioni del 2014, hanno reso più ardua la mappatura delle mine.

L’incidente di Saborsko, per quanto casuale, era preventivabile. È strettamente collegato alle politiche migratorie repressive dell’Unione Europea e del governo croato che ormai dal 2018 respingono violentemente i migranti al confine, costringendoli a ripensare il loro viaggio e a percorrere in notturna rotte pericolose attraverso boschi e montagne, con il rischio di non notare i 10.451 segnali di avvertimento che in Croazia indicano le zone minate.

Tra l’altro, anche alcuni centri di accoglienza temporanei costruiti in Bosnia Erzegovina, come il centro di Vučjak chiuso nel dicembre 2019, o quello di Lipa aperto nell’aprile 2020, sono circondati da o vicini a zone minate. Ciò mette costantemente a rischio la vita dei circa 9.000 migranti - di cui circa 3.000 esclusi dal sistema d’accoglienza dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) - che oggi tentano di sopravvivere nel paese balcanico. Soprattutto di coloro, tra cui molte famiglie, che vivono in case abbandonate lungo i confini boschivi.

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Lo scorso gennaio, quando l’ecosistema mediatico mondiale si è ricordato della crisi migratoria in corso nei Balcani in seguito all’incendio che ha raso al suolo il centro di Lipa, l’Unione Europea si è mostrata preoccupata e desiderosa di intervenire. Ma la risposta è stata in linea con la storia recente dell’UE in tema di migrazioni: 3,5 milioni di euro all’OIM e al governo bosniaco-erzegovese - che sommati ai finanziamenti precedenti fanno 89 milioni dall’inizio del 2018 - per gestire la crisi migratoria in Bosnia Erzegovina. Non fuori da essa, né insieme all’UE. “L'assistenza umanitaria dell'UE fornirà alle persone in difficoltà l'accesso a beni di prima necessità per alleviare immediatamente la loro situazione attuale. Tuttavia, urgono soluzioni a lungo termine”, dichiarava in quei giorni Josep Borrell i Fontelles, l’Alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.

Le soluzioni a lungo termine di cui parlava Borrell sono rimaste un’ipotesi. Gli eventi che si sono succeduti a cavallo tra il 2020 e il 2021 sono la fotocopia di ciò che è accaduto nei dodici mesi precedenti. Le condizioni disumane del centro di Vučjak attirarono l’attenzione dei media internazionali e di conseguenza le autorità locali e l’UE furono costrette a intervenire; il centro venne chiuso l’11 dicembre 2019 e migliaia di persone vennero trasferite nel cantone di Sarajevo; ad aprile 2020 l’UE elargì 4,5 milioni e venne aperto il centro di Lipa, che è andato a fuoco lo scorso 23 dicembre lasciando all’addiaccio un migliaio di persone. I media sono tornati in massa in Bosnia Erzegovina ed è partito un nuovo giro di consultazioni alla ricerca di fantomatiche soluzioni più durature. Un circolo vizioso di cui non si intravede la fine.

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Ma come siamo arrivati a questa situazione? Perché migliaia di migranti sono bloccati proprio in Bosnia Erzegovina?

Facciamo alcuni passi indietro e ripartiamo dal 2015.

Tra settembre e ottobre 2015, l’Ungheria completò 523 km di barriera di filo spinato per impedire l’ingresso ai migranti provenienti da Serbia e Croazia. Questa manovra voluta dal Primo Ministro ungherese Viktor Orbán, non soddisfatto dello scarso impegno dell'UE nel controllo delle proprie frontiere, dirottò il percorso dei migranti verso la Croazia e soprattutto la Bosnia Erzegovina. In quest’ultima, i flussi migratori divennero più consistenti sul finire del 2017 lungo il confine orientale con la Serbia e quello meridionale con il Montenegro, per poi intensificarsi notevolmente con l’arrivo della primavera del 2018.

Secondo i dati del Ministero della Sicurezza della Bosnia Erzegovina, settore immigrazione, 1.454 migranti entrarono in Bosnia Erzegovina durante il mese di aprile 2018. Più del doppio rispetto ai 629 individuati a marzo 2018 dalla polizia di frontiera e registrati dall’ufficio immigrazione. Al tempo, i numeri ancora contenuti dei flussi migratori non spaventarono la popolazione locale. Anzi, le condizioni precarie dei migranti risvegliarono nella popolazione locale un inevitabile senso di solidarietà. Le ferite ancora fresche della guerra di Bosnia (1992-1995) spinsero i bosniaci a fornire alle persone in movimento ogni tipo di aiuto: da un pasto caldo a vestiti nuovi, fino a un posto letto in cui passare una o più notti.

