Repressione, persecuzioni e censura: Lukašenka verso il settimo mandato in Bielorussia
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Risale allo scorso ottobre l’annuncio ufficiale della Commissione elettorale centrale della Belarus’ che ha indetto e confermato le prossime elezioni presidenziali bielorusse per il 26 gennaio 2025. Una campagna elettorale unica nel suo genere per il dittatore bielorusso, Aljaksandr Lukašenka: alla guida da ben 30 anni, mira al suo settimo mandato presidenziale consecutivo pur dichiarando di non essere “aggrappato al potere” e di aver intenzione di “fare tutto il possibile per passare in tutta calma e tranquillità il testimone alla nuova generazione”.
Per la prima volta le elezioni si svolgeranno sullo sfondo di un palese avvicinamento alla Russia e nel contesto di una “grande guerra regionale” (l’invasione russa dell’Ucraina), in cui Minsk non è solo isolata all’interno del continente europeo (a causa principalmente delle sanzioni che gravano sull’economia del paese e della questione dei migranti al confine con la Polonia), ma anche (in)direttamente coinvolta nel conflitto che imperversa in Ucraina dopo l’invasione russa su larga scala del 24 febbraio 2022. Nonostante la mancanza di sorprese su chi sarà il vincitore, i prossimi cinque anni potrebbero perciò portare cambiamenti significativi non solo per la Belarus’, ma per l’intera regione, soprattutto in materia di sicurezza.
Queste elezioni influenzeranno anche il funzionamento delle forze democratiche bielorusse, oramai esiliate all’estero dal 2020 in seguito alle proteste di matrice antigovernativa sorte dopo le elezioni irregolari di quello stesso agosto. L’opposizione dovrà affrontare per la prima volta queste condizioni uniche di voto, probabilmente stando a guardare l’ennesima farsa in corso, mentre Lukašenka continua a negare il fatto che nel paese ci sono migliaia di prigionieri politici in carcere e un’attiva pressione e repressione sui cittadini.
La prevista rielezione e vincita assodata di Lukašenka sarà, perciò, un ulteriore passo verso la trasformazione dell’identità politica del movimento democratico bielorusso in esilio, troppo debole per poter influire in un qualche modo sui risultati del voto all’interno del paese. In questo contesto, anche gli eventi del 2020 – che avevano animato le piazze bielorusse e dato speranza per un futuro democratico – si stanno infatti appannando, diventando purtroppo sempre di più un lontano ricordo del passato, dimenticato dalla stessa comunità internazionale (se non per qualche sporadico e spiacevole episodio lungo i confini europei).
Di cosa parliamo in questo articolo:
La campagna presidenziale: “Non al posto di Lukašenka, ma insieme al presidente”?
Nonostante si dia per scontata la vittoria di Lukašenka, la Commissione elettorale centrale della Belarus’ lo scorso 23 dicembre ha registrato altri quattro candidati per queste presidenziali.
Il dittatore bielorusso, che guida il paese dal 1994, non è quindi di fatto l’unico candidato alla presidenza, anche se finora si è giocato bene le sue carte: esattamente un anno fa, Lukašenka ha firmato una legge che non solo gli garantisce l’immunità, la protezione a vita e le proprietà statali in caso di dimissioni dalla carica presidenziale, ma che inasprisce notevolmente i requisiti per i candidati alla presidenza e rende impossibile l’elezione dei leader dell’opposizione che negli ultimi anni sono fuggiti all’estero. Secondo questa legge, possono infatti candidarsi alla corsa presidenziale solo i cittadini bielorussi che risiedono stabilmente nel paese da almeno 20 anni e che non hanno mai avuto un permesso di soggiorno in un altro Stato. Un vero colpo basso per l’opposizione.
“Lukašenka ha annunciato la data della sua “rielezione”, il 26 gennaio. Si tratta di una pagliacciata priva di un vero processo elettorale, condotta in un’atmosfera di terrore. Non saranno ammessi candidati alternativi né osservatori. Chiediamo ai bielorussi e alla comunità internazionale di respingere questa farsa”, ha scritto su X la leader dell’opposizione in esilio a Vilnius Svjatlana Cichanoŭskaja, il cui marito Sjarhej è tuttora detenuto in un carcere di massima sorveglianza bielorusso dall’estate 2020.
