Si è dimesso Boris Johnson: il cialtronesco figlio dell’establishment britannico
10 min letturaAlla fine, dopo oltre 24 ore di stillicidio, l’opinione pubblica del Regno Unito ha avuto giovedì l’annuncio che tutti attendevano: Boris Johnson, il premier britannico, ha rassegnato le dimissioni. Formalmente resterà fino all’autunno prossimo, quando sarà nominato il suo successore. Il livello di sfiducia raggiunto rispetto all’opinione pubblica e al suo stesso partito è tale che da più parti - persino tra i conservatori - si teme che la mossa di Johnson possa persino essere un bluff per prendere tempo, per far scemare l’attenzione su di lui e dargli la possibilità di giocarsi il tutto per tutto all’ultimo.
🔴 NEW: Sir John Major, the former Tory leader who has been critical of Boris Johnson throughout his premiership, has written to Sir Graham calling the proposal for the PM to remain in office, possibly up until October, "unwise and maybe unsustainable"https://t.co/z1nnhhabY6 pic.twitter.com/A9kfl44iKy
— The Telegraph (@Telegraph) July 7, 2022
Bluff o meno, ci sono volute dimissioni a catena come non mai in precedenza nella storia del paese, tra ministri e membri del parlamento, per convincere Johnson. C’è voluto un ministro, Michael Gove, andato al fatidico numero 10 di Downing Street per provare a riconsegnare al premier il lume della ragione, a consigliargli di dimettersi e per tutta risposta licenziato da Johnson - ricorderemo anche questo dell’uomo e del politico, l’idea che sia lecito sparare rancorosi al messaggero.
L’ultimo scandalo ha coinvolto Chris Pincher, conservatore nominato da Johnson vice capogruppo dei conservatori in Parlamento. Pincher si è dimesso a fine giugno 2022, dopo che, visibilmente alterato, a un evento in un club aveva molestato alcuni uomini. Nella crisi politica che ne è scaturita, Johnson è finito per scusarsi per aver dato l'incarico a Pincher, tuttavia è emerso che già nel 2017 Pincher era stato accusato di molestie sessuali, tanto che anche allora si era dimesso dagli incarichi ricoperti. Johnson però gli aveva conferito prima un incarico nel governo (nel 2019), e poi lo aveva nominato vice capogruppo.
Chiamato a rispondere di queste scelte, la difesa ufficiale del governo è stata prima che Johnson non fosse al corrente delle accuse, poi che queste in ogni caso non erano sfociate in denunce formali. Un’ambivalenza ufficialmente smentita da una dichiarazione di un membro dello stesso partito conservatore.
This morning I have written to the Parliamentary Commissioner for Standards - because No 10 keep changing their story and are still not telling the truth. pic.twitter.com/vln9FU4V50
— Simon McDonald (@SimonMcDonaldUK) July 5, 2022
La condotta mendace di fronte al caso Pincher, insomma, è soltanto l’ennesimo episodio. Una lunga estenuante trafila di episodi finiti per incrinare la fiducia verso il premier da parte dell’opinione pubblica, e che ha iniziato a far marcire il consenso elettorale nelle elezioni locali.
Tra questi scandali spicca il famigerato “Partygate” - la sequela di festeggiamenti documentati con cui premier e membri del governo hanno violato ripetutamente il lockdown durante la pandemia per darsi a festeggiamenti privati. In un paese in cui il conteggio di morti per Covid-19 ha raggiunto livelli impressionanti (quasi 200mila) l’immagine di un premier sbevazzone mentre si accumulano pile di cadaveri, e che a posteriori si giustifica in pubblico dicendo “non sapevo fosse un party” (quando la pietra dello scandalo era solo una), ha segnato indelebilmente l’immaginario del paese. Nello scorso giugno Johnson aveva superato il voto di sfiducia del suo stesso partito: allora solo il 40% gli aveva votato contro. Una vittoria di Pirro, a conti fatti.