Cos’è cambiato allora dal 2018? Perché le aggressioni nei confronti di migranti oggi non sono più trascurabili e perché per mesi qualche decina di cittadini di Bihać ha protestato di fronte all’ormai chiuso centro di Bira per impedirne la riapertura, in particolare in seguito all’incendio di Lipa?

Le ragioni sono principalmente tre.

Per prima cosa, il numero di migranti è aumentato a dismisura e in un lasso di tempo molto breve. Furono 23.902 i migranti registrati a fine 2018 e 29.302 a fine 2019, come riportato nel rapporto del Ministero della Sicurezza pubblicato a marzo 2020. La stima non ufficiale del 2020 parla di 16.190 ingressi registrati, il che porterebbe il conteggio totale a 69.394. Questo aumento significativo si è tradotto in una maggiore pressione sul tessuto socio-politico di un paese di soli 3.531.159 abitanti (secondo l’ultimo censimento del 2013, gonfiato dai membri della diaspora) e tra i più poveri d’Europa con 415.027 disoccupati al 31 gennaio 2021 (stando all’ultimo rapporto mensile compilato dall’Agenzia per il lavoro e l’occupazione).

Contemporaneamente, l’inasprirsi dei respingimenti al confine con la Croazia e l’aumento di quelli da Italia e Austria ha cristallizzato una situazione che avrebbe dovuto essere temporanea. I migranti, che inizialmente erano realmente di passaggio, hanno spesso visto allungarsi il tempo di permanenza in Bosnia Erzegovina da qualche mese a più di un anno. Ad oggi, i migranti che circolano nel paese sono stabilmente tra gli 8 e i 10 mila - i numeri, che sono giocoforza imprecisi, aumentano durante le stagioni primaverili ed estive.

A subire maggiormente questa pressione sono il cantone nordoccidentale di Una-Sana, dove si trovano circa 5.000 migranti, e quello di Sarajevo, che ne ospita circa 4.000. In particolare, l’imbottigliamento dei migranti nel cantone Una-Sana (che per intenderci è quello in cui si trova l’ipermenzionato centro di Lipa) è dovuto a due motivi: 1) Confina con la tanto agognata Croazia, la porta d’ingresso dell’UE; 2) Gli altri governi cantonali – e in particolare quello dell’entità della Republika Srpska, su cui il governo centrale di Sarajevo ha un potere pressoché inesistente – non intendono dare il consenso a una più equa redistribuzione dei migranti su tutto il territorio.

Il secondo motivo suggerisce un ulteriore approfondimento: quanti governi ha la Bosnia Erzegovina? Il paese balcanico più colpito dalla guerra degli anni ‘90 è rimasto uno Stato disfunzionale sin dalla firma degli accordi di Dayton che posero fine al conflitto. Gli accordi rappresentavano un compromesso per poter mettere da parte le armi, ma in 25 anni non è stato fatto nessun passo in avanti. La Bosnia Erzegovina rimane divisa in due entità - la Federazione di Bosnia Erzegovina (FBiH) e la Republika Srpska (RS) - e il distretto autonomo di Brčko. L’entità della FBiH, popolata prevalentemente da bosgnacchi (bosniaci musulmani) e croati, è a sua volta suddivisa in 10 cantoni, di cui 7 a maggioranza bosgnacca e 3 a maggioranza croata. Ogni cantone e ogni entità possiedono un governo.

E qui veniamo alla terza ragione che ha acuito le tensioni tra migranti e popolazione locale: la politica etno-nazionalista, sempre alla ricerca di un pretesto per dividere la popolazione e mantenere lo status quo.

