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Pelli bianche, maschere nere: perché dipingersi la faccia di nero (blackface) è una pratica razzista

7 Agosto 2022 7 min lettura

Pelli bianche, maschere nere: perché dipingersi la faccia di nero (blackface) è una pratica razzista

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Il dramma dei neri, ha scritto l’antropologa Sylvie Chalaye nel suo saggio “Nègres en image”, è quello di un popolo che subisce la “fatalità dell'immagine”.

Fermandosi alla sua apparenza fisica, l'Occidente ha prontamente congelato l'uomo nero all’interno di rappresentazioni preconfezionate che hanno permesso di tenere l'altro a distanza e di non affrontare mai la propria realtà, evitando così il rischio di rimettersi in discussione.

Nel corso della storia, l’immaginario dell'Africa e delle persone nere così come percepiti dagli europei è cambiato con le circostanze delle società. Il comune denominatore che permane e permea ogni linea temporale è la rappresentazione stereotipata dei popoli neri, diffusa consapevolmente dalle forze politiche, come mezzo per promuoverne una specifica concettualizzazione in Europa e in America.

I primi esploratori del Continente fecero propria la missione di riportare in madre patria l’immagine esacerbata del “selvaggio” africano. Questo concetto, intrinsecamente legato a quello di “civilizzazione”, non è però circoscritto solo al Continente africano. È direttamente correlato alla convinzione eurocentrica che tecnologia e industrializzazione siano i simboli dell'evoluzione e “civiltà” di una determinata società, mentre la naturalezza sarebbe simbolo della loro assenza.

È con questa prospettiva che i primi immigrati europei nelle Americhe e i primi coloni del Continente africano si relazionarono con i nativi. Questi popoli, visti come “selvaggi”, erano considerati subumani, privi di qualsiasi tipo di cultura e le loro società banalmente analizzate come dominate da uno stato di anarchia e disorganizzazione.

Questa specifica caratterizzazione dei popoli colonizzati ebbe luogo per diverse ragioni, variando in base all’agenda politica che i coloni volevano instaurare in quei mondi “non evoluti”: era necessario che i neri fossero visti come una minaccia per giustificare la missione civilizzatrice del bianco europeo.

Una volta stabilito il dominio coloniale, questa narrazione fu messa da parte per fare posto a una figura che potesse rassicurare la popolazione bianca della loro incolumità. Il brutale e il minaccioso “selvaggio” fu allora trasformato in una figura infantile, dotata di poca intelligenza e quindi innocuo, diventando oggetto di raffigurazioni denigranti, infantilizzanti, volti a sottolineare la sua inferiorità intellettuale.

I neri divennero ben presto funzionali all’intrattenimento e al divertimento degli europei e si iniziarono a formare le basi per il razzismo culturale che resiste tutt’oggi.

Questa evoluzione nella rappresentazione degli africani, dei colonizzati e della nerezza si vede ben documentata nel tempo attraverso le forme di arti visive e figurative: dalle caricature, alle prime rappresentazioni teatrali, al mondo della televisione e del cinema.

I più noti fra questi, negli Stati Uniti, furono sicuramente i Minstrel Show. Erano spettacoli in cui gli attori bianchi erano soliti mascherarsi da neri (pelle dipinta di nero, enormi labbra dipinte di rosso, tratti somatici grotteschi) all’interno di sketch esplicitamente razzisti.

Di grande fama fu la figura di Jim Crow, un personaggio caricaturale interpretato da un attore bianco, Thomas Rice, che fu di ispirazione per le “Jim Crow Laws”: le leggi razziste e liberticide che favorivano la segregazione razziale alla fine del XIX secolo. La rivoluzione in questo campo si ebbe solamente con i Movimenti dei diritti civili degli afroamericani, a partire dagli anni ‘60 del ‘900.

È in questo contesto che si inserisce la scelta della soprano Angel Blue di non esibirsi all’Arena di Verona —rifiutando dunque il suo ruolo ne “La Traviata” — alla scoperta che il teatro aveva recentemente messo in scena un'altra opera di Giuseppe Verdi in cui erano presenti artisti in blackface.

Questa decisione ha suscitato l’indignazione dei soliti che accusano di perbenismo qualsiasi presa di coscienza che metta in discussione il pensiero tradizionale, di chi afferma che “ci sono cose più serie” — come se la discriminazione razzista non poggiasse su basi “meno serie” prima di esprimersi nella sua forma più violenta — e di coloro che definiscono legittima l’indignazione della popolazione afroamericana riguardo a queste questioni, in quanto legate alla loro lunga storia di schiavitù, ma “decontestualizzata” la rabbia degli afroitaliani, dimenticando il passato coloniale dell’Europa e dell’Italia stessa.

Ecco allora che prendono vita i discorsi secondo cui “non siamo come gli Stati Uniti”, quel solito negazionismo che va a cancellare la realtà quotidiana di milioni di persone e culla chi rifiuta imperativamente di riconoscersi protagonista di queste dinamiche.

In Italia, dipingersi la faccia di nero per imitare o mettere in scena persone nere è una pratica che esiste da sempre. La televisione italiana ne fornisce solo alcuni esempi: si pensi a Totò nei panni dell’ambasciatore del Catonga, che oltre a dipingersi di nero, con tanto di anello al naso, ne stereotipava anche il modo di parlare o ancora allo sketch Angeli negri di Ugo Tognazzi e Gianni Agus, in cui la maschera nera del “selvaggio” veniva presentata come una figura tutt’altro che intelligente, remissiva e ingenua.