Mentre il partito Conservatore raccoglie i cocci e organizza la successione al governo, certo è che il Regno Unito dovrà elaborare una fondamentale domanda: come è possibile che sia arrivato al potere e durato così tanto un uomo così cialtrone? Qualcuno che, a memoria d’uomo, più di tutti è riuscito a incarnare in politica la massima di Marx (Groucho): “Questi sono i miei ideali, ma se non vi piacciono, be’, ne ho degli altri”.
C’è un aneddoto riportato da Dominic Cummings, ex eminenza grigia di Johnson finita per voltargli le spalle con largo anticipo rispetto al resto dell’establishment, pubblicato a novembre sul proprio blog, che racchiude forse tutto quello che c’è da capire su Johnson. Siamo nel gennaio del 2020, quando dalla Cina arrivano segnali preoccupanti di un’influenza che potrebbe essere qualcosa di più, tanto che a fine mese l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) dichiarerà l’emergenza internazionale:
Una mattina di metà gennaio mi chiamò nel suo studio.
“Dom, devo dirti una cosa. Secondo te va bene se passo molto tempo a scrivere il mio libro su Shakespeare?”
“In che senso?”
“Questo cazzo di divorzio, costosissimo. E questo lavoro. È come alzarsi ogni mattina per trascinare un 747 sulla pista. [Pausa] Mi piace scrivere, davvero, voglio scrivere il mio libro di Shakespeare”.
“Credo che le persone si aspettino che tu faccia il lavoro del premier, non ne parlerei con la gente se fossi in te…”
Apocrifo o no, chi ha osservato attentamente la recente storia del Regno Unito non può che pensare “be’, non mi stupirebbe”. Perché è di Johnson questa assoluta, patologica focalizzazione su sé stesso, come un bambino adulto che si annoia facilmente e si muove da un trastullo all’altro; sempre affamato di divertimenti e bisognoso di piacere agli altri per piacere a sé, sempre pronto ad abbracciare i nuovi trastulli indifferente ai vecchi. Forse la persona peggiore, per il bagno di realtà che una crisi pandemica costringe a effettuare.
Un bambino che certo ha delle doti, tra cui quella di conoscere alla perfezione i meccanismi che producono l’agenda mediatica del paese, un’ottima oratoria e un certo qual opportunismo, che in politica paga sempre perché sempre trova cinici ammiratori. Un bambino che sa come attirare e tenere su di sé l’attenzione degli adulti - o, se preferite, un tattico privo di visione strategica, sempre sull’orlo dell’improvvisazione, del navigare a vista. Proprio l’aver perso il già citato Cummings, il deus ex machina della Brexit, ha consegnato Johnson a una corte plasmata a sua immagine e somiglianza.
Il giudizio può sembrare implacabile, eccessivo. Ma dopo aver condotto una campagna elettorale in discesa, con lo slogan “Get Brexit done”, alla fine Johnson si è ritrovato premier con una larghissima maggioranza, il sogno di chiunque voglia cambiare, in bene o in male, il volto di un paese. Con questa, dopo aver rischiato di portare a casa una Brexit senza alcun accordo con l’Unione europea, l'incubo del no deal, ha alla fine strappato uno striminzito accordo all’ultimo, il cui principale effetto è stato di danneggiare importazioni ed esportazioni. Se c’è un’immagine che può restituire il ridicolo dello sciovinismo britannico, è nei membri del governo che festeggiano come una conquista di libertà il nuovo passaporto blu: non più europeo come il vecchio rosso, quindi con minori agevolazioni nel viaggiare, fatto in Polonia da una fabbrica francese.