“La suddivisione amministrativa della Bosnia Erzegovina porta a un'ostruzione sistematica tra i vari partiti al comando”, afferma a Valigia Blu Jasmin Mujanović, analista politico bosniaco emigrato negli Stati Uniti. “Il SNSD e l'HDZ BiH (Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti e Unione Democratica Croata della Bosnia Erzegovina, i partiti di riferimento della comunità serba e croata rispettivamente, N.d.A.) stanno utilizzando la crisi migratoria per espandere, rafforzare e mostrare ancora una volta la loro insofferenza nei confronti del paese”. Così, la RS e i cantoni della FBiH a maggioranza croata si rifiutano di accogliere i migranti, che stazionano quasi esclusivamente nel cantone di Sarajevo e di Una-Sana, dove si trovano 5 dei 6 centri di accoglienza: il già citato Lipa, il Miral a Velika Kladuša e i centri di Ušivak e Blažuj nei pressi di Sarajevo, tutti per uomini non accompagnati; Borići e Sedra nelle città di Bihać e Cazin per minori e famiglie. A dire il vero c’è un settimo centro che raramente viene menzionato: è il centro di Salakovac, una località non lontana da Mostar; è uno dei circa 150 centri destinati agli sfollati interni bosniaci, ma nel corso del tempo è stato consentito l’ingresso anche a qualche centinaio di migranti.

I partiti nazionalisti bosgnacchi non sono immuni dalla ricerca del profitto politico. La maggior parte dei partiti cavalca la tensione dovuta alla crisi migratoria, che viene alimentata (se non creata ad arte) dalla stampa vicina al potere, sempre pronta a sottolineare e ingigantire ogni minimo reato commesso dai migranti. È emblematico il caso del Dnevni Avaz, il quotidiano più influente del paese di proprietà del magnate Fahrudin Radončić, che già il 6 maggio 2018 titolava in prima pagina: “I migranti picchiano e derubano”. Radončić è anche fondatore del partito SBB BiH (Unione per un futuro migliore in Bosnia Erzegovina) ed ex ministro della Sicurezza. Si è dimesso il 2 giugno 2020 per divergenze col resto della coalizione di maggioranza - e in particolare con il SDA (Partito dell’Azione Democratica), il partito nazionalista bosgnacco più numeroso - in seguito a una sua proposta che prevedeva l’espulsione di tutti i migranti dal paese. I politici del cantone Una-Sana - il sindaco di Bihać, Šuhret Fazlić, e il premier del cantone, Mustafa Ružnić, entrambi oppositori del SDA - hanno assecondato la narrazione antimigratoria di Radončić, costruendosi un'immagine anti-Sarajevo in vista delle elezioni del 15 novembre 2020.

In realtà, secondo un’analisi che si basa sui dati forniti dalla polizia pubblicata il 12 gennaio da N1, una delle poche testate indipendenti del paese, dei 17.272 reati commessi su tutto il territorio della Bosnia Erzegovina tra gennaio e settembre 2020, 222 sono stati commessi da persone categorizzabili come migranti, vale a dire l’1,3% del totale. A fare certamente più rumore sono i quattro omicidi compiuti dai migranti nel cantone di Sarajevo degli 11 totali registrati dalla polizia nello stesso periodo.

Per riassumere le ragioni fin qui elencate, il perdurare e il deteriorarsi di una situazione teoricamente temporanea, inserita in un contesto sociopolitico caotico e profondamente instabile, ha scatenato la classica guerra tra poveri. Da una parte i migranti e dall’altra i cittadini bosniaci vittime di una classe politica che li manipola per conservare il potere.

Dunque sorge spontanea una nuova domanda: come può l’Unione Europea delegare la crisi migratoria a un paese così inaffidabile?

“È assurdo e irrealistico che la Bosnia Erzegovina possa diventare un centro di accoglienza permanente in Europa. Lo percepisco come un incredibile atto insolente da parte dell'UE”, sostiene Mujanović. “La più grande unione economica del mondo, che conta mezzo miliardo di abitanti ed enormi risorse economiche, si è messa nella posizione di dover fare la morale a un piccolo paese come la Bosnia Erzegovina. Ovviamente non giustifico la risposta catastrofica delle istituzioni bosniaco-erzegovesi, ma purtroppo questa è la realtà del paese”.

Quando parla di atto insolente, Mujanović si riferisce alle dichiarazioni di cui sopra di Borrell che aveva anche condannato le autorità bosniaco-erzegovesi intimandole di far di più. L’11 gennaio Borrell ha chiamato Milorad Dodik, leader del partito nazionalista serbo-bosniaco SNSD e presidente in carica del governo centrale, esortando le autorità locali a collaborare. Un eventuale ennesimo fallimento, secondo Borrell, avrebbe gravi conseguenze sulla reputazione della Bosnia Erzegovina, che è candidata all’ingresso nell’UE.