Temendo un’altra sconfitta elettorale, ribadisce la leader democratica, il regime ha revocato la registrazione di tutti i partiti di opposizione, chiudendo oltre 1.700 organizzazioni della società civile e tutti i media indipendenti. L’atmosfera elettorale si preannuncia così carica di tensioni, di brogli e anche di paura: “Quello che accadrà in Belarus’ alla fine di gennaio non ha nulla a che vedere con delle elezioni. È impossibile tenere elezioni giuste in un paese in cui tutti i media e tutti i partiti sono stati liquidati e i leader politici sono in prigione o all’estero”, ha dichiarato Cichanoŭskaja ai giornalisti presenti al Seimas (il parlamento lituano) qualche settimana fa, aggiungendo che per Lukašenka questa corsa alla presidenza è solo un rituale e invitando sia i bielorussi a votare contro tutti, che la comunità internazionale a non riconoscere i risultati della campagna elettorale.
Lo scorso anno, a febbraio, i bielorussi erano già stati chiamati alle urne per eleggere il parlamento: tutti e quattro i partiti in lizza avevano appoggiato il regime di Lukašenka, non avendo peraltro molta scelta dato che il bat’ka (letteralmente “padre”, come si fa chiamare dai suoi sostenitori) aveva sciolto tutti gli altri partiti oppositori. Eppure, oggi figurano quattro nomi che osano “competere” con la ri-elezione del bat’ka bielorusso a capo dello Stato: il leader del Partito liberaldemocratico Aleh Hajdukevič, il presidente del Partito repubblicano del lavoro e della giustizia Aleksandr Chižnjak (entrambi molto legati al governo autoritario attuale), il capo del Partito comunista bielorusso Sjarhej Syrankoŭ (che si presenta con lo slogan “Non al posto di Lukašenka, ma insieme al presidente”, con un programma decisamente filo-sovietico e filorusso) e l’imprenditrice e avvocata Hanna Kanapackaja, nota per la sua campagna politica contro l’interferenza russa in Belarus’ e forte sostenitrice dei cambiamenti politici. Nessuno può essere, quindi, definito come un candidato indipendente e vero rivale del bat’ka, tranne forse Kanapackaja, che aveva già partecipato alla campagna elettorale del 2020 guardando all’Occidente e puntando sulla difesa dei diritti umani, ottenendo però a malapena l’1,68% dei voti.
Le procedure elettorali, a detta delle autorità bielorusse, si svolgeranno in maniera regolare poiché controllate da ben 362 osservatori internazionali già accreditati, tra cui alcuni rappresentanti della CSI (Comunità degli Stati indipendenti) e del CSTO (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva), nonché 58 osservatori indipendenti. Eppure, qualcosa non torna: come per le ultime parlamentari, anche per queste presidenziali le autorità bielorusse hanno deciso di non invitare gli Stati partecipanti dell’OSCE (l’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione europea) a osservare il voto del 26 gennaio. Una decisione che fa discutere, essendo il paese firmatario del Documento di Copenaghen del 1990 e dunque impegnatosi a rispettare determinati principi sui diritti umani: in tal modo si impedisce di dare una valutazione imparziale, trasparente e indipendente del processo elettorale, rimarcando anche la mancanza di impegno da parte del governo di Minsk di seguire gli standard democratici internazionali.
D’altronde, risultati simili si sono ben visti nell’estate 2020: le elezioni del 9 agosto sono state segnate dalle più grandi proteste nella storia del paese, a causa delle quali alcuni dei detenuti sono tuttora rinchiusi nelle carceri bielorusse. Molti Stati europei e del mondo non hanno riconosciuto i risultati delle elezioni, dove Lukašenka, secondo la Commissione elettorale centrale, aveva ricevuto il sostegno dell’80,10% degli elettori. Il prossimo 26 gennaio, molto probabilmente, si ripeterà la stessa cosa: ma a che prezzo per i bielorussi?
Se Svjatlana Cichanoŭskaja invita i cittadini bielorussi a votare contro tutti, è anche vero che lei e gran parte dell’opposizione non potranno prendere parte alle procedure di voto. Minsk si è infatti rifiutata di aprire i seggi elettorali all’estero a causa della “mancanza di misure di sicurezza adeguate”: lo ha dichiarato in una conferenza stampa il capo della CEC bielorussa Igor Karpenko, il quale ha anche espresso la speranza che “i Paesi vicini non impediscano ai cittadini bielorussi di attraversare il confine per esercitare i loro diritti elettorali” e per i quali sono stati appositamente previsti un seggio a Minsk e nelle città più importanti delle rimanenti cinque regioni. Una mossa abbastanza chiara: il cittadino bielorusso che decide di rimettere piede in patria avvalendosi del diritto di voto, non potrà mai più varcarne i confini (perlomeno sotto il regime attuale).
