Cosa definiamo molestia sessuale? Il caso Lively-Baldoni e il potere delle agenzie di PR
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Mostrare il video di un parto naturale è pornografia? Entrare nel camerino di un'attrice che sta allattando è molestia sessuale? Chiedere il peso di una donna che un attore con problemi di schiena deve sollevare per una scena è body shaming? Quando “scopriamo” il vecchio video poco edificante di un personaggio famoso è davvero per caso che ce lo troviamo davanti? Sono alcuni degli interrogativi sollevati dalla faida tra Blake Lively e Justin Baldoni, solo apparentemente un problema di gossip hollywoodiano.
Dopo essere andata avanti in sordina per quasi due anni, la guerra tra i due protagonisti del film It ends with us è esplosa durante le scorse vacanze di Natale e in poche settimane ha già accumulato quattro cause legali, una più complicata e involuta dell'altra, con le due parti che si accusano a vicenda di avere macchinato campagne diffamatorie. Ma tra le righe delle dettagliatissime singole denunce (l'ultima, 179 pagine e una richiesta di 400 milioni di dollari, è quella di Baldoni contro Lively e suo marito Ryan Raynolds, consegnata il 16 gennaio), emergono implicazioni non indifferenti. Una è lo strapotere degli esperti di PR nell'orientare il volubile e manipolabile il pubblico. L'altra, cruciale, è cosa può essere definito molestia sessuale e che uso si può fare di questa definizione in una disputa legale.
Per queste ragioni, proprio mentre Hollywood brucia letteralmente, quella che sembrava solo un'antipatia tra due attori è diventata una questione complicatissima e infuocata, che in parte riporta alla mente la battaglia legale tra Johnny Depp e Amber Heard, nell'ormai lontano 2022.
Di cosa parliamo in questo articolo:
I fatti
Entrambi popolari presso il grande pubblico per la passata partecipazione a serie TV di successo (Gossip girl lei, Jane the virgin lui), Blake Lively e Justin Baldoni non sono esattamente allo stesso livello di celebrità. Lively, che viene da una famiglia di attori, lavora al cinema da oltre 20 anni, è sposata con uno dei divi più ricchi e potenti di Hollywood, amica del cuore di Taylor Swift e presenza fissa sui red carpet. In passato è stata criticata per uscite decisamente infelici, come una dichiarata fascinazione per gli Stati Uniti del Sud pre-guerra civile, il matrimonio con Reynolds tenutosi in una ex piantagione e una dichiarazione di sostegno a Woody Allen all'indomani delle pubbliche accuse di molestia da parte di sua figlia, ma sembrava tutto archiviato. Baldoni, da parte sua, non ha mai raggiunto lo status di celebrità della collega e, una volta concluso Jane the virgin, ha diretto un paio di film abbastanza in sordina. Negli anni, poi, si è dedicato a contrastare il tema della mascolinità tossica attraverso i suoi canali social, a condurre il podcast Man enough e scrivere due libri, tutto sul tema della costruzione di un maschile più in linea con il femminismo.
In linea con il suo attivismo, nel 2019 Baldoni ottiene i diritti del best seller di Colleen Hoover It ends with us, storia d'amore all'ombra della violenza domestica. Lo riscrive, dirige e produce, ritagliando per sé il ruolo di coprotagonista. Al suo fianco Blake Lively. Già durante la produzione del film si rincorrono voci sulla poca armonia tra i due attori, e quando lo scorso agosto il film esce nelle sale sono in molti a notare che Lively e Baldoni non compaiono mai insieme a un evento promozionale, una proiezione o a un'intervista. Tutto il resto del cast fa gruppo con Lively e smette di seguire sui social Baldoni. Sempre sui social, però, si discute del fatto che, mentre Baldoni continua a parlare del film solo in termini di sensibilizzazione e lotta contro la violenza domestica, Lively sembra non prendere sul serio le domande sulle vittime, scherza con gli intervistatori che introducono il tema e approfitta della promozione del film per lanciare le sue linee di prodotti per capelli e bevande alcoliche in lattina. Il suo modo di porsi rispetto a un film su temi così delicati viene bollato come inopportuno e si aggiunge alla lista di uscite infelici del passato. Poco a poco iniziano anche a comparire vecchie interviste in cui Lively appare arrogante e scostante e, nel giro di un mese, la diva di Gossip Girl diventa uno dei personaggi più criticati sui social e non solo.
