Che cosa ci ha fatto Baby Reindeer?
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Avvertenza: l’articolo contiene alcuni, pochi, spoiler.
Credo siano rimasti in pochi a non aver ancora sentito parlare Baby Reindeer, la serie Netflix da record visualizzazioni. A dir la verità, a me è capitato di guardarla per caso, il giorno stesso in cui è uscita. Pomeriggio insolitamente vuoto ma carico di pioggia, divano, abbonamento alla “grande N rossa” appena rinnovato. L'avevo fatto, principalmente, in previsione della terza stagione del mio guilty pleasure Bridgerton. Intanto avevo puntato sull'annunciatissimo Ripley che m'aveva vista dubbiosa sin dalla prima puntata. Mi pareva così palesemente inquietante da neutralizzare quegli artifici essenziali a muovere ogni buona narrazione: la suspense, la sorpresa, la morale in dubbio fino all'ultimo. Stavo considerando l'ennesimo rewatch della rilettura cinematografica del romanzo di Patricia Highsmith realizzata da Minghella quando... quasi senza pensarci, ho schiacciato il tasto play su Baby Reindeer.
L'unica cosa che mi era nota era la trama scarna del primo episodio: “Il comico in crisi e barista Donny incontra una donna solitaria che sostiene di fare l'avvocata. Quando le offre una tazza di tè, per lei inizia l'ossessione”. Non ne avevo la minima idea, eppure avevo appena trovato esattamente quel che stavo cercando, forse anche ciò che non sapevo di cercare o che mai avrei pensato di voler trovare. Tu-dum.
Di cosa parliamo in questo articolo:
La sagra del trigger
Altroché artifici, suspense, rivolgimento delle parti e morale ambigua. In Baby Reindeer – vuol dire “piccola renna” ed è il soprannome con cui impareremo a conoscere il protagonista, le cui ragioni scopriremo più avanti – si dipana ben altro della vicenda raccontata. L'autocritica e la crescita personale si rivelano pilastri di una trama che va avanti o torna indietro in foreshadowing e flashback a colmare buchi e connettere il presente della narrazione con il passato del protagonista, ma intorno vi si avviluppano, come piante velenose, un insieme di meccanismi psicologici assai complessi, tra maldestre strategie di coping ed empatia – mostrata, raccontata, indotta – che diventa tossica.
Non solo io, ma milioni di persone vi hanno trovato risonanze personali, il tema dell'auto-percezione e della romanticizzazione impropria delle situazioni. C'è la violenza fisica e psicologica, c'è la difficoltà nel riconoscersi come vittima se il mondo s'aspetta, da te uomo, un ruolo diverso. Nei sette episodi che, per la prima volta dopo tanto tempo, sono proprio quelli giusti e necessari, l'intrattenimento si fa edutainment sociale senza doversi nemmeno presentare come tale, e l'impatto e l'incubo della tecnologia, le prospettive e i rischi voyeuristici delle narrazioni moderne spostano lo sguardo del pubblico dallo schermo allo specchio. Come mi ha detto un amico, è la sagra del trigger. Un momento guardiamo la serie chiedendoci chi, dove e quando abbia commesso uno sbaglio; quello dopo, ci sentiamo pizzicare, siamo costretti a guardare in noi stessi. Non riuscendo a decidere chi sia il vero cattivo di questa storia, ci apriamo a un dubbio terribile: forse, prima o dopo, cattivi lo siamo tutti, nella storia di un altro.
Da Attrazione fatale a fissazione contingente: rileggere lo stalking
In questo caso, la storia è quella dello scozzese Richard Gadd. Quando mi sono avvicinata a Baby Reindeer, ignoravo il fatto che, oltre a essere l'attore protagonista, Gadd fosse anche l'autore della serie e stesse portando in scena un pezzo piuttosto consistente della sua stessa vita. In qualche modo, m'ero persa la dicitura “this is a true story”. Piuttosto, la sinossi della serie m'aveva fatto pensare immediatamente a un film del 1987: Attrazione fatale. Pensavo di trovarmi di fronte a una rilettura attualizzata di questo cult del genere thriller che, pur restando storia del cinema recente, oggi rischia di risultare un po' datato. In primo luogo, Attrazione fatale è denso di tutte quelle stereotipizzazioni che un tempo erano forse accettabili, ma ora ci fanno storcere il naso: c'è Dan, uomo come tanti (interpretato da Michael Douglas) che coglie al volo l'occasione di tradire la moglie, ma resta un “buon padre”; c'è l'affascinante donna in carriera (Glenn Close, candidata agli Oscar per l'interpretazione) che non accetta di esser “buttata via” dopo un week-end e diventa una molestatrice psicopatica. Il suo nome, incistato nell'immaginario collettivo, è Alex Forrest.
