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COVID-19: i bambini si ammalano raramente, ma sono contagiosi?

15 Giugno 2020 11 min lettura

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COVID-19: i bambini si ammalano raramente, ma sono contagiosi?

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Una delle questioni più dibattute rispetto alla pandemia di SARS-CoV-2 riguarda gli effetti del nuovo coronavirus sui bambini e gli adolescenti. Gli studi finora pubblicati e i dati raccolti dai centri nazionali che stanno monitorando la diffusione dell’epidemia, l’andamento dei contagi e il numero dei decessi per classi d’età mostrano che i bambini costituiscono una percentuale molto bassa dei casi segnalati e dei decessi legati a COVID-19 e tendono a sviluppare una forma di malattia dai sintomi più lievi rispetto agli adulti. Tuttavia, ci sono stati centinaia di casi in tutto il mondo in cui i bambini sembrano aver avuto una reazione ritardata al nuovo coronavirus e hanno manifestato i sintomi di una patologia molto grave, diagnosticata come sindrome infiammatoria multisistemica, che può arrivare a interessare le arterie del cuore. Inoltre, c’è ancora discussione sulla loro effettiva esposizione al virus e contagiosità.

«L'idea che i bambini non si ammalino di COVID-19 o abbiano una malattia molto lieve è una semplificazione eccessiva», spiega al New York Times il dottor Adam Ratner, direttore del reparto di malattie infettive pediatriche alla New York University School of Medicine e all'ospedale Hassenfeld Children presso N.Y.U. Langone Health. «È vero - e confortante - che sono stati rilevati meno casi nei bambini e che il tasso di letalità è molto più basso rispetto agli adulti, in particolare i più anziani, ma abbiamo avuto casi di bambini malati in modo grave». La maggioranza ha sintomi lievi, ma «alcuni hanno richiesto terapie intensive e supporto di ossigeno, quindi esiste una vasta gamma, anche se nella maggior parte dei casi va tutto bene», aggiunge Ratner.

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Come si legge sul sito del Ministero della Salute: 

“I bambini costituiscono una percentuale esigua dei casi segnalati di COVID-19, sembrano avere la stessa probabilità degli adulti di essere infettati, ma un rischio molto più basso di sviluppare sintomi o malattie gravi. Tuttavia, come per altre malattie respiratorie, alcune popolazioni di bambini possono essere a maggior rischio di infezione grave, come ad esempio i bambini in condizioni di salute già compromesse da altre patologie. Non è ancora chiaro il ruolo dei bambini nella trasmissione della malattia. Anche i bambini devono, quindi, adottare le misure raccomandate per prevenire l'infezione, in particolare la frequente pulizia delle mani con acqua e sapone o disinfettante per le mani a base di alcol ed evitare il contatto con persone malate”.

In effetti, secondo i dati raccolti dai Centri per il controllo delle malattie e delle infezioni nazionali, negli USA solo il 2% dei casi confermati di COVID-19 riguardava persone d’età inferiore ai 18 anni, in Cina il 2,2% ragazzi al di sotto dei 19 anni, in Spagna lo 0,8% aveva meno di 18 anni. In Italia, secondo un’infografica dell’Istituto Superiore di Sanità dello scorso 10 giugno, il 2,2% dei casi confermati riguarda la fascia d’età tra gli 0 e i 18 anni. Inoltre, per quanto riguarda i decessi, da quando è iniziata l’epidemia, in Italia sono morti quattro bambini al di sotto dei nove anni e nessuno nell’età compresa tra i 10 e i 19 anni, su un totale di quasi 33mila morti.

Queste rilevazioni trovano riscontro anche in gran parte della letteratura scientifica fin qui prodotta al riguardo. 

A metà maggio, Jonas F. Ludvigsson, professore del Dipartimento di Epidemiologia Medica e Biostatistica presso il Karolinska Institutet di Stoccolma, in Svezia, ha pubblicato su Acta Paediatrica una revisione sistematica di oltre 700 articoli sulla trasmissione di COVID-19 tra e dai bambini. Dall’analisi di tutti questi studi è emerso che i bambini rappresentano una piccola parte delle persone che si ammalano di COVID-19, raramente sono il caso indice (ndr, quello cioè individuato per primo dalle autorità sanitarie in un determinato focolaio) e causano focolai pur venendo a contatto con altre persone, anche adulti, soprattutto in famiglia. Ulteriori studi condotti nei mesi scorsi in Cina, Islanda, Australia, Paesi Bassi e Italia sono giunti alla conclusione che i bambini si ammalano di meno e sono meno contagiosi degli adulti. 