In maniera preventiva, Lituania e Polonia si sono già allineate alle idee di Cichanoŭskaja, optando per non riconoscere come legittime le prossime presidenziali bielorusse. Nel suo discorso rivolto alla comunità bielorussa in Polonia, il presidente polacco Andrzej Duda ha auspicato che la Belarus’ conquisti la libertà, la sovranità e l’indipendenza, e torni a essere un Paese democratico. Oltreoceano, invece, nonostante i politici bielorussi abbiano reagito alquanto prontamente alla vittoria di Donald Trump alla Casa Bianca (Lukašenka è stato uno dei primi leader mondiali a congratularsi, addirittura prima del discorso di Trump stesso alla nazione) nessuno si è ancora espresso al riguardo.
La propaganda di Stato bielorussa, che ha quindi accolto con entusiasmo la vittoria del repubblicano, ha messo in un certo senso d’accordo il governo centrale con i propri oppositori. A quanto pare, Zenon Paznjak, leader del movimento “Belarus’ Libera” e figura leggendaria per il Paese (in esilio da oltre 25 anni è tra i promotori del bielorusso come unica lingua di Stato e grande sostenitore dei diritti umani), ha espresso la speranza che il trionfo di Trump “porterà al contenimento dell’autoritarismo aggressivo, alla vittoria della libertà e della democrazia in quelle società che soffrono di guerra e tirannia”. Solo la reazione di Cichanoŭskaja è apparsa più contenuta: ha semplicemente osservato che gli americani – a differenza dei bielorussi – hanno la possibilità di partecipare a elezioni libere e democratiche e si è augurata che la politica degli Stati Uniti nei confronti della Belarus’ non cambi radicalmente nei prossimi mesi.
La macchina della repressione
La repressione e il terrore di Stato sono un elemento caratteristico del regime di Lukašenka, che continua a inficiare la politica interna. Chiunque sia sospettato di slealtà nei confronti delle autorità o si azzardi a esprimere il proprio dissenso può essere preso di mira e, in un baleno, può venir accusato di terrorismo o estremismo.
La libertà di riunione e di espressione pacifica continua a essere costantemente sotto attacco; manifestanti e dissidenti sono arbitrariamente perseguiti per reati penali e amministrativi, spesso con gravi violazioni degli standard di equità processuale. Le organizzazioni della società civile, i media, le risorse online e le applicazioni “libere” sono riconosciute dalle autorità come formazioni estremiste, quindi perseguibili anche penalmente.
Dopo il 2020, alcuni bielorussi hanno espresso il loro dissenso mostrando mancanza di rispetto per i simboli statali imposti dal regime con il “referendum” fraudolento del 1996, che aveva sostituito i simboli costituzionali. Oggi, strappare le bandiere rosso-verdi dagli edifici, rompere le loro aste o fare commenti critici sulla bandiera di Stato sono tutte azioni che le autorità qualificano come “profanazione dei simboli dello Stato” e quindi condannabili ai sensi dell’articolo 370 del Codice penale, la cui massima pena per questo tipo di reato è di tre anni di reclusione.
I numeri del 2024 non sono di certo promettenti e dimostrano, ancora una volta, che la popolazione bielorussa vive in uno stato di paura, repressione e terrore che non possiamo nemmeno immaginare nell’Europa di oggi. O forse sì, visto che la Belarus’ è l’unico paese del continente a mantenere in vigore la pena di morte, la cui ultima esecuzione risale al 2022. A fine dicembre 2024 il paese contava fra i detenuti 1.265 prigionieri politici, tra cui 168 donne (da agosto 2020, periodo d’inizio delle proteste contro il governo, 3.697 persone erano state identificate come prigionieri politici, 680 delle quali donne). Lo scorso mese solo 49 sono stati graziati e rilasciati.
Tra i detenuti, anche diversi difensori dei diritti umani che stanno attualmente scontando le loro pene in istituti penitenziari. Fra gli altri, il presidente di Viasna (associazione per i diritti umani) e premio Nobel per la pace Ales’ Bialjacki, il suo vice Valjancin Stefanovič e l’avvocato Uladzimir Labkovič, condannati rispettivamente a 10, 9 e 7 anni di carcere nel marzo 2023 per aver svolto attività correlate ai diritti umani. Inoltre, a tutti, tranne a Bialjacki, è stata comminata una multa di 111mila rubli bielorussi (quasi 32.200 euro), mentre al presidente di 185mila rubli (più di 53mila euro), come richiesto dal pubblico ministero. Il tribunale ha anche ordinato di riscuotere dagli imputati quasi 300mila euro che avrebbero “ottenuto con mezzi criminali” attraverso “il contrabbando di un gruppo criminale organizzato”.