Al settimo posto nella classifica dell'American Film Institute dei 50 cattivissimi della storia del cinema, la stalker dalla chioma bionda e riccia ha terrorizzato non solo e non tanto un'intera generazione di mariti, ma più di una generazione di donne (si veda la citazione ne Il diario di Bridget Jones) che, agghiacciate dalla fine brusca di una relazione, si sono scoperte timorose di chiedere una spiegazione in più o di arrabbiarsi, pena passare per la pazza che ascolta la Madama Butterfly al buio o si scopre in grado di bollire un coniglietto da vivo. Nel tempo, la figura tragica di Alex, che nel film veniva etichettata come una povera donna malata, sola e infelice – “Tu mi fai pietà”, le dice Dan prima di minacciarla di morte affinché lasci in pace lui e la sua famiglia – si è conquistata lo spessore psicologico che le era stato negato. Se nel 1987 era stato plausibile presentarla – e liquidarla – come cattiva senza troppe spiegazioni, strizzando l'occhio a quella narrazione tossica che vuole la rabbia femminile come irrazionale, immotivata e distruttrice, nel 2017 Glenn Close ha raccontato di aver parlato con uno psichiatra pur di comprendere le motivazioni del suo personaggio, tracciarne una possibile backstory e i fattori scatenanti del suo comportamento.
Intervistato da GQ, lo stesso Gadd ha fatto cenno ad Attrazione fatale e possibili rimandi, evidenziando però che spesso le produzioni a tema stalking sono legate alla tipologia della femme fatale: tutto ruota intorno all'incontro con una donna che sembra quasi perfetta e invece trascina l'uomo in un incubo. Bastano però 50 secondi di Baby Reindeer per rendersi conto che qui la storia è un altra. La stalker Martha e la vittima di stalking Donny non condividono un incontro sessuale e non è nemmeno una reciproca simpatia a portarli fatalmente vicini. Forse non è neppure una questione di genere. A dar vita alla “fissazione” sono delle contingenze che portano le reciproche solitudini e bugie a intrecciarsi quasi naturalmente. Le storie che si portano dentro e dietro – tutto ciò che non hanno mai raccontato o che si sono raccontati talmente tanto volte da convincersi che si tratti di verità – si connettono. E poi c'è la pena che si ispirano l'un l'altro, un'empatia nel senso greco del termine: la capacità di riconoscere e sentire immediatamente dentro di sé il dolore dell'altro; la percezione ancora più sottile di sentirsi riconosciuti e sentiti dall'altro, cosa non necessariamente piacevole, ma che può risuonare se si vive un sentimento di inadeguatezza e si avverte un bisogno di validazione.
All'inizio del primo episodio, subito dopo la domanda del poliziotto sul perché non abbia denunciato prima, Donny ha un flashback al primo incontro con Martha, racconta di averla guardata e di essersi sentito dispiaciuto per lei pur senza conoscerla; alla fine dell'ultimo episodio, è Martha a rivelare un sentimento simile, spiegando nell'ennesimo messaggio vocale cosa le avevano ricordato i grandi occhi di Donny non appena li aveva incrociati (e lui reagisce piangendo). Questi due momenti, però, non sono gli unici: se li ho scelti come paradigma di un sentimento che punteggia l'intera storia è per la loro circolarità. Merita menzione, ad esempio, il fatto che Martha intercetti una sofferenza di Donny forse ancora prima che lui riesca a confessarla a sé stesso e farci i conti. Allo stesso tempo, anche in uno dei momenti in cui Donny si sente messo all'angolo, minacciato e soffocato dalle attenzioni non richieste da parte di Martha, non può esimersi dall'avvertire una responsabilità sociale verso di lei.
Il presunto comico e la presunta avvocata sono l'uno il rovescio della medaglia delle fragilità e del disagio psicologico dell'altro ma i possibili disturbi emotivi e della sfera sessuale sono presentati con un'accuratezza e una sensibilità tale da sfumarne i contorni. A questo modo, la loro vulnerabilità emerge come la caratteristica che li rende vicini non tanto in senso fisico ma umano, e li fa concettualmente simili e complementari. I ruoli, anche quando precisi e assegnati sulla carta – lui il buono, lei la cattiva – si scambiano di continuo nella scena. Ogni mutamento di prospettiva è però come un cerchio sull'acqua: si riverbera prima sugli eventi estendendone gli effetti e poi sulla narrazione ampliandone il significato.