Questo, però, non consente di dire che i bambini e gli adolescenti non hanno alcun ruolo nella trasmissione del nuovo coronavirus. Come sottolinea lo stesso Ludvigsson nella sua revisione sistematica, i dati sulle cariche virali negli articoli da lui analizzati erano scarsi e, nonostante i loro livelli sembrano essere più bassi rispetto a quelli degli adulti, “è molto probabile che i bambini possano trasmettere il virus SARS‐CoV‐2, che causa COVID‐19, e che persino i bambini asintomatici possano avere delle cariche virali”.

Anche il tanto citato studio su Vo Euganeo, in Italia, condotto dall’Università di Padova, che ha rilevato come nessuno dei bambini sottoposti a doppio tampone sia risultato positivo al nuovo coronavirus, nonostante almeno 13 di loro vivessero insieme a familiari infetti, è cauto al riguardo. Gli autori della ricerca (che ha fornito importanti spunti per capire meglio le dinamiche di trasmissione del virus, quanto le infezioni sintomatiche e asintomatiche possano contribuire al contagio e se la rilevazione precoce dei casi e del distanziamento sociale possa essere efficace nel contenimento dell'epidemia) hanno spiegato che la loro indagine epidemiologica, attraverso i tamponi nasofaringei, aveva testato solo la presenza di SARS-CoV-2 e quindi rilevato solo l’infezione attiva, non l’esposizione al virus. Pertanto, non era possibile escludere che i bambini avessero incontrato il virus e solo un sondaggio sierologico trasversale avrebbe chiarito l'esposizione effettiva dell'intera popolazione, compresa quella dei bambini, a SARS-CoV-2. 

Altri due studi usciti negli scorsi mesi invitano alla cautela. Un report sulle misure di distanziamento fisico e di lockdown a Wuhan e Shangai, in Cina, a cura di centri di ricerca cinesi, statunitensi e italiani (la Fondazione ISI di Torino e della Fondazione Bruno Kessler di Trento), pubblicato a fine aprile su Science, ha rilevato che, per quanto abbiano livelli di infezione più bassi degli adulti, i bambini e gli adolescenti hanno contatti tre volte superiori e quindi molte più opportunità di contagiarsi. Mentre secondo uno studio in Germania, non ancora sottoposto a peer-review, che vede tra gli autori anche il virologo Christian Drosten, consulente del governo tedesco sul nuovo coronavirus, il livello delle cariche virali nei bambini e negli adolescenti non differisce significativamente da quello degli adulti. Il contagio dei giovanissimi – si legge nello studio – è sottostimato negli studi clinici perché i più piccoli sviluppano sintomi più lievi rispetto agli adulti, ma questo non significa che non incontrino il virus o non abbiano cariche virali e non siano, quindi, contagiosi. Il fatto che i bambini non abbiano contagiato i propri familiari e i loro contatti è conseguenza della chiusura di asili e scuole – spiegano gli autori – e non la prova che non siano infettivi e che, dunque, è inutile chiudere le scuole.

Alle stesse conclusioni sta giungendo una ricerca simile condotta negli Stati Uniti dal professor Larry Kociolek, docente di pediatria alla Northwestern University e specialista di malattie infettive al Lurie Children’s Hospital di Chicago. Kociolek e i suoi colleghi hanno rilevato che i bambini al di sotto dei 5 anni, risultati positivi a SARS-CoV-2, avevano cariche virali anche più alte rispetto agli adulti, nonostante avessero manifestato sintomi più lievi. Dunque, spiega Kociolek al Washington Post, se proprio c’è una differenza tra bambini e adulti non è nella carica virale, quanto nei sintomi che manifestano e questo sembra dipendere maggiormente dalla reazione diversa dell’organismo all’agente patogeno.

Perché i bambini hanno sintomi più lievi degli adulti?

In questi mesi gli studiosi hanno avanzato diverse tesi per cercare di spiegare come mai i bambini e gli adolescenti sviluppano sintomi più lievi di COVID-19 rispetto agli adulti. Di solito, nel caso di virus respiratori come l’influenza, i bambini sono i primi ad ammalarsi. COVID-19, invece, colpendo principalmente i più anziani e lasciando i giovani per lo più non colpiti in maniera seria, sembra essere un’anomalia. 

In realtà, una prima ipotesi sostiene che i bambini sviluppino forme più lievi di COVID-19 proprio perché già frequentemente infettati dai quattro coronavirus che causano i raffreddori comuni (che sebbene non strettamente correlati a COVID-19 come SARS o MERS, condividono comunque alcune somiglianze). Per questo sarebbero maggiormente protetti rispetto a SARS-CoV-2. 

