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Usa, la maggior parte delle proteste contro la violenza della polizia sono pacifiche. A dispetto della narrazione di Trump

11 Settembre 2020 10 min lettura

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Usa, la maggior parte delle proteste contro la violenza della polizia sono pacifiche. A dispetto della narrazione di Trump

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Agitatori e saccheggiatori”, “delinquenti”, “terroristi”. Sin da quando negli USA è cominciata l’enorme ondata di proteste dopo la morte di George Floyd, la narrazione adottata dalla Casa Bianca delle manifestazioni di Black Lives Matter (BLM) è stata quella di un movimento estremamente violento e pericoloso per la serenità delle città americane.

Da uno studio condotto da Armed Conflict Location and Event Data project (ACLED) - organizzazione che da tempo monitora violenza politica e disordini nel mondo – con la Bridging Divides Initiative della Princeton University emerge invece che la maggior parte delle migliaia di proteste portate avanti quest’estate da BLM sono state pacifiche.

“La grande maggioranza delle manifestazioni legate al movimento Black Lives Matter erano non-violente”, si legge nella ricerca, secondo la quale in oltre il 93% delle proteste non si sono verificati danni gravi a persone o proprietà. Sono stati documentati cortei ed eventi pacifici in oltre 2.400 località negli Stati Uniti, mentre si sono verificate manifestazioni violente in meno di 220 luoghi, neanche il 10% di quelli in cui sono state senza incidenti. Secondo lo studio, in diverse aree urbane come ad esempio a Portland, dove le proteste vanno avanti senza sosta dall’uccisione di Floyd, disordini violenti sono stati in gran parte confinati in specifiche zone e quartieri piuttosto che sparsi in tutta la città.

Tra la fine di maggio e quella di agosto i ricercatori di ACLED e Princeton hanno analizzato 7.750 manifestazioni associate a BLM in oltre 2.000 differenti località negli Stati Uniti e più di 1.000 proteste legate a COVID-19. Un terzo di queste ultime riguardavano l’apertura delle scuole, ed erano tutte pacifiche. Una settantina di manifestazioni sono state organizzate da lavoratori della sanità e almeno 37 riguardavano la crisi degli sfratti.

Quello che è venuto fuori è che le forze dell’ordine e le autorità hanno sin da subito adottato un “approccio pesante” nei confronti delle manifestazioni di BLM e, quando sono intervenute a presidiare, hanno fatto un uso “sproporzionato” della forza se paragonato anche ad altri tipi di cortei.

Sebbene, come detto, la grande maggioranza delle proteste di BLM sia stata pacifica, in oltre il 9% - circa una su dieci – le autorità sono intervenute. Nelle manifestazioni organizzate da altri gruppi o con altre rivendicazioni, la percentuale è stata invece del 3%. Quando le forze dell’ordine sono intervenute, hanno usato il “pugno duro”: sparando gas lacrimogeni, spray al peperoncino o picchiando i manifestanti. Più del 5% di tutti gli eventi legati a BLM è stato gestito con l’uso della forza da parte delle autorità – meno dell’1% nel caso di altri gruppi o movimenti. In alcuni casi, si legge nel report, la risposta repressiva della polizia “sembra aver infiammato le tensioni e aumentato il rischio di un'escalation violenta”. A Portland, ad esempio, le manifestazioni violente sono aumentate dal 53% al 62% del totale dopo l’intervento degli agenti federali. I ricercatori hanno documentato 392 incidenti quest’estate in cui le autorità governative hanno usato la forza sui manifestanti di Black Lives Matter.

In alcuni casi, quando si sono verificati episodi violenti è stata segnalata la presenza di “agenti provocatori” o infiltrati. Lo studio riporta l’esempio di una manifestazione tenutasi il 27 maggio a Minneapolis, quando un uomo con un ombrello – poi identificato come un membro degli "Hells Angels", un gruppo legato al suprematismo bianco – è stato visto spaccare le vetrine dei negozi. È stato uno dei primi episodi di attività violenta quel giorno che “ha creato un’atmosfera di ostilità e tensione” che ha contribuito a innescare la diffusione di saccheggi in seguito a proteste inizialmente pacifiche, secondo gli investigatori, che ritengono che l'uomo “volesse seminare discordia e disordini”.

«Ci sono state delle manifestazioni violente, e sono quelle che tendenzialmente ricevono maggiore copertura mediatica», ha spiegato al Guardian Roudabeh Kishi, direttore per la ricerca e l’innovazione di ACLED. «Ma se si va a guardare l’insieme di tutte le manifestazioni in corso, è prevalentemente pacifico».

La percezione di BLM e il ruolo di politica e media

Eppure, la convinzione di molte persone negli Stati Uniti è opposta, e cioè che le proteste di BLM siano in gran parte violente. Il 42% degli interpellati in un sondaggio condotto a giugno ha risposto che “molte proteste” associate al movimento incitano “alla violenza o alla distruzione della proprietà privata”. Questo risultato, notano i ricercatori nel report, è in linea con un monitoraggio pubblicato a fine agosto, secondo cui l’approvazione nei confronti del movimento Black Lives Matter ha avuto il suo picco il 3 giugno – cioè la settimana successiva all’uccisione di George Floyd, quando sono iniziate le proteste – e da allora ha iniziato a “diminuire drasticamente”.