Passano alcuni mesi e all'improvviso, poco prima di Natale, Blake Lively presenta presso il California Civil Rights Department un reclamo - cui seguirà una querela - in cui afferma che Justin Baldoni l'ha molestata sessualmente e anche diffamata: l'attore avrebbe orchestrato, assieme alla sua casa di produzione Wayfarer e al suo team di PR, una campagna denigratoria nei confronti dell'attrice in concomitanza con il lancio del film. Secondo l'accusa, proprio in virtù delle molestie subite, Lively sarebbe stata vittima di una sorta di character assassination preventiva, mirata a rendere l'attrice odiata sui social e dunque poco creduta qualora avesse deciso di parlare pubblicamente ed esporre i problemi avuti durante le riprese del film. Secondo questa ricostruzione, anche la comparsa su YouTube di video scomodi e successiva ondata di critiche sarebbero parte dell'intervento social-mediatico orchestrato dal team di Baldoni. Il tutto ha anche un nome: astroturfing, ovvero la pratica di creare ad arte un'ondata di sostegno o dileggio verso un dato personaggio, facendolo passare come un fenomeno organico e partito dal basso.
La notizia fa il giro del mondo ma a farla detonare è un articolo del New York Times che esce in concomitanza con la pubblicazione, sempre sulla stessa testata, del documento completo depositato dai legali di Lively. Intitolato “Possiamo affossare chiunque». Viaggio dentro una macchina del fango a Hollywood” (“We can bury anyone”. Inside a Hollywood smear machine”), l'articolo ha tre firme, tra cui quella di Megan Twohey, che nel 2017 aveva fatto esplodere assieme alla collega Jodi Kantor il caso Weinstein, per il quale vinsero il Pulitzer. Il pezzo include diversi messaggi di testo ottenuti dal team di Lively dal cellulare di Jennifer Abel (addetta stampa di Baldoni), che documenterebbero la strategia diffamatoria. C’è anche il dettaglio delle presunte molestie sessuali: Baldoni che entrerebbe nel camerino dell'attrice mentre questa allatta; il co-produttore Jameyn Heath che le mostrerebbe un video di sua moglie nuda; Lively che richiederebbe formalmente la presenza di un intimacy coordinator durante le scene a due. Per concludere, Baldoni avrebbe usato più volte l'aggettivo “sexy” per descrivere Lively, in tal modo oggettificandola e sessualizzandola, e avrebbe commenti inappropriati sulla sua forma fisica e il suo peso.
L'articolo del New York Times rimbalza ovunque e da un giorno all'altro il sostegno sui social si sposta da un fronte a quello opposto: il cattivo è adesso è diventato Baldoni, considerato un “finto progressista” che nasconde le sue tendenze alla molestia e al body shaming dietro una facciata di sensibilità “woke”, mentre Blake Lively viene riabilitata nell'opinione pubblica, raccoglie il sostegno di ex colleghe e i messaggi di solidarietà dell'autrice di It end with us. Arriva anche la solidarietà di Amber Heard, riemersa dal silenzio per cui aveva optato dopo essere stata ritenuta colpevole di diffamazione verso Johnny Depp, il quale nel corso di quel processo aveva utilizzato lo stesso team di PR assunto da Baldoni e soci. Non solo: Baldoni è prontamente abbandonato dall'agenzia che lo rappresentava e gli viene anche ritirato il premio Voices of Solidarity che aveva ricevuto da Vital Voices, programma di mentoring per la leadership femminile.