Una seconda ipotesi ritiene che i bambini siano meno attaccati da COVID-19 perché i loro sistemi immunitari sono meno maturi e potrebbero non reagire in modo eccessivo come accade invece negli adulti. Inoltre, potrebbero essere meno suscettibili a un attacco ai vasi sanguigni o ad altri effetti cardiovascolari perché non hanno ancora accumulato le co-morbilità provocate da anni di cattive abitudini e dall’invecchiamento che danneggiano i vasi sanguigni e gli organi.

Una terza ipotesi associa la diversa gravità della malattia al modo in cui i virus si aggancia alle cellule del nostro corpo e si replica al suo interno. Il nuovo coronavirus si aggancia al recettore ACE2 tramite la sua proteina “spike”. Questi recettori sembrano essere espressi in modo diverso in differenti parti del corpo e in persone diverse. Secondo alcuni scienziati, la concentrazione di questi recettori potrebbe essere diversa nelle cavità nasali e nel polmoni dei bambini, dove il virus sembra entrare in prima battuta, rendendoli così meno propensi ad avere forme serie di COVID-19. A fine aprile, uno studio finanziato dal National Institutes of Health ha raccontato il caso di un bambino asmatico di 11 anni, i cui tamponi nasali hanno mostrato una presenza ridotta di recettori ACE2. «Questa tesi potrebbe essere esplicativa» delle patologie differenti tra bambini e adulti, ha commentato al Washington Post Steven Kernie, a capo del reparto di terapia intensiva dell’ospedale pediatrico Morgan Stanley di New York. Lo studio del National Institutes of Health mostra anche che i recettori ACE2 sono molto più concentrati nei reni degli adulti che in quelli dei bambini. E anche questo potrebbe spiegare la diversa gravità di COVID-19 nelle persone più anziane. 

Più di recente, l’11 giugno, David Cyranoski su Nature ha presentato una quarta tesi secondo la quale i bambini si ammalerebbero meno gravemente dei più anziani per le migliori condizioni dei loro vasi sanguigni. Nei casi più gravi, spiega Cyranoski, COVID-19 danneggia l’endotelio (il tessuto che riveste la superficie interna dei vasi sanguigni, linfatici e del cuore) provocando così la formazione di coaguli di sangue all’origine poi di ictus, infarti o embolie polmonari, come rilevato da uno studio condotto su tre pazienti con COVID-19 presso l’ospedale universitario di Zurigo, in Svizzera, pubblicato di recente su Lancet. Nei bambini l’endotelio è in condizioni migliori che negli anziani e questo, secondo i ricercatori, potrebbe spiegare la bassa letalità tra i più giovani. I dati a disposizione sono, però, ancora pochi e nuove sperimentazioni sono in programma, ad esempio, presso il Melbourne Children’s Campus, in Australia, dove l’ematologo pediatrico Paul Monagle cercherà di verificare come le cellule infette reagiscono al sangue prelevato da bambini, adulti in salute e con malattie vascolari. Un altro esperimento analizzerà il sangue di bambini e di adulti malati di COVID-19 per osservare lo stato di degenerazione delle cellule endoteliali provocato dal nuovo coronavirus.

I casi di sindrome infiammatoria multisistemica

Tuttavia, tra fine aprile e i primi giorni di maggio i pediatri di diversi paesi di tutto il mondo hanno lanciato un’allerta dopo aver registrato casi relativamente elevati di bambini colpiti da una rara sindrome infiammatoria che sembra essere associata al nuovo coronavirus.

Inizialmente si era parlato della cosiddetta "sindrome di Kawasaki", una sindrome infiammatoria infantile, che prende il nome dal suo scopritore nel 1967, interessa le arterie di piccolo e medio calibro e si presenta in neonati e bambini prevalentemente sotto gli otto anni. I sintomi più comuni sono febbre, congiuntivite, arrossamento delle labbra e della mucosa orale, anomalie delle estremità come mani e piedi, eruzioni cutanee, fino ai casi più gravi in cui si infiammano le arterie del cuore e possono verificarsi angine in età pediatrica, come spiegava al Corriere della Sera il dottor Matteo Ciuffreda, cardiologo pediatrico all’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, che il 21 marzo aveva diagnosticato questa sindrome a un bambino arrivato in pronto soccorso. In un mese i casi erano diventati venti. «Negli ultimi due mesi - aggiungeva Lucio Verdoni, reumatologo pediatra del Papa Giovanni - ci siamo accorti che giungevano al pronto soccorso pediatrico diversi bambini che presentavano questa sindrome. In un mese il numero dei casi ha eguagliato quelli visti nei tre anni precedenti». «Abbiamo avviato una fase di monitoraggio - spiegava Alberto Villani, presidente della Società italiana di pediatria – e abbiamo cominciato a raccogliere, da qualche settimana, una serie di dati, che indicano la presenza della malattia di Kawasaki in alcune aree del paese, in particolare in Lombardia, Piemonte e Liguria». In Italia questa infiammazione delle arterie è considerata una malattia rara mentre è più frequente in Estremo Oriente.