La regia di Weronika Tofilska e Josephine Bornebusch, la fotografia di Krzysztof Trojnar e Annika Summerson, il montaggio di Benjamin Gerstein, Peter Oliver e Mike Holliday, le musiche – quelle appositamente composte da Evgueni e Sacha Galperine; quelle selezionate in una colonna sonora che è un vero e proprio viaggio emotivo –, il talento degli attori – non solo Richard Gadd che porta in scena l'alter ego di sé stesso, ma la meravigliosa Jessica Gunning che interpreta Martha – lavorano tutti e bene nel rendere sempre più sottile la linea di demarcazione tra vittima e carnefice, che diventa prima indistinguibile e infine ambivalente. Non ci si chiede più, semplicemente, dove finiscono le azioni dell'uno e iniziano quelle dell'altro, ma chi è l'uno e chi l'altro. È Martha o è Donny ad avere il coltello dalla parte del manico o ciascuno regge (da sempre) la propria arma puntata verso se stesso, ed è quella che nell'abbraccio tra loro finisce per risultare letale?
La vita non necessita di un arco narrativo. Una serie tv sì
La serie non fa che disorientare e scompaginare continuamente le nostre percezioni di colpa, responsabilità, vergogna e comprensione umana. Per quanto la tematica principale sia lo stalking, non siamo però davanti a un'esposizione lineare (qualcuno direbbe banale) sul genere You o The watcher. Il primo processo psicologico che si sviluppa nello spettatore è mettere a fuoco il crimine e il colpevole, cercando costantemente di capire come e quando pagherà. La linea temporale in cui ci vengono presentati gli eventi non lascia grandi dubbi in merito: il personaggio malvagio e disturbato è Martha, che passa dalla violenza psicologica a quella fisica arrivando ad aggredire la partner di Donny, molestare i suoi genitori e la sua ex ragazza, e che infine sarà denunciata. Eppure, più si va avanti (o si torna indietro) nella storia, più non si può fare a meno di chiedersi se sia davvero tutto qui. Si tratta di un punto di forza, ma anche di una possibile “debolezza”. Se proprio vogliamo fare un appunto a una serie meravigliosa, infatti, è che anche se narra una storia vera, deve rispondere a stilemi retorici. Ciò che ci succede, anche quando ha un inizio, uno svolgimento e una fine, non necessariamente è un grande racconto unitario: come ha scritto il filosofo Simon Critchley la vita non ha bisogno di un arco narrativo. Ma una serie tv sì. I fatti, dunque, potrebbero esser stati non “romanzati”, ma inarcati pur essendo una non-fiction.
Baby Reindeer (di cui esisteva già uno spettacolo teatrale, premiato con il Laurence Olivier Award nel 2020 e un libro) è una meta-narrazione e in quanto tale può spingere lo spettatore a cercare una verità più definita oltre lo schermo. C'è chi si è volto in sé stesso ritrovando nei personaggi e nelle loro esperienze una eco delle proprie, chi ha raccontato di aver vissuto esperienze simili, chi ha affidato la lettura della serie a una psicoterapeuta che ne spiegasse le dinamiche, ma anche chi si è scatenato in una sorta di morboso fact checking alla ricerca delle persone dietro i personaggi. Questo potrebbe cambiare per sempre il modo in cui approcciamo alle storie true crime e ha portato lo stesso Gadd a chiedere di smettere di speculare e indagare sulle reali identità dei personaggi. In pochi gli hanno dato ascolto. Altri hanno cominciato chiedersi dell'etica dell'opera, questionando di privacy, consenso, ruolo del pubblico come voyeur e rintracciando, infine, una sorta di vendetta, qualcosa di preoccupante e un meccanismo misto di narcisismo, in un nuovo ribaltamento tra vittima e carnefice. Gadd ha aperto non uno spiraglio ma il sipario sulla sua vita e l'ha portata in scena, lasciando però al pubblico la possibilità (e la curiosità) di connettere i punti con la realtà. Davvero né lui né chi ne ha fatto uno show Netflix avevano mai neppure pensato a questa eventualità? Come è possibile?