Questa disparità di percezione ha diverse cause. Secondo una ricerca dell’università di Washington, una di queste è l’orientamento politico del cittadino che osserva le proteste: i repubblicani, ad esempio, sono più inclini a etichettare le proteste contro gli abusi della polizia come “violente”. Questo può dipendere dalla resistenza conservatrice alle richieste di cambiamento del sistema o anche dal pregiudizio razzista che vede neri – e cioè fondatori e principali sostenitori di BLM – come intrinsecamente violenti, qualsiasi tattica di protesta utilizzino. “I politici che si propongono come difensori del law and order capiscono intuitivamente come funziona questo meccanismo”, scrivono i ricercatori.

Descrivendo i loro avversari politici come pericolosi agitatori, possono essere in grado di ottenere sostegno nei confronti di misure repressive dure anche contro manifestanti non violenti”. Basti pensare alle parole utilizzate dal presidente Donald Trump (o dal senatore repubblicano Tom Cotton) in questi mesi di proteste di BLM: “delinquenti”, “saccheggiatori”, terrorismo domestico”.

E a proposito di terrorismo, mentre condanna e mette genericamente in guardia da “violenti” che scendono in piazza contro gli abusi della polizia o promette di inserire tra le organizzazioni terroristiche gli Antifa (che comunque sono una cosa diversa rispetto a BLM), il presidente USA dimentica sistematicamente di fare lo stesso per quanto riguarda i gruppi suprematisti bianchi.

E qui l’utilizzo del pregiudizio conservatore solo in ottica di consenso facendo leva sul tema del pericolo si palesa molto chiaramente. Se infatti esiste in questo momento una grossa minaccia di terrorismo domestico che incombe sul paese, questa non è costituita né dagli Antifa, né dalle manifestazioni correlate o in sostegno al movimento per fermare le ingiustizie razziali. Secondo le bozze dei documenti Dipartimento della sicurezza interna degli Stati Uniti, nel 2021 i suprematisti bianchi resteranno la “minaccia più persistente e letale” nel paese, considerato anche che alcuni gruppi violenti estremisti hanno capitalizzato sull’aumento della tensione politica e sociale verificatosi quest’anno.

Ma un ruolo decisivo nella percezione delle proteste di BLM come non pacifiche lo giocano i media. L’ONG Anti-Defamation League (ADL) ha documentato l’esistenza di campagne di disinformazione organizzate con l’obiettivo di diffondere una “deliberata caratterizzazione errata di gruppi o movimenti [coinvolti nelle proteste], ritraendo attivisti che sostengono Black Lives Matter come estremisti violenti o affermando che Antifa è un'organizzazione terroristica coordinata o manipolata da nebulose forze esterne”.

Considerati i dati sulla prevalenza delle proteste pacifiche, la copertura mediatica degli episodi violenti all’interno delle manifestazioni è stata decisamente sproporzionata. Tv e giornali conservatori come Fox News hanno mostrato ripetutamente immagini di rivolte, saccheggi e violenze commentati da ospiti indignati in studio. Talvolta gli opinionisti parlavano mentre andavano in onda filmati vecchi, che si riferivano a manifestazioni avvenute settimane prima. Un modo per implicare che i disordini siano ancora in corso, mentre le immagini con la data antecedente scorrono in sottofondo.

Jason Johnson, professore di Global Journalism and Communication alla Morgan State University, ha notato su Vox come in generale eventi come le proteste esplose dopo l’uccisione di George Floyd siano raccontate male dai media e dunque comprese male dal pubblico. “I network – scrive – si concentrano sullo spettacolo: fuoco, persone che piangono, finestre rotte, piuttosto che sulla storia più grande”. In molti casi questi episodi non coinvolgono tutta la città o tutta la manifestazione, sono limitati a piccole aree, ma la stampa che preferisce immagini drammatiche come metafora di una protesta “non è un fenomeno nuovo”.

“Con questo non voglio dire che alcuni manifestanti non commettono violenze o danneggiamenti di proprietà”, afferma Johnson, ma i giornalisti dovrebbero essere in grado di distinguere anche tra i vari attori che si trovano sulla scena durante i disordini: “Ci sono i suddetti poliziotti armati, ci sono ‘agenti del caos’ che si infiltrano nelle proteste pacifiche per i loro scopi” e poi ci sono “criminali ordinari opportunisti”. Nessuno di questi “andrebbe confuso con le centinaia di uomini e donne che protestano pacificamente e che sono solitamente soggetti a violente rappresaglie da parte della polizia. Che è la ragione per cui la narrazione del ‘stanno bruciando la loro stessa comunità’ è ingannevole e pericolosa”.

Ma il punto più importante quando si trasmettono – o guardano – immagini di disordini, nota Johnson, è il contesto della protesta e la risposta della polizia. Per mesi le TV americane hanno mandato filmati che mostravano uomini e donne bianchi e armati agire con fare minaccioso nei confronti della polizia e dei politici mentre protestavano contro le restrizioni per evitare il contagio di COVID-19. In queste occasioni, raramente si sono viste forze dell’ordine in assetto antisommossa o usare la forza. Cosa che invece accade in manifestazioni di gruppi di sinistra o in particolar modo in quelle organizzate da minoranze.