Molte persone imprigionate per motivi politici sono state tenute in isolamento per un lungo periodo, come gli oppositori Viktar Babaryka (che sta scontando una condanna di 14 anni ed è in isolamento da oltre 620 giorni) e Sjarhej Cichanoŭski – rispettivamente mariti di Maryja Kalesnikava e Svjatlana Cichanoŭskaja – privati dei contatti con il mondo esterno e con i compagni di detenzione. La loro situazione è in linea con la definizione di sparizione forzata, che è una violazione del diritto internazionale. Sono quattro anni ormai che l’attivista politica bielorussa Mariya Kalesnikava è rinchiusa in un carcere di massima sicurezza, condannata nel 2020 a 11 anni per tradimento e cospirazione, confinata in una cella punitiva dove non può né vedere la luce del sole, né leggere, in pessime condizioni di salute.
Attualmente oltre 4.500 persone sono etichettate come “estremiste” e figurano nella “lista dei cittadini bielorussi, stranieri o apolidi coinvolti in attività estremiste”, tra cui membri di organizzazioni per i diritti umani e il comitato internazionale per le indagini sulla tortura. Dal 2020 fino a oggi, i difensori dei diritti umani di Viasna hanno registrato più di 1.850 sopravvissuti alla tortura e ad altri trattamenti vietati. Il confinamento prolungato in celle di punizione continua a essere usato come forma di pressione sui detenuti, con l’imposizione di misure disciplinari una dopo l’altra. I prigionieri sono solitamente tenuti in stanze scarsamente riscaldate e illuminate, completamente soli e isolati, senza accesso all’esercizio fisico, al lavoro, ad attività significative o a contatti con il mondo esterno: ciò costituisce un trattamento crudele e inumano.
Viasna ha raccolto anche un numero significativo di testimonianze di ex detenuti che hanno subito le ripercussioni delle gravi violazioni sanitarie all’interno delle strutture di detenzione, testimonianze che includono la presenza di insetti parassiti e roditori, che costituiscono una grave violazione degli standard internazionali per la detenzione dei prigionieri.
Lukašenka, alla ricerca del settimo mandato, da luglio ha rilasciato 146 prigionieri politici che (sembrerebbe) si sono pentiti e hanno chiesto la grazia. Tuttavia, una nuova ondata di arresti, in vista di sradicare qualsiasi segno di dissenso prima delle elezioni, sta avendo luogo dall’inizio dell’anno.
Tempi molto bui per il giornalismo bielorusso
Il mondo del giornalismo e dei media non è certamente oscuro a questi trattamenti. Al 30 dicembre, 45 giornalisti e operatori dei media erano dietro le sbarre: si tratta del quarto più alto numero di giornalisti imprigionati al mondo, secondo quando riportato da Reporters Without Borders. La repressione contro giornalisti, blogger e altri rappresentanti dei media in Belarus’ è infatti aumentata a livelli disastrosi nell’ultimo anno, il peggiore di sempre. L’Associazione bielorussa dei giornalisti (BAJ) invita chiaramente le autorità bielorusse a rilasciare i giornalisti prigionieri politici e tutti i prigionieri politici: “Nell’indice della libertà di stampa 2024, la Belarus’ è al 167° posto su 180 Paesi, dopo aver subito un calo di ben 10 posizioni”.
Il 10 settembre, a Vilnius, anche la presidente della Federazione europea dei giornalisti Maja Sever, intervenendo a una conferenza sul lavoro dei media bielorussi, ha parlato della situazione della libertà di parola nel Paese. Sever è sopravvissuta alla dittatura socialista, alle guerre in Croazia e in Bosnia ed Erzegovina e ha combattuto per tutta la vita contro la censura e le persecuzioni; tuttavia, anche per una giornalista con un’esperienza di vita e professionale simile, “è difficile immaginare tutti gli orrori della Belarus’”, dove la collaborazione con il BAJ, un’associazione professionale di giornalisti, può comportare 10 anni di carcere.
Cambierà davvero qualcosa con queste elezioni?
La tensione per queste presidenziali è palpabile perché se, a prima vista, non ci sono minacce concrete esterne contro l’ennesima vittoria di Aljaksandr Lukašenka, è vero anche che il bat’ka bielorusso vuole riaffermare il proprio potere in tutti i modi, senza intralci, e continuare a mantenere il suo pugno di ferro sul Paese sino alla fine. E se, nel 2020, in Belarus’ c’era una nuova generazione pronta a protestare a causa dei risultati elettorali falsificati, a contrastare un regime dittatoriale e a cercare quella tanto sognata democrazia, oggi proteste e rivolte non avranno né luogo né spazio di manovra: l’opposizione rimane confinata in esilio, mentre la popolazione bielorussa è abbandonata a se stessa, in preda a un regime di paura e all’insegna della repressione.
Immagine in anteprima via ISPI