Per inquadrare ancor meglio l’incapacità dello Stato balcanico di far fronte alle situazioni di emergenza, bisogna ricordare che in Bosnia Erzegovina ancora oggi, a distanza di 25 anni, 99 mila sfollati interni attendono che lo Stato li tolga da una perenne condizione di precarietà, come indica il rapporto del Centro per il monitoraggio degli sfollati interni (IDMC) pubblicato nell’aprile 2020. È impensabile, dunque, aspettarsi che le autorità locali si impegnino per alleviare le sofferenze di cittadini terzi, così com’è comprensibile che ci siano fasce della popolazione che esigono che le poche risorse disponibili vengano messe in campo anzitutto per i bosniaci.

Detto ciò, se l’UE vuole tenerli fuori dai propri confini, perché i migranti non possono almeno godere di condizioni di vita migliori considerando che l’UE ha versato alla sezione OIM della Bosnia Erzegovina 89 milioni di euro in tre anni?
I migranti che rientrano nel sistema di accoglienza dell’OIM denunciano costantemente le lacune dei centri in cui alloggiano. In special modo quelle legate al cibo, che è scadente o insufficiente per poter affrontare l’intera giornata. La frustrazione che vivono quotidianamente sfocia spesso in risse o disordini interni ai centri, puntualmente strumentalizzati da stampa e politici. “Se non facessi il bagno per mesi, se avessi freddo perché non c'è il riscaldamento, se mangiassi male o per niente, se condividessi un letto malandato con altre persone, anche io darei di matto”, fa notare a Valigia Blu la giornalista e attivista di diritti umani Nidžara Ahmetašević, che da anni si occupa del fenomeno migratorio nei Balcani ed è costantemente in contatto con i migranti che alloggiano nei centri nei pressi di Sarajevo, dove vive.

Come se non bastasse, il centro di Lipa, l’ultimo in ordine di arrivo, è stato costruito a circa 30 km dalla città di Bihać in un’isolata zona collinare che impedisce qualunque tipo di interazione con la popolazione locale. Andato a fuoco in circostanze ancora da chiarire il 23 dicembre 2020 - nel giorno in cui l’OIM ne stava per decretare la chiusura - è stato ricostruito in un’area contigua ed è ora in mano al governo bosniaco-erzegovese. Lipa è stato allestito ufficialmente per ospitare i migranti esclusi dal sistema di accoglienza e contenere così la diffusione della COVID-19 tra la popolazione migrante. A Lipa sono stati trasferiti anche i migranti sgomberati dal centro di Bira, chiuso il 30 settembre 2020. Questa decisione illegittima e unilaterale, che non fu comunicata dal cantone Una-Sana all’OIM né al governo centrale, è la netta prosecuzione della politica antimigratoria della coppia Fazlić-Ružnić (che dietro le quinte ringrazia i migranti che spendono nel cantone i soldi che ricevono dalle proprie famiglie, ora che le entrate del turismo sono evaporate).

Il 13 gennaio 2021 l’OIM ha pubblicato sul proprio sito web un’analisi – non troppo dettagliata – delle spese effettuate in Bosnia Erzegovina per la gestione della situazione migratoria. Risulta che circa 25 milioni non sono ancora stati spesi e, dato che verificare precisamente l’effettiva correttezza e utilità di ogni spesa sarebbe un’impresa titanica, ci limitiamo ad affermare che si potrebbe fare di più che affittare ex fabbriche in rovina in cui sistemare dei piccoli container con sei posti letto com’era il caso del Bira. O per di più con docce non funzionanti o senza acqua calda, come nel caso del Miral. Sicuramente si potrebbero evitare conflitti di interesse come nel caso del Sedra, un hotel di proprietà di Halil Bajramović, imprenditore che ha finanziato gran parte della vittoriosa campagna elettorale di Fazlić, il sindaco anti-immigrazione di Bihać. Costo dell’operazione per l’OIM, secondo i media: 25 mila euro al mese.