La pandemia è arrivata nell’anno in cui la Brexit è diventata effettiva, mentre il governo era forse troppo impegnato a darsi pacche sulle spalle e festeggiare. Un’emergenza affrontata, secondo il British Medical Journal con una risposta tardiva rispetto ad altri paesi, con fortissime carenze persino nel tutelare i lavoratori essenziali negli ospedali e nella case di riposi con l’equipaggiamento di protezione personale, lockdown rinviati all’ultimo - il 23 marzo, circa due settimane dopo quello italiano. Senza contare la follia con cui, inizialmente, quando ancora non erano disponibili vaccini, il governo ha abbracciato un approccio fatalista: si è pensato di poter gestire i contagi invece di ridurli il più possibile, e solo la prospettiva di un sistema sanitario al collasso ha fatto invertire la rotta. Di fatto si è pensato di poter arrivare a un'immunità di gregge come esito naturale della pandemia, con conseguenze disastrose.
Da questo punto di vista, il coronavirus è stato il bagno di realtà che Johnson e i suoi fedelissimi erano sempre riusciti a evitare, saldi sul carrozzone Brexit. Il sogno di un paese che sente di non aver abbastanza presa sulla realtà e che trova a tutti i livelli colpevoli esterni - dagli immigrati all’Unione europea - e che risolve le sue contraddizioni sociali nell’autocompiacimento rabbioso, tracciando il solco di divisioni insanabili. Lo slogan “Take back control” si è così ritorto contro, la nemesi incarnata da un microscopico corpo estraneo, un virus.
Leggi anche >> La disfatta inglese fra Brexit e pandemia
“Il coronavirus spaccherà il Regno Unito?” si domandava il Financial Times nell’ottobre del 2020. Se infatti il “cerchio magico” di Johnson è sempre stato bravo a gestire Londra, e quindi i centri di potere tradizionali, la pandemia ha richiesto una capacità di dialogo e coordinamento con gli altri Stati del regno, complice i sistemi sanitari devoluti. Ha richiesto visione a lungo e medio respiro a un premier, per l’appunto, abituato a improvvisare. Il governo non ha saputo agire in concertazione, anzi trattando Scozia, Galles e Irlanda del Nord come paesi sudditi, decidendo magari all'ultimo, ignorando spesso richieste e consigli e mostrando scarsissima propensione al dialogo. Ciò ha contribuito ad accentuare le divisioni interne nel paese.
Così a distanza di due anni dall’inizio della pandemia la premier scozzese Sturgeon ha formalmente chiesto un secondo referendum per l’indipendenza, pronta al braccio di ferro con Londra. In Irlanda del Nord il primo partito è ora il Sinn Féin, gli storici indipendentisti che vorrebbero riunire Belfast a Dublino. Si è consolidato l’indipendentismo anche in Galles, con il Plaid Cymru (il "Partito del Galles") che appoggia dall'esterno il governo laburista. Lontano da Londra e dalla rassegna stampa, insomma, il Regno Unito ha molte facce, per nulla soddisfatte di come il "controllo" sia stato strappato a Bruxelles. Gli scioperi di queste settimane, in particolare per il sindacato dei ferrovieri e dei trasportatori, hanno inoltre dimostrato che le classi lavoratrici sono più vive che mai, per niente disposte a pagare i costi di una crisi di cui non sono responsabili.
Non bisogna tuttavia far l’errore di pensare che le dimissioni di Johnson rappresentino una presa d’atto di qualche fallimento politico su larga scala o siano il preludio a rivoluzionari cambi di rotta. Johnson è infatti un prodotto dell’establishment conservatore: chi lo ha sostenuto negli ultimi anni sa e sapeva benissimo con chi aveva a che fare. Parliamo di un uomo che, a inizio carriera, grazie ai buoni legami della famiglia inizia a lavorare come tirocinante al Times, dove però viene licenziato per aver inventato delle frasi in un’intervista a un parente.