Nelle sue manifestazioni più recenti abbiamo le “maschere nere” presentate a Tale e quale show, che ogni anno ci regalano caricature, spacciate per imitazioni, dei più famosi artisti afroamericani. In ognuna di queste situazioni, il corpo nero funge da maschera — una maschera che chi ne subisce le ripercussioni reali non può decidere di scollarsi per comodità— e finisce per diventare inevitabilmente grottesca.

Le caratteristiche fisiche ritratte nella maggior parte di questi sketch non sono altro che il riflesso degli stereotipi occidentali nei confronti dei corpi neri, espressi attraverso immagini e scenette. Esse rappresentano l'espressione dei classici pregiudizi occidentali contro il nero, che lo pongono sempre in una posizione di inferiorità o mancanza, caratterizzato da stupidità e immaturità e spogliato di qualsiasi individualità.

E nemmeno le varie forme di “omaggio” rivendicate da alcuni possono trascendere questa implicazione. Mascherarsi da Nero significa ignorare la brutale esperienza che ha caratterizzato e continua a caratterizzare l’essere soggetti razzializzati. Perché il trucco può essere rimosso; l’essere neri invece non è un travestimento, non è una battuta da palcoscenico, è una condizione, impregnata di una storia razziale. Indossare il simbolo della razzializzazione non può essere un omaggio.

Nessuno si sognerebbe di indossare un grosso naso adunco per omaggiare un artista ebreo: non si farebbe altro che reiterare lo stereotipo e lo stigma che l'accompagna, e così la gerarchia di potere imposta dalla razzializzazione. Quel riserbo e rispetto dovuti per la storia, i soprusi e le persecuzioni subite non sono a nessun livello concessi, né addirittura pensati, quando i soggetti sono corpi neri. Ed è anche attraverso queste mancanze che passa la condizione di inferiorità di cui sopra.

La presa di coscienza e l'educazione sul razzismo, come sistema oltre che concetto, è fondamentale per la comprensione di queste dinamiche. Per alcune persone, “razzismo” significa odio o rigetto esplicito, intenzionale e lampante nei confronti di un gruppo di persone. Tuttavia, queste semplificazioni da dizionario, prive di ulteriori analisi, falliscono nel riconoscere la base che sostiene o crea i mezzi per la discriminazione e i metodi attraverso cui questo si produce.

Il razzismo non è solo esplicito e consapevole: di fatto è perlopiù implicito e inconscio. Il razzismo non si limita a infettare la mente della persona razzista, ma è interiorizzato nel modo in cui le persone nere e razzializzate stesse si percepiscono all’interno della società. Ciò che deve essere analizzato non è se questa pratica sia offensiva o meno, ma il perché la maggior parte della società italiana ne neghi la natura e le ripercussioni razziste.

Il problema vero rimane che che lo stigma del razzismo si è diffuso molto più velocemente della conoscenza delle sue manifestazioni ed è questo stesso stigma che funziona da deterrente per lo sviluppo di un senso di consapevolezza approfondito. Quando si tratta di razzismo o di qualsiasi altra forma di oppressione, la tendenza a voler giustificare le sue manifestazioni con argomenti inerenti alla moralità è abbastanza diffusa. «Non era fatto con cattiveria!», «Non è una cattiva persona!», «Non è per niente razzista, la sua intenzione non era quella di offendere!».

Invocare un'intenzione mal compresa è in realtà un processo comune che scredita la rabbia di chi viene costantemente sottoposto alle conseguenze di queste azioni. Perché, quando parliamo di razzismo e dei suoi soggetti correlati, diamo tanta importanza all'intento che si nasconderebbe dietro l'atto razzista? Perché il razzismo è quasi sistemicamente percepito come un difetto inconfessabile.

L'Italia è quel paese in cui è più problematico parlare di razzismo che essere razzisti. Dire a qualcuno che sta mettendo in atto comportamenti razzisti e sottintendere una qualche sua responsabilità diretta in queste dinamiche è trattato come una dichiarazione di guerra, un requisito sufficiente perché chi subisce passi dalla parte del torto.

Ma il problema non è se le persone che mettono in atto comportamenti razzisti siano cattive, gentili, buone, malvagie oppure “non razziste” e piene di ”buone intenzioni”.  "L'intento" ha poca importanza in questo contesto: quello che interessa è chiedersi cosa rende le nostre società così permissive riguardo al razzismo, è capire perché quasi tutti si dicono pronti a condannarlo mentre questo continua ad affermarsi attraverso politiche stigmatizzanti e a strutturare i nostri rapporti sociali.

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Focalizzarsi sull'intento cancella le interconnessioni sistemiche all'interno dei processi individuali e collettivi che determinano il razzismo. Così facendo non ci interroghiamo sulle condizioni che ne facilitano la produzione ed esistenza.

Allo stesso modo, dichiararsi “non razzisti” non ha alcun valore: è una dichiarazione di neutralità che maschera la deresponsabilizzazione verso le questioni rilevanti e, soprattutto, permette di liquidare tutti gli interrogativi riguardo ai rapporti di forza in gioco.

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