Un freelance bravo sul mercato internazionale avrà sempre un’occasione
4 min letturadi Francesca Caferri
La Repubblica
Mi sveglio tutte le mattine a fianco a un freelance. Non scrivo per questo, ma lo voglio dire subito, perché il dibattito sul mondo dei freelance che Valigia Blu ha lanciato in queste settimane a casa mia è un discorso quotidiano. Il mio compagno è un giornalista che lavora prevalentemente per le televisioni americane. Io lavoro in un grande giornale italiano e da più dieci anni mi occupo di zone difficili, prevalentemente di Medio Oriente: da qualche tempo sono stata promossa ad editor, poi è nato mio figlio e dunque i miei viaggi sono diminuiti, ma non si sono fermati. Negli ultimi sei mesi sono stata in Nigeria, sulle tracce degli estremisti musulmani di Boko Haram e in Arabia Saudita, paese non proprio semplice per una donna. In ognuno di questi posti, come mi era successo in Iraq, in Afghanistan, in Libano, in Israele o in Pakistan, ho incontrato freelance e spesso ho lavorato con loro.
Sarà per questo che alla contrapposizione fra freelance e editors, o comunque giornalisti con un contratto fisso, io non credo. La mia, di contrapposizione, è una sola. Ci sono i giornalisti bravi e quelli non bravi. Quelli che hanno voglia di consumare le suole e raccontare e quelli che restano in albergo. È questa la distinzione che mi piacerebbe iniziasse a contare davvero qui in Italia: nel mondo del mio compagno, che è americano, conta moltissimo. Non voglio idealizzare quello che accade all’estero, ma gli anni passati accanto a lui e l’osservazione da vicino del mercato del lavoro in cui lui e i suoi colleghi si muovono mi ha portato a concludere che se sei un freelance bravo sul mercato del giornalismo internazionale avrai un’occasione: il tuo lavoro – che comunque, anche da esterno, in America è pagato in maniera decente – verrà premiato e ti offriranno un contratto, una collaborazione, un riconoscimento. Non sarà facile, non sarà scontato, non sarà immediato: ma la possibilità arriverà. Lì però nessun impiego è a vita: quando inizierai a raccontare le rivoluzioni dal terrazzo del tuo albergo, i tuoi editors se ne accorgeranno e te ne chiederanno conto. E poi magari il tuo contratto non sarà rinnovato e qualcuno con più voglia di raccontare di te prenderà il tuo posto.
C’è poi un’altra contrapposizione a cui non credo: quella fra il reporter che corre alla ricerca di storie sul campo e l’editor cinico in redazione. Nessun editor – e io sono fra loro – chiude gli occhi di fronte a una buona storia che arriva da un freelance: tende a usare prima i suoi redattori, questo è normale, ma non si lascia sfuggire una proposta. La verifica, controlla chi sia la persona che la invia, la riscrive se è necessario: ma la prende in considerazione. Chi però, da freelance, invia proposte, non può sentirsi frustrato dal “sistema cattivo” se non riceve la risposta che si aspettava: quante volte ho letto proposte di interviste “esclusive” a scrittori con cui, dalla redazione, possiamo parlare quando vogliamo? O di storie già verificate e scartate per vari motivi? E quante volte, editor meno severi di me o dei miei colleghi hanno accettato storie che si rivelavano piene di errori e stereotipi? Non basta essere “lì fuori” per essere fra quelli che hanno sempre ragione, non basta essere uno che va nei posti per essere bravo: la presenza sul luogo non giustifica sciatteria, mancanza di preparazione, superficialità. Che vengano da un freelance o da un giornalista assunto a tempo indeterminato.
Di qui la mia proposta: guardiamo alla luna, non al dito che la indica. Non è della contrapposizione fra chi è dentro e chi è fuori che si dovrebbe discutere, ma del come si entra, del come offrire possibilità a chi bussa alle porte dei giornali: della bravura e del denaro, come bene ha detto Laura Eduati, ma anche delle regole. È dell’aria asfittica che troppo spesso si respira nel giornalismo italiano che sarebbe bello parlare: sul senso di avere un “Ordine dei giornalisti” nell’anno 2013. A molte cose, ne sono certa, è utile: ma in altre, mi permetto di sostenere, non fa che danni, lasciando alla porta tanti talenti e tollerando cose che in altri paesi sono inconcepibili.
Non voglio entrare nel merito dell’articolo che ha suscitato questo dibattito, dico solo che sono felice oggi che un dibattito ci sia. Spero che serva per discutere di dove sta andando l’informazione italiana oggi. Andrea Iannuzzi, giustamente, ha già allargato il discorso: il tema oggi dovrebbe essere dove va il mondo dei media e cosa deve fare chi ci vive dentro per continuare a raccontare una storia al meglio, secondo il modello dei grandi maestri ma anche sposando le nuove tecnologie.
Ben venga la discussione sui freelance, ma parliamo di occasioni, di bravura e di denaro: non di fuori contro dentro o passione versus cinismo. Chi è alla giusta e disperata ricerca di guadagno spesso si getta nelle situazioni senza pensare, prende rischi inutili e non fa un favore a nessuno: non è facendosi sparare addosso che si racconta una storia, non è diventandone il protagonista. È cancellandosi, trasmettendo le storie delle persone che ce la raccontano. Allo stesso tempo, non si può accettare che un giornalista prenda rischi enormi e poi pagare la sua storia pochi euro, ricattandolo con un “prendere o lasciare”: è ingiusto, immorale e distrugge il futuro di questo mestiere.
Infine, cancelliamo le etichette: a me non mi piace parlare di giornalismo “di guerra”, come se ci fosse qualcuno specializzato nel correre dove sparano, come se ogni guerra fosse uguale alle altre, come se per raccontare una crisi non occorresse aver studiato il paese, la sua storia, i suoi equilibri: Haiti non è Beirut e non è Bamako. Io non mi vergogno a dire che in certe realtà farei molta fatica ad orientarmi: occorre leggere prima di scrivere, pena venir fuori con un pezzo di “bum-bum” che non serve al lettore per capire né alle persone coinvolte per far conoscere la loro storia. Ci sono le storie difficili e c’è chi le vuole raccontare: in Medio Oriente come nell’Italia della mafia e della camorra. È di come farlo al meglio che mi piacerebbe continuare a discutere.
(foto via)