Nel giro di una settimana, però, Baldoni passa al contrattacco e, denuncia il New York Times, reo a suo avviso di avere riportato pedissequamente punto di vista e messaggi deconstestualizzati forniti dal team di Lively. Considerandosi diffamato dall'articolo in questione, Baldoni chiede al giornale un risarcimento di 250 milioni di dollari. Lo stesso giorno, Blake Lively formalizza una vera e propria denuncia contro Baldoni, la sua casa di promozione e la sua PR. Lo scontro è aperto, i messaggi utilizzati dall'articolo del Times vengono risezionati e ricontestualizzati dalla versione di Baldoni, il cui avvocato non lesina interviste e minacce di nuove azioni legali, ed ecco l'ultimo colpo di scena: questa volta è Baldoni che denuncia ufficialmente Blake Lively, e anche suo marito Ryan Reynolds, per diffamazione, estorsione e violazione della privacy. Insieme, la “power couple” di Hollywood avrebbe cercato in tutti i modi di ritagliarsi un ruolo decisionale nella produzione del film, abusando del proprio potere, facendo pesare amicizie importanti (il nome di Taylor Swift continua a venire citato dai commentatori della notizia) e, soprattutto, imbastendo ad arte accuse di molestie al solo fine di mettere l'attore e regista sotto pressione, isolarlo e indurlo ad abbandonare il controllo del suo stesso film. I legali di Baldoni citano anche l’ultimo film della serie Deadpool, in cui Reynolds avrebbe introdotto e interpretato un personaggio che è la caricatura di Baldoni, dall’acconciatura alle maniere da “bravo ragazzo woke”, e che viene ucciso da un personaggio doppiato da Lively. Più che un’innocua frecciata, sarebbe un’altra prova del coinvolgimento di lunga data di Reynolds nella rivalità con Baldoni, e di certo è una prova di quanto ampio sia ormai il conflitto, visto che tirare in ballo un film Marvel significa coinvolgere nella causa la Disney. Intanto, la narrazione cambia ancora una volta.
PR, messaggi di testo e sfumature semantiche
Vista la successione di cause, controquerele, interventi e dichiarazioni degli avvocati delle varie parti, la battaglia legale è evidentemente solo cominciata, ma il caso è rilevante per altre ragioni. Prima di tutto mette in luce la rapidità con cui il pubblico si schiera in modo acritici con o contro un personaggio, per poi sbandare velocemente e con altrettanto assolutismo sul versante opposto nel volgere di tempo di un articolo, un video o una qualunque novità. In questo, ovviamente, hanno un potere immenso i team di PR, anch'essi esposti qui in modo straordinario, nonché impegnati a farsi la lotta tra loro. Basti pensare che la fonte dei materiali citati nel New York Times e nella denuncia di Lively è l'ex addetta stampa di Baldoni, Stephanie Jones, figura controversa nel panorama delle pubbliche relazioni a Hollywood e attualmente a sua volta in causa contro Baldoni.
Ma soprattutto c'è il discorso, sempre più attuale, su cosa possiamo definire molestia sessuale. Baldoni, che da alleato del femminismo si è trovato da un giorno all'altro a venire definito un molestatore, è accusato di azioni e parole non necessariamente, né automaticamente, ascrivibili al campo della molestia. Ciò che gli viene attribuito è il famoso ingresso nel camerino di Lively (invitato da lei, secondo la versione dell'attore) mentre l'attrice tirava il latte. Oppure il famoso video di un parto naturale, oltretutto mostrato non da Baldoni ma dal suo socio James Heath, ritraente la moglie di quest’ultimo e usato per discutere della rappresentazione di una scena del film. Gli viene contestato di avere definito Lively “sexy” (anche questo, nella versione dell'attore, per rassicurarla sul proprio aspetto dopo che lei stessa aveva chiesto un abbigliamento sexy per il suo personaggio). Gli viene contestato di avere “violato la coreografia” in alcune scene intime, improvvisando un bacio (secondo Baldoni l'azione è invece partita da Lively), o mettendola a disagio con commenti inappropriati (ma questo video, diffuso dall’avvocato di Baldoni, sembra smentirla).