La situazione per i migranti in Bosnia Erzegovina non potrebbe essere peggiore, ma nonostante la tensione crescente gli atti di solidarietà individuale nei confronti dei migranti proseguono, come sottolinea Ahmetašević. Affermare che la popolazione locale detesta i migranti è quanto di più lontano ci possa essere dalla realtà. La maggior parte delle persone semplicemente li ignora, mentre molti altri si prodigano per provare a rendere meno dura l’attesa di tempi migliori che logora i migranti. A loro si aggiunge la rete di solidarietà formatasi in Europa: associazioni e singoli individui che periodicamente - anche ora durante la pandemia - si recano in Bosnia Erzegovina per portare cibo e indumenti nuovi.

Tra le ONG che operano sul territorio va sottolineato il lavoro di IPSIA del gruppo ACLI. Attiva a Bihać dal 1997, l’associazione è guidata in loco da Silvia Maraone, che padroneggia la lingua locale ed è ormai inserita perfettamente nel contesto cittadino.

Tra i cittadini, invece, è noto il supporto che un uomo – rinominato dai migranti “Baba” per il suo atteggiamento paterno – offre alle persone in difficoltà che alloggiano in un edificio abbandonato del centro città dietro il negozio di alimentari che gestisce con la moglie. Dà loro la possibilità di caricare i telefoni e distribuisce cibo e bevande a chi non può permettersele, ma c'è anche chi lo accusa di fare soldi sulla pelle di qualche migrante a cui rivende gli indispensabili cellulari. “Baba”, un commerciante dal sorriso timido e il fare introverso, si giustifica argomentando che “non posso regalare ogni cosa a chiunque me la chieda. Da qualcuno devo guadagnare e cerco di farlo da chi ha più possibilità per poi aiutare chi non ne ha”.

Chi sembra riscuotere ammirazione unanime è “Mama”, una signora che a Bihać possiede un negozio di abbigliamento. “Faccio ciò che posso, perché fa male vedere queste persone soffrire così. Ci siamo passati anche noi”, afferma, mentre la sua dentatura quasi assente evidenzia come guerra e distruzione possano accelerare il processo di invecchiamento delle persone.

Sanela invece vive a Ključ. Ha l'aria triste ma speranzosa e ricorda ancora tutto della sua esperienza di rifugiata in Svizzera, soprattutto il modo in cui le persone la trattavano. “Sento il bisogno di lasciare un bel ricordo a ogni persona che incontro qui sulla strada per l'Europa. Così potranno conservare un buon ricordo di noi perché purtroppo non c'è molto di buono”. Aiutare le persone in difficoltà nobilita l’uomo, dice Sanela, ma per lei “è molto più difficile osservare le loro sofferenze perché a me in Svizzera non è andata così male”. È consapevole che è possibile comportarsi più civilmente nei confronti dei migranti e per questo collabora con la croce rossa di Ključ, cittadina al confine tra il cantone Una-Sana e la Republika Srpska, dove spesso i migranti in arrivo con il bus da Sarajevo sono stati bloccati e abbandonati nel nulla. Sanela, con altri volontari, li ha sempre accolti offrendo loro cibo e un alloggio provvisorio in cui fermarsi.

Queste persone compensano la freddezza dell’OIM e delle istituzioni bosniaco-erzegovesi. Aiutano i migranti alla luce del sole nonostante siano prese di mira dalle forze dell’ordine e da alcuni cittadini. Ormai da tempo, infatti, è in corso una criminalizzazione della solidarietà che ha portato molte persone a desistere dal fornire supporto ai migranti o le ha spinte a farlo di nascosto. Le autorità locali vogliono che i migranti vengano emarginati: è proibito affittare loro una casa, dar loro un passaggio con la macchina e non possono utilizzare i mezzi pubblici, tant’è che il Talgo, il treno che collega Bihać a Sarajevo, è stato sospeso a tempo indeterminato perché veniva utilizzato principalmente dai migranti.

Chi sono i migranti presenti in Bosnia Erzegovina? Da dove vengono? Perché fuggono? Cosa sognano?