Un fantasioso e impunito cialtrone, per l’appunto, che vive in un paese dove i protocolli parlamentari impediscono di usare la parola "bugiardo" - tanto che negli scorsi mesi in più occasioni il divieto è stato sfidato pur di inchiodare il premier alle sue malefatte. "One rule for them, another rule for us" recita un motto fin troppo invocato per spiegare le politiche conservatrici, ovvero "Una legge per loro, un'altra per noi". Ben protetto da questa divisione, difficilmente un Johnson dovrà assumersi davvero una concreta responsabilità per i propri errori; quell'ambiente che ora lo rigetta presto o tardi lo accoglierà di nuovo a braccia aperte - o, nel peggiore dei casi, farà calare un lungo silenzio carico di oblio, per seppellire gli imbarazzi, disconoscendo il figliol prodigo.
Non è certo la propensione a mentire che è costata a Johnson la poltrona di premier e leader di partito, e nemmeno gli scandali. Gli inglesi sono in fin dei conti un popolo pragmatico, dietro la sontuosità formale. Se c’è qualcosa che probabilmente non è stato perdonato, si tratta principalmente di due cose: la prima è di non saper uscire dal personaggio, perché c’è un tempo in cui gli intrattenitori - anche solo come finzione - devono ammantarsi di gravità, e saper condurre il paese fuori dai momenti peggiori. Qualcuno che sappia essere volto di una nazione, e non pura immagine di una carriera. Johnson non sarà mai un Churchill, da questo punto di vista, piuttosto uno convinto di fronte a ogni realtà di poterlo essere, mentre si concede le ennesime ferie durante l'ennesima emergenza. Un mitomane di potere, insomma, maschera che purtroppo negli ultimi anni abbiamo visto fin troppe volte.
La seconda, imperdonabile colpa è quella di aver lasciato il paese impantanato nella crisi economica, senza sembrare in grado di poter invertire la rotta, mentre si insedia lo spettro della recessione - qui una sintesi in quattro tabelle del Daily Telegraph, quotidiano conservatore. Questa è una lezione che i leader populisti dovrebbero sempre tenere a mente: se affami le classi sociali più deboli e aggredisci i diritti umani non è un problema, basta che il PIL sia alto e l’inflazione non corra.
Proprio perché parliamo di un figlio naturale dell'establishment, salvo folli colpi di scena (di solito è che ai mitomani di potere non va soltanto tagliata la coda, ma abbattuto politicamente l’intero corpo) è molto probabile che il posto di Johnson sarà preso da qualcuno che garantisca contiguità nelle politiche di deregolamentazione, senza troppi scrupoli nel continuare a usare il pugno di ferro sui diritti umani, ma molto più sobrio e presentabile. Ipotesi a parte, tra i primi a farsi avanti c'è l'ex ministro del Tesoro Rishi Sunak, con tanto di video evidentemente già pronto nel cassetto. Licenziato il caratterista sopra le righe, si cerca un attore più sobrio, che porti a casa le scene più difficili senza troppi patemi.
Dopo la débacle subita per esempio nelle politiche migratorie, con la mobilitazione civile che ha portato la Corte europea dei diritti umani a bloccare temporaneamente le deportazioni in Ruanda, si è fatta per esempio strada un’ipotesi più volte menzionata negli ultimi anni. Ovvero l’uscita del Regno Unito dalla Convenzione europea peri diritti umani, proseguendo sulla direzione di un isolazionismo dove il potere diventa sempre più appannaggio di pochi.
In un paese dove gli ultimi anni sono stati dominati da un intrattenitore, la fotografia migliore del momento politico e delle sue contraddizioni l’ha scattata via Twitter un attore, Hugh Grant. “Caro Mondo, forse ti stai chiedendo cosa accadrà ora in base alla costituzione britannica. La risposta è che i proprietari di tre quotidiani - nessuno dei quali ha residenza fiscale nel Regno Unito - si consulteranno per decidere il nostro prossimo Premier - o 'Barboncino'. La Regina poi lo designerà”.
Dear World, You may be wondering what happens next in terms of the British constitution. The answer is that 3 newspaper owners - all of whom are non domiciled in the UK for tax purposes - get together and choose our next Prime Minister or “Poodle”. The Queen then anoints them.
— Hugh Grant (@HackedOffHugh) July 7, 2022
(Immagine anteprima via Number 10)