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Bambini ucraini deportati in Russia per denaro

30 Maggio 2023 4 min lettura

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Bambini ucraini deportati in Russia per denaro

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Nelle scorse settimane un nuovo rapporto OSCE, stilato da una Missione attivata in base al Meccanismo di Mosca, cui aderiscono sia Ucraina che Russia, aveva documentato i trasferimenti forzati e le deportazioni di minori ucraini nella Federazione Russa. Bambini e adolescenti fatti spostare in occasione del ritiro da territori precedentemente occupati e che stavano per tornare sotto il controllo ucraino, dopo lo sgombero di orfanotrofi o per motivi di salute e di cui si sono prese le tracce. La Missione – che è giunta alla conclusione che “sono avvenute numerose violazioni dei diritti dei bambini deportati nella Federazione Russa” – ha chiesto alla Russia di cessare immediatamente i trasferimenti forzati e le deportazioni di bambini nei territori occupati ed entro i propri confini riconosciuti. A marzo la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di cattura internazionale nei confronti di Vladimir Putin e Maria Lvova-Belova, commissaria russa per i diritti dei minori. Entrambi sono accusati proprio della deportazione forzata di bambini.

Secondo il governo ucraino, sarebbero oltre 16mila i minori deportati dai territori occupati dalla Russia, di questi più di 10mila sono stati rintracciati e in 300 hanno fatto ritorno a casa. Ma sono in molti a temere che il numero dei dispersi sia sottostimato. 

Ma la storia raccontata al Guardian dalla famiglia Popova, che ha potuto ricongiungersi dopo un percorso lungo e tortuoso, porta alla luce un aspetto finora ignorato: in alcuni casi i minori sono stati portati in Russia da amici e persino parenti che speravano di ottenere in cambio del denaro o un appartamento una volta varcato il confine.

Alina, la figlia di 15 anni di Svitlana Popova, è stata convinta a fuggire da Kherson e andare in Russia da Yvgenia, la madre filorussa della sua migliore amica. “Quando i soldati ucraini entreranno a Kherson ti tortureranno e ti uccideranno perché hai parlato con i soldati russi durante l'occupazione e hai preso cibo e acqua da loro. Dobbiamo scappare, siamo in pericolo”, aveva raccontato la donna ad Alina, spaventandola e convincendola così a fuggire con lei. 

“Ho detto ad Alina che era tutta una bugia, ma lei ci ha creduto, ha preso il suo certificato di nascita ed è andata con lei lo scorso ottobre [poche settimane prima della liberazione della città di Kherson]”, dice Svitlana al Guardian.

Ma quella che sembrava una fuga per poter evitare un massacro si è rivelato invece l’inizio di un’odissea. Sia per Alina che per Svitlana. Dopo lunghe ricerche sui social, Svitlana riesce a contattare sua figlia tramite l’app di messaggistica Viber e scopre che Alina era stata portata in un villaggio a 1.500 km all’interno della Russia.

“Ero così spaventata”, spiega Alina al Guardian. “Quando eravamo in Ucraina, Yvgenia era molto amichevole. Solo dopo ho capito che mi aveva ingannata. Quando ha saputo che stavo parlando con mia madre, si è arrabbiata, mi ha tolto il telefono e mi ha picchiata. Era ossessionata dal denaro e da quello che poteva ottenere dalle autorità per prendersi cura di me”.

Per poter riavere sua figlia, Svitlana aveva una sola strada: recarsi in Russia, passando per la Polonia e la Bielorussi, e rivolgersi ai servizi sociali di un paese nemico. Ma una volta raggiunta la regione in cui era stata portata la figlia, Svitlana ha fatto un’altra atroce scoperta: Yvgenia aveva mandato Alina in un “centro di riabilitazione” a 80 km di distanza, nel tentativo di nasconderla mentre stava preparando i documenti per l'adozione.

“Può sembrare strano, ma le autorità erano dalla mia parte. Erano arrabbiate perché quella donna aveva portato Alina in territorio russo”, racconta Svitlana. “E mi hanno detto che se fossi arrivata appena quattro giorni più tardi, non avrei potuto fare più nulla”. Di lì a pochi giorni Alina avrebbe infatti avuto un documento d’identità russo e Svitlana avrebbe perso ogni possibilità per riportare sua figlia a casa. 

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Quella di Alina e Svitlana è una delle poche storie a lieto fine. La maggior parte dei parenti dei bambini rapiti non è disposta a parlarne perché ha paura di pregiudicare le possibilità di un ricongiungimento. “Non siamo sicuri di quanti bambini siano coinvolti", ha dichiarato l'ex difensore civico per l'infanzia, Mykola Kuleba, che ora dirige la rete di soccorso Save Ukraine che ha aiutato genitori come Svitlana. “Non si tratta solo di bambini non accompagnati che sono stati mandati nei campi in Russia e di bambini rapiti da collegi e orfanotrofi. In alcuni casi si tratta di minori che si trovavano nelle aree occupate mentre il resto della loro famiglia rimaneva nelle aree controllate dagli ucraini. Queste famiglie hanno perso i contatti con i loro figli e ora temono di non poterli più rivedere”, aggiunge. “Siamo molto preoccupati per i bambini scomparsi da sei mesi e più, per i quali le autorità russe hanno preparato certificati di nascita e passaporti e li hanno inviati a famiglie affidatarie”.

A peggiorare la situazione c’è l’ostracismo delle autorità russe, spiega Kuleba: “Capiscono che ognuno di questi casi è un crimine di guerra e cercano sempre più di bloccare i rimpatri. Stanno rendendo le cose sempre più difficili. E il tempo lavora contro questi bambini. Alcuni provengono da contesti molto vulnerabili e ci rendiamo conto che è facile manipolarli, soprattutto dopo sei mesi”. Come il caso di un ragazzo che, dopo due settimane di permanenza in una famiglia affidataria, non voleva essere restituito alla sua famiglia d’origine, convinto che una volta a casa gli ucraini gli avrebbero fatto del male.

Immagine in anteprima: Frame video New York Post

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