Dall’analisi riportata dalla Tv N1, citata in precedenza, emerge che, secondo le dichiarazioni dei 16.190 migranti individuati in Bosnia Erzegovina nel 2020, 4.560 provengono dall’Afghanistan, 3.872 dal Pakistan, 2.740 dal Bangladesh, 1.460 dal Marocco, 665 dall’Iraq e 635 dall’Iran. Dei restanti 2.258 non si conosce la nazionalità, ma è risaputo che ci sono anche migranti provenienti da Nepal, Algeria, Egitto e Tunisia. Come Zied Abdellaoui, fuggito da Tunisi perché a rischio persecuzione per le sue idee politiche. Ha trascorso il primo anno a Velika Kladuša in case abbandonate, tra rifiuti e libri di vario genere che si godeva la sera con la torcia del cellulare prima di addormentarsi. Ora si trova nel campo di Blažuj nel cantone di Sarajevo e sogna di poter tornare un giorno in Tunisia da uomo libero.

Anche in Bosnia Erzegovina una delle teorie complottiste più diffuse è la cara vecchia teoria della “grande sostituzione”. Molti bosniaci anziani si domandano perché i migranti siano tutti giovani ragazzi musulmani provenienti da Asia e Africa. Credono che servano a rimpiazzare i giovani bosniaci che ogni anno lasciano il proprio paese per andare a caccia di opportunità lavorative. Dati del Ministero degli Affari Civili rivelano che 178 mila bosniaci hanno lasciato il paese tra il 2015 e il 2019, anno in cui sono partiti in 30mila.

Dunque il profilo stereotipato del "migrante giovane, maschio e musulmano proveniente dall'Asia o dall'Africa" vale per  tutti i migranti? Certamente per la maggior parte sì, viste le difficoltà che implica viaggiare per anni a piedi, senza risorse né certezze, in paesi per lo più inospitali. Ma non bisogna mai dimenticare che ogni essere umano è unico e porta con sé la sua storia, altrettanto unica. Per questo è giusto dare voce anche alle “eccezioni”. Come le famiglie che Lorenzo Tondo e Alessio Mamo hanno seguito per The Guardian.

E come Elena Kushnir, una donna ucraina di 41 anni che dall'1 giugno 2020 si trova a Bihać. È ospite di una famiglia bosniaca che, per non andare incontro a ritorsioni, le consente solo di farsi una doccia e fermarsi la notte. Per Kushnir, questo è il secondo tentativo di raggiungere l’Unione Europea. La prima volta fu nel 1996 quando a 16 anni richiese un visto turistico e partì per Amsterdam. Alla scadenza del visto si stabilì illegalmente nei Paesi Bassi, dove rimase per 23 anni. “Non ho mai fatto richiesta di asilo perché l’Ucraina è considerata un paese sicuro, né ho mai tentato di sposarmi per ottenere la cittadinanza. Vorrei solo vivere in un paese democratico e potermi esprimere liberamente”, dice Kushnir, che ricorda come “i miei genitori non erano d’accordo, ma capivano la mia scelta”. Per non rischiare di veder svanire il proprio sogno, Kushnir non tornò mai a visitare i suoi e non ebbe più modo di rivederli.

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È stata espulsa dai Paesi Bassi il 10 maggio 2018, dopo che il suo ex fidanzato la denunciò alla polizia perché lei aveva osato chiedergli il denaro che gli aveva prestato. Senza una casa e una famiglia a sostenerla, il 18 dicembre 2019 è ripartita alla volta dell’Ungheria. Da sola, perché il trafficante a cui si era affidata l’ha derubata e picchiata. La polizia di frontiera ungherese l’ha respinta e portata in Serbia. Da lì ha raggiunto Bihać, dove passa il tempo con i migranti afghani e pakistani che vivono nell’edificio abbandonato dietro il negozio di “Baba”. Apprende parole di pashtu, la lingua parlata dalla maggior parte di questi ragazzi che provengono principalmente dalla provincia del Nangarhar (gli afghani) e dal distretto di Peshawar (i pakistani), due aree particolarmente colpite dalle azioni dei talebani. “Loro sono la mia famiglia”, dice Kushnir in un inglese misto a qualche parola di tedesco. “Sarà difficile abbandonarli quando la pandemia sarà passata e deciderò di partire”.

“Mi piace Amsterdam e vorrei tanto tornarci”, continua, per poi svelare il suo sogno nel cassetto. Una vocazione che ha coltivato durante il periodo passato ad attraversare i Balcani. “Se un giorno dovessi riuscire a ottenere i documenti in un paese dell’Unione Europea, vorrei tornare qui sulla Rotta Balcanica come volontaria per poter dare una mano ai migranti che vivono per strada”.

Immagine in anteprima: Alba Diez Domínguez / No Name Kitchen

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