Infine, Johnson sottolinea come l'attenzione e l'amplificazione sui danni alla proprietà piuttosto che sulle vite perse che hanno innescato i disordini sia “un riflesso delle priorità spaventosamente squilibrate della stampa”.

Come stanno cambiando le proteste

In un articolo su The Atlantic la giornalista Syreeta McFadden si interroga sul futuro di Black Lives Matter dopo lo straordinario impulso per un cambiamento culturale e politico dato dalle manifestazioni di quest’estate. Nelle comunità sparse per il paese, sui muri ci sono i ritratti di George Floyd e Breonna Taylor, cartelli ‘Black Lives Matter’ sono affissi su finestre o vetrine dei negozi e la stessa scritta campeggia per le strade delle città, sono state tirate giù statue che ricordavano personaggi razzisti e segregazionisti, grandi marchi hanno dichiarato di riconoscere l’esistenza di un razzismo sistemico, il dipartimento di polizia di Minneapolis è stato smantellato. E poi?

La giornalista osserva che già a giugno – all’apice delle proteste – si è avvertita la mancanza nel paese di una volontà condivisa di riforma della polizia. Il ferimento di Jacob Blake a Kenosha, e le proteste che sono seguite, hanno riportato la questione sotto l’attenzione pubblica, e potranno esercitare nuova pressione sui legislatori per agire. Ma nel frattempo, secondo la giornalista, il movimento è certamente entrato in una seconda fase.

Questa fase è inclusiva e intersezionale - “Tutte (cis/trans/queer/disabili) le vite nere contano” -, consiste in azioni dirette e pianificazione a lungo termine e può essere la cifra che può permettere a BLM di durare ancora nel tempo. In questo momento è un “network decentralizzato e interdipendente di organizzazioni e individui che canalizzano le loro energie verso la costruzione di una società dove le persone nere possono prosperare”.

McFadden ricorda che “nel 2016, solo il 43% degli americani supportava il movimento Black Lives Matter. Quattro anni dopo, l’ago si è spostato significativamente. La maggioranza degli americani – e più della metà dei bianchi – sostiene le proteste così come una più ampia riforma della polizia”, scrive McFadden, secondo cui in questo momento idee che una volta erano considerate troppo radicali sono entrate in modo significativo nel discorso mainstream.

Leggi anche >> I bianchi dovrebbero smetterla di dire ai neri come protestare

Secondo la giornalista del Washington Post Marissa J. Lang, le proteste nate quest’estate dopo la morte di George Floyd hanno sviluppato un linguaggio e una cultura condivisa, mentre le manifestazioni quotidiane diventavano un dato di fatto nelle città di tutto il paese. I video virali che mostravano la violenza della polizia contro i cittadini neri hanno avuto effetto sui manifestanti, che hanno sviluppato nuovi metodi di resistenza che secondo gli esperti potrebbero cambiare per sempre le proteste nel paese.

Ad esempio, scrive Lang, i cortei sono diventati più conflittuali, le persone hanno iniziato a partecipare a manifestazioni lontano dalle loro città, si sono diffusi tutorial online su come creare scudi fatti in casa per proteggersi dai proiettili di gomma. Gli esperti interpellati dalla giornalista ritengono che le proteste di BLM potrebbero plasmare la visione del mondo e della politica di una generazione – così come il movimento per i diritti civili negli anni 60 aveva aperto gli occhi degli americani sul razzismo e Occupy Wall Street aveva portato le disuguaglianze socioeconomiche nel mainstream.

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A cambiare, secondo Gabriella Coleman, antropologa della McGill University di Montreal specializzata in attivismo online e movimenti sociali, potrebbe essere anche il confine di cosa è da considerarsi una protesta pacifica. Per la professoressa, man mano che i video dei disordini con la polizia girano sui social, le immagini diventano sempre più comuni e inconsciamente vengono normalizzate. Quegli stessi video che ritraevano scontri tra la polizia e uomini e donne disarmati o manifestanti spinti, picchiati o colpiti da lacrimogeni hanno spinto molti americani a ricalibrare le loro opinioni sulla polizia e sulla giustizia.

«Manifestanti che erano relativamente nuovi alle proteste e che poi sono stati colpiti da proiettili di gomma e spray al peperoncino hanno ora imparato che tipo di caschi indossare e cosa fare quando un lacrimogeno atterra ai tuoi piedi», ha spiegato Mark Bray, storico alla Rutgers University e in passato organizzatore del movimento Occupy Wall Street. «Prima di questo decennio – ha aggiunto - direi che per la maggior parte degli americani la protesta accettabile era tenere un cartello o votare. L’asticella è stata spostata spingendo le tattiche di protesta in una direzione più militante. E questo complica l’idea che abbiamo di ciò che è o non è una protesta violenta».

Immagine anteprima via Dan Aasland - CC BY-SA 2.0

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