Col passare dei giorni, episodi simili sono stati registrati in Gran Bretagna, Australia, Spagna e negli Stati Uniti, ma non nei paesi asiatici, secondo quanto rilevato dalla John Hopkins. Il dipartimento sanitario dello Stato di New York ha messo sotto osservazione oltre 200 casi di malattia e 3 decessi di bambini prevalentemente in età scolare per sintomi simili a quelli della sindrome di Kawasaki, probabilmente associata alla pandemia di COVID-19. 

Spiegano i pediatri che nelle diverse aree del pianeta hanno avuto a che fare con questi casi, ci sono alcuni aspetti sorprendenti che fanno pensare di trovarsi di fronte a una sindrome infiammatoria simile alla “sindrome di Kawasaki”, ma che per certi versi si discosta da essa. 

Il primo dato sorprendente è l’età dei pazienti, per lo più tra i 5 e i 10 anni. La “sindrome di Kawasaki” colpisce invece bambini al di sotto dei 5 anni. Inoltre, quasi tutti i casi di sindrome infiammatoria sono stati registrati in Europa e negli Stati Uniti ma non in Asia, dove invece la “sindrome di Kawasaki” è molto più comune. Alcuni medici affermano di vedere la nuova sindrome nei bambini di tutte le provenienze, mentre altri hanno notato un numero elevato di bambini di origine africana o caraibica. Infine, i pazienti hanno manifestato sintomi come il vomito, la diarrea, bassa pressione sanguigna, dolori gastrointestinali, meno comunemente osservati nella “sindrome di Kawasaki”. Alcuni medici hanno raccontato di aver ricevuto bambini che "urlavano per il mal di stomaco", ha detto al Washington Post Jane Newburger, tra le principali esperte al mondo della “sindrome di Kawasaki”. 

I bambini che hanno presentato questa sindrome non tossivano, non avevano gravi problemi respiratori, ma sono risultati positivi al nuovo coronavirus o hanno mostrato di aver sviluppato gli anticorpi tramite il test sierologico. E, pertanto, l’ipotesi al vaglio degli esperti è che possa trattarsi di una sorta di sindrome post-virale – definita “sindrome infiammatoria pediatrica multisistemica” – che si verifica anche fino a sei settimane dopo il contagio da nuovo coronavirus. In altre parole, i bambini e gli adolescenti che risultano infetti potrebbero non avere alcun sintomo e non sapere di essere stati contagiati fino a quando, diverse settimane dopo, non si verifica questa reazione immunitaria, lieve, come nei casi delle eruzioni cutanee, o violenta, come quando colpisce gli organi interni. A metà maggio, in uno dei suoi briefing, anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha parlato per la prima volta di una “sindrome infiammatoria multisistemica che colpisce bambini e adolescenti temporaneamente associata a COVID-19”.

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Un po’ come accade per gli adulti, anche con i bambini potrebbe trattarsi di una risposta iper-esagerata del sistema immunitario per combattere la malattia che porta a una risposta persistente che provoca febbre e infiammazione, spiegano Jeffrey Burns, del Boston Children, e Craig Sable, cardiologo pediatrico del National Hospital, come evidenziato anche da uno studio pubblicato lo scorso 8 giugno. 

Tuttavia, ha comunicato ancora Newburger in un comunicato stampa dell'American Heart Association, “vogliamo rassicurare i genitori. Mentre la malattia di Kawasaki può danneggiare il cuore o i vasi sanguigni, i problemi cardiaci di solito scompaiono in cinque o sei settimane e la maggior parte dei bambini guarisce completamente". La cosa preoccupante, spiega ancora Newburger, «è che alcuni di questi bambini hanno patologie molto più gravi di una tipica “sindrome di Kawasaki”. La buona notizia è che molti pazienti vengono trattati con successo e guariscono completamente. Anche se è ancora presto, penso che possiamo essere ottimisti».

Immagine in anteprima via pixabay.com

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