Dalla parte di Miss Dreamy
In scena abbiamo visto come l'uso della tecnologia consenta a Martha di ingabbiare e targhettizzare Donny, ma la stessa cosa hanno fatto milioni di spettatori nella vita reale, confrontando i contenuti sui social media e individuando rapidamente in Fiona Harvey colei che avrebbe ispirato il personaggio. La donna è stata ovviamente e prontamente rintracciata dai media: ha dichiarato di sentirsi la vera vittima della situazione, ha parlato della possibilità di intraprendere un'azione legale contro Gadd e la stessa Netflix, ma c'è anche chi, dopo averla intervistata, ha temuto di esserne diventato il nuovo bersaglio. Infine, Harvey ha accettato di prendere parte a un talk show – il Piers Morgan Uncensored, trasmesso su YouTube – di cui non si è detta contenta prima ancora che andasse in onda. Durante l'intervista (che attualmente conta quasi 8 milioni di visualizzazioni), la donna ha affermato di esser stata minacciata di morte e di aver accettato di partecipare alla trasmissione per essere ascoltata. Tuttavia, viene difficile credere che questa esposizione le abbia giovato: come ha scritto il Guardian, persiste piuttosto una sensazione di sfruttamento.
Incalzata da Piers Morgan che abilmente continuava a evidenziare i tratti in comune con il personaggio e le rivolgeva domande atte a scovare e portare alla luce incongruenze nel suo racconto, Harvey ha negato di conoscere Gadd per poi ammettere di averlo incontrato poche volte, respinto quasi ogni addebito accusando l'autore scozzese e Netflix di mentire, ma al contempo ha spiegato di non aver visto la serie per evitare di star male. Interrogata a più riprese sulle 41mila email, le 350 ore di messaggi vocali, i 744 tweet, i 48 messaggi su Facebook e le 106 lettere che si presume abbia inviato a Gadd, ne ha confermato solo una manciata (un paio di email, circa 18 tweet e una lettera). L'unica vera ammissione è su un giocattolo che possedeva: la piccola renna che dà il titolo alla serie. Dunque, delle due l'una: o la presunta Martha dice la verità e quindi Baby reindeer ne ha esagerato ruolo e azioni a scopo di intrattenimento, oppure la donna è colpevole di quanto accusata, il che porrebbe comunque una questione morale sull'utilizzo a fini di audience di una persona che avrebbe più bisogno di un supporto terapeutico che di visibilità mediatica. In entrambi i casi, l'intera vicenda è disturbante quanto quella portata in scena.
Gadd o Netflix saranno chiamati a chiarire nel dettaglio quale parte della storia è vera e quale “romanzata”? In un rivolgimento che finirebbe per adombrare il talento dell'autore scozzese, potrebbe trovarsi coinvolto in un'azione legale? Non era meglio quando di Martha sapevamo solo che, malgrado fosse una crudele, razzista molestatrice, in casa aveva una tazza con la scritta “Miss Dreamy” – Signorina Sognante – a dirci di lei quanto la sua percezione della realtà fosse infantilmente complessa e sfalsata, in una distorsione romanticizzata delle relazioni? È possibile chiedere a noi stessi se la sua rappresentazione socialmente imbarazzante non ammicchi, infine, a uno stereotipo diverso sì dalla femme fatale, ma ben più ghettizzante, la donna di mezza età a dir poco sovrappeso? E se non è così, se non vi è alcun preconcetto, dobbiamo credere casuale la scelta di questo “somatotipo” che trova, in Fiona Harvey, diverse corrispondenze e affinità?
Misery non deve morire, ma nemmeno la perspicacia
Di recente, anche Stephen King ha espresso il suo entusiasmo per Baby reindeer, scrivendone un saggio e cogliendone non solo le potenzialità ma le similitudini tra il personaggio di Martha e quello di Annie Wilkes, la cattiva di Misery (diciassettesimo posto nella classifica di cui ho parlato poco fa), interpretata nella versione cinematografica da una Kathy Bates da Oscar. Ma il re dell'horror e del thriller ci vede lungo e quindi sul finale scrive, perspicacemente: “Arriviamo a capire perché Donny ha impiegato così tanto tempo a denunciare i suoi abusi (…). Perché, in cuor suo, crede di meritarselo”.
Eccoci dunque al vero cuore pulsante della narrazione. Fin qui, per evitare spoiler, non ho detto che prima di trovarsi molestato da Martha, Donny subisce un'altