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Madri detenute, bloccata la proposta di legge: i bambini restano in carcere

23 Marzo 2023 9 min lettura

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Madri detenute, bloccata la proposta di legge: i bambini restano in carcere

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Niente più bambini in carcere con le loro madri. Era questo l’obiettivo della proposta di legge Serracchiani sulla “tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”, in discussione nei giorni scorsi alla commissione Giustizia. Ma l’8 marzo il testo è stato bloccato da una serie di emendamenti avanzati dalla maggioranza di Fratelli d’Italia, e oggi, 23 marzo, è stata ritirata. “C'era un accordo che ora sembra essere venuto meno”, ha dichiarato la parlamentare del Pd Debora Serracchiani, che ha portato avanti la proposta. “Avevamo pensato di poter festeggiare l’8 marzo con un segno di civiltà: la legge sulle detenute madri. L’obiettivo di questo provvedimento non era certo quello di un’amnistia per tutte, ma far sì che le mamme e i minori potessero vivere, nel momento più delicato per i bambini, non in un carcere ma in una casa protetta, […] con tutte le attenzioni del caso secondo quell’articolo 27 della Costituzione che ci invita alla rieducazione”.

Il 22 marzo le associazioni Cittadinanzattiva e A Roma Insieme avevano diffuso una lettera appello rivolta ai parlamentari, a firma di dodici organizzazioni per i diritti dei detenuti e di quattro Garanti dei diritti delle persone private della libertà, più il presidente della Conferenza dei Garanti territoriali. Nella lettera si chiedeva di ripristinare lo spirito originario della proposta di legge, che rischiava di essere approvata con elementi addirittura peggiorativi rispetto all’attuale normativa, prevedendo ad esempio che la donna incinta possa essere detenuta in carcere o negli ICAM in caso di recidiva. Per questo i firmatari della legge hanno deciso di ritirarla. “Gli emendamenti depositati avrebbero depotenziato l’intero impianto della proposta di legge, contraddicendone finalità e motivazioni”, commenta Laura Liberto, coordinatrice nazionale Giustizia per i diritti di Cittadinanzattiva. “Le forze politiche che hanno determinato l’affossamento dell’intera proposta di legge si sono assunte la responsabilità di aver arrestato un percorso di civiltà, che mirava unicamente a superare il problema dell’incarcerazione dell’infanzia e affermare la tutela della salute psicofisica dei bambini su ogni altra ragione o interesse pubblico e politico”.

Secondo i dati del Ministero della Giustizia aggiornati al 28 febbraio 2023, in Italia ci sono ancora 24 bambini che vivono in carcere insieme alle loro 21 madri. Nello specifico, si trovano all’interno di due tipi di strutture gestite dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria): gli Icam, gli istituti a custodia attenuata per detenute madri, e le sezioni femminili delle carceri. Alcune carceri hanno allestito al loro interno anche degli asili nido: in tutta Italia ce ne sono dodici. Di notte, mamma e bambino dormono in celle singole con il lettino a fianco. La loro permanenza di solito è per brevi periodi, il tempo necessario per consentire il trasferimento in altre strutture, ma a volte i bambini rimangono qui anche diversi mesi, in alcuni casi oltre l’anno.

La proposta di legge Serracchiani nasceva sulle ceneri di un’altra proposta di legge, nota come “Legge Siani”, approvata dalla Camera nel maggio 2022 e poi rimasta bloccata al Senato. Il testo prevedeva l’eliminazione dei nidi nelle sezioni femminili, ma lasciava ancora aperta la possibilità che i bambini venissero reclusi negli Icam insieme alle loro madri, qualora sussistessero “esigenze cautelari di particolare rilevanza”. Lo avrebbe deciso il magistrato di sorveglianza, valutando il singolo caso. “Sarebbe anticostituzionale dire che una madre che delinque ha per legge un'impunità precostituita”, spiega Susanna Marietti di Antigone. “Così si violerebbe l’articolo 3 della Costituzione, secondo cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Bisogna però sforzarsi di trovare alternative al carcere, lavorando caso per caso sulle donne con bambini, la cui pericolosità sociale non è di solito così alta da non consentire di evitare il carcere”.

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La più grande novità della legge Serracchiani era quella di promuovere il modello della casa famiglia protetta: si tratta di strutture gestite da enti del terzo settore, dove le donne possono finire di scontare la propria pena in detenzione domiciliare. Le case protette sono state istituite nel 2011 dalla legge 62, che però non implicava “nuovi maggiori oneri per la finanza pubblica”: in pratica, non venivano stanziati finanziamenti. La legge Serracchiani invece prevedeva la possibilità – ma non l’obbligo – dello stato di finanziare la realizzazione delle case protette. “La questione del finanziamento è centrale”, spiega Andrea Tollis, responsabile della casa protetta Ciao di Milano. “Per ospitare le madri detenute e i loro bambini non riceviamo alcun contributo: il Comune paga una retta solo nel caso in cui viene nominato un assistente sociale. C’è stata una manifestazione di interesse della regione Lombardia per darci un contributo economico, sulla base dell’emendamento della legge di bilancio del 2020 (che ha istituito un fondo di 4,5 milioni di euro per l’accoglienza le case famiglia protette, ndr), ma ancora non sappiamo l’entità del finanziamento. E poi facciamo conto su donazioni, bandi, raccolte fondi, ma l’orizzonte temporale è sempre molto ravvicinato”. Attualmente in Italia le case famiglia protette sono solo due: oltre a quella di Milano, nata nel 2016, c’è la Casa di Leda di Roma, aperta nel 2017. Ciascuna può ospitare un massimo di sei detenute madri con i loro figli per periodo che non può superare i quattro anni.

La vita delle madri in carcere con i loro figli

Le donne che si ritrovano in carcere con i loro figli sono per la maggior parte straniere: spesso sono rom condannate per furto, oppure donne legate alla tratta o al traffico di droga. Non ci sono bambini detenuti insieme ai padri, che anzi di solito non sono presenti: stanno anche loro in prigione, oppure sono morti, o non sono più raggiungibili. 

“I bambini che trascorrono un periodo lungo in carcere presentano varie difficoltà”, spiega Giovanna Longo, presidente dell’associazione A Roma insieme, che organizza attività nel nido di Rebibbia, che ospita una media di sei bambini all’anno. “Fanno fatica a parlare e hanno un vocabolario ridotto: spesso usano parole come ‘apri’, ‘chiudi’, ‘guardia’. E poi non riescono a sviluppare a pieno le proprie capacità motorie, visto che trascorrono molto tempo chiusi in una cella, senza la possibilità di scoprire il mondo esplorando lo spazio”. Questi bambini vivono la costante ansia di essere abbandonati dalla madre e fanno fatica ad allontanarsi da lei anche per brevi periodi. Molti sviluppano disturbi dell’apprendimento o disagi psichici, per cui vengono seguiti da un neuropsichiatra. 

L’associazione A Roma insieme accompagna i bambini anche fuori dal carcere: i volontari li portano al nido o alla materna, propongono laboratori ricreativi o artistici, o organizzano brevi gite fuori città. “Queste sono opportunità fondamentali per la loro crescita”, afferma Giovanna Longo. “Purtroppo è tutto sulle spalle delle associazioni di volontariato: ancora non esiste un servizio ad hoc istituito dal ministero, che invece sarebbe fondamentale”. Durante l’emergenza sanitaria, la maggior parte di queste attività sono state bloccate. Molte mamme hanno ottenuto la detenzione domiciliare e sono uscite dal carcere: le poche che sono rimaste con i loro figli, però, non avevano servizi ed erano ancora più isolate, in sezioni rimaste praticamente vuote.

Lo stesso è accaduto negli Icam: si tratta di strutture detentive pensate appositamente per ospitare i bambini con le loro madri. Attualmente in Italia ce ne sono cinque, a Milano, Torino, Venezia, Lauro (in provincia di Avellino) e Cagliari. Il XIII rapporto di Antigone spiega che lo scopo è di “conciliare l’esigenza di limitare la presenza di bambini all’interno delle carceri con quella di garantire la sicurezza della collettività anche nei confronti di madri destinatarie di una sentenza di condanna o di un provvedimento di custodia cautelare”. 

Gli Icam sono concepiti in modo da non somigliare a una prigione: i muri sono colorati, gli agenti penitenziari lavorano senza uniforme e armi, non ci sono sbarre interne e ci sono educatori specializzati che aiutano le madri nella cura dei propri figli. Restano però le sbarre alle finestre, i cancelli e le porte blindate all’ingresso, e per entrare o uscire ogni volta servono appositi permessi. Già nel 2017 il Garante dei detenuti, nel suo rapporto annuale al Parlamento, metteva in evidenza che “gli Icam non sono la vera soluzione, soprattutto quando sono posizionati in zone distanti o mal collegate o ospitano solo poche donne con bambini. Il rischio, in questo caso, è che il prezzo sia l’isolamento delle donne stesse e la separazione dalla famiglia e il difficile inserimento dei bambini in un contesto con altri coetanei”. 

La normativa sulle madri in carcere

La prima volta che lo Stato italiano si è occupato delle donne detenute in gravidanza e delle madri di figli piccoli in carcere è stato nel 1975 con la legge 354: questa norma consentiva alle madri di tenere con sé i figli finché non avessero raggiunto i tre anni di età. Con un decreto del 1976, sono state introdotte anche figure professionali come pediatri, ginecologi, ostetriche e assistenti d’infanzia. Si è poi cominciato a ragionare sulla detenzione domiciliare, in caso di buona condotta: la legge 663 del 1986 finalmente dà questa possibilità alle madri con pene fino a due anni (la cosiddetta “detenzione domiciliare ordinaria”). Nel 1998 la legge 165 ha aumentato da due a quattro anni il limite di pena che era possibile scontare ai domiciliari, portando a dieci il limite d’età del figlio purché fosse convivente con la madre.

Solo dal 2001 con la legge 40 è stata permessa anche la “detenzione domiciliare speciale”, che estende la possibilità della carcerazione domiciliare a tutte le detenute, anche quelle condannate per reati gravi. La norma però non ha avuto un grande impatto, perché non era possibile applicarla a chi aveva numerosi precedenti penali, a rischio quindi di recidiva, e perché molte donne erano senza una dimora stabile, e quindi non avevano un luogo dove poter finire di scontare la pena. La svolta arriva nel 2011 con la legge 62, che istituisce le case famiglia protette: nata con l’intenzione di far uscire i bambini dal carcere, in realtà però la norma ha finito per allungare la carcerazione dei più piccoli, che possono stare negli Icam fino a sei anni d’età (dieci se la pena è definitiva), contro i tre previsti in precedenza.

Quale alternativa alla criminalità?

Molte madri che finiscono in carcere non possiedono i documenti né una casa. Per questo, una volta finito di scontare la pena, anche quando scelgono di allontanarsi dal contesto criminoso da cui provengono non hanno la possibilità di essere assunte, di avere un medico, di fare domanda per una casa popolare o di iscrivere il figlio all’asilo. È la difficoltà che sta vivendo anche Miriana (il nome è di fantasia), che è entrata alla casa protetta Ciao di Milano alcuni mesi fa, dopo aver trascorso un periodo nel carcere di Bollate e poi all’Icam di Milano. Miriana ha 27 anni e cinque figli, la più piccola ha due anni ed è stata detenuta insieme a lei. Prima viveva in Francia con il marito, che però due anni fa si è suicidato. “Non sapevo come mantenere la mia famiglia, così ho portato i miei figli più grandi in Romania dai nonni paterni, mentre la più piccola l’ho tenuta con me”, racconta. Miriana viene da un contesto difficile: i suoi genitori sono morti quando aveva sei anni e lei è cresciuta in orfanotrofio. A 13 anni si è sposata. Dopo la morte del marito, ha trovato un altro compagno: “Dopo un po’ si è messo a bere ed è diventato violento”, dice a voce bassa. “Io non voglio più contare sugli uomini, ma senza di lui sono totalmente sola. Ho bisogno di una persona che mi aiuti”.

Le donne che arrivano alla casa Ciao spesso vivono in una situazione di grave emarginazione e povertà culturale e relazionale. “In molti casi hanno subito abusi e maltrattamenti, o hanno tagliato i ponti con la propria famiglia”, conclude il responsabile Andrea Tollis. “Alcune sono analfabete e hanno sofferenze psicologiche. Basterebbe anche solo uno dei problemi che hanno loro per rendere la nostra vita invivibile. Quando finiscono il loro periodo di reclusione, che prospettive hanno? Come fanno a riscattarsi e uscire da quel mondo in cui hanno vissuto per anni? Per accompagnare queste madri verso una vita diversa servono percorsi efficaci di reinserimento nella società, con un progetto strutturato che coinvolga le realtà sul territorio”.

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Aggiornamenti

Aggiornamento 23 marzo 2023, ore 16,30: Abbiamo aggiornato l'articolo con il ritiro della proposta di legge Serracchiani e con la lettera appello diffusa dalle associazioni Cittadinanzattiva e A Roma Insieme.

Immagine in anteprima via redattoresociale.it

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