Anche se venisse provata la loro veridicità, le accuse rivolte a Baldoni non hanno tanto a che vedere con un'azione precisa e inequivocabilmente sbagliata, quanto con qualcosa di più sottile e aperto a interpretazione e percezione personali. Per esempio, le scene intime in un film possono diventare spazi di vulnerabilità e confusione, in cui delineare il confine tra consenso e abuso non è così immediato: cosa distingue un comportamento inappropriato da una semplice interazione “spontanea” mentre si recita? Per questo, sopratttutto dopo il MeToo, sempre più produzioni si affidano aglii intimacy coordinator, figure professionali addette a supervisionare le scene di sesso o che coinvolgono nudo e intimità. Per garantire la tranquillità degli interpreti e un contesto di sicurezza e consenso, per esempio, possono fornire coreografie precise dei movimenti a cui attenersi, suggerire l'uso di barriere fisiche o quello di termini neutri e non sessualizzanti con cui comunicare durante le scena intime. Baldoni sostiene di avere coinvolto un intimacy coordinator fin dall’inizio della produzione, nella sostanziale indifferenza della coprotagonista, e contesta alla versione di Lively l’allusione al fatto che sarebbe stato introdotto solo dopo richiesta di lei.
Al di là di ciò, queste figure professionali non necessariamente sono presenti sul set durante tutto il tempo delle riprese, e comunque la loro presenza fisica non può azzerare o contrastare la percezione di un'attrice o un attore che quella scena la sta mettendo in pratica. E questa è solo una delle zone grigie di questa ingarbugliatissima storia di accuse e recriminazioni basate in gran parte su dichiarazioni, o al massimo messaggi di testo, ma con pochissime prove, ammesso che sia possibile provare qualcosa di così sfumato. Il canale YouTube Law and Crime, specializzato nelle dispute legali con grande risonanza mediatica, ha riassunto in un video tutte le “accuse”, esaminandola una per una con i punti di vista di lei e di lui, e mettendo in luce come ciascuna di esse possa essere o meno una molestia a seconda della versione dell'uno o dell'altro.
D'altra parte, ridurre tutto a percezione personale e fatto non documentabile può essere letto come l'ennesimo tentativo di mettere a tacere le vittime di abuso, pratica comune a cui non è certo estraneo il mondo del cinema. E se a questo si aggiunge l'aura di antipatia (reale o creata ad arte che sia) che sembra attualmente aleggiare attorno al personaggio di Blake Lively e il suo essere, anche in virtù di status e fama, lontana dallo stereotipo della vittima perfetta, il sentiero si fa scivoloso e il passo dal “sorella io ti credo” al victim blaming diventa facilissimo. Secondo il New Yorker, prima ancora che Baldoni facesse causa a Lively e marito, questa faida ha rappresentato il “collasso dell'era metoo”, mentre per Nicole Page, avvocata specializzata in discriminazione e molestie sessuali sul posto di lavoro e figura di spicco del #MeToo, Lively è solo l'ultima vittima messa a tacere da un sistema consolidato a Hollywood come altrove. In un articolo per IndieWire, Page afferma che “il comportamento attribuito a Baldoni e Wayfarer sembra uscito direttamente dal manuale “Guida per principianti dei molestatori sessuali”: se molesti sessualmente una donna e lei si lamenta, a) nega, nega, nega; b) cerca di silenziarla con un pagamento o con intimidazioni; e c) se le opzioni precedenti non funzionano, screditarla e avvia una character assassination”.
Le questioni sollevate dal caso, insomma, sono tutt'altro superficiali, perché chiamano in causa il tema di cosa si può o non si può definire molestia nelle sue pieghe più interpretabili e potenzialmente strumentali, così come del lato più oscuro del “sorella io ti credo”. Affrontarle con onestà intellettuale sarebbe cruciale per contribuire a una conversazione pubblica sul tema degli abusi di genere, in cui da un lato non venga soffocata la voce di chi denuncia e, dall'altro, le parole abbiano il peso che meritano, i termini che afferiscono a forme di violenza non siano usati con superficialità, e i confini tra consenso e abuso siano sufficientemente chiari da non dover delegare tutto all'interpretazione dei legali o, peggio, al giudizio dei social.
Sapere con certezza se si siano verificate situazioni di molestia sul set di It ends with us forse non è possibile, né è questo il momento di decidere chi tra Blake Lively e Justin Baldoni “il cattivo” o “la cattiva”. Quel che è certo è che il messaggio originario del film da cui tutto è nato è andato completamente perduto. D'ora in avanti la visione o la menzione di It ends with us porterà subito alla mente tutto fuorché l'importanza di parlare di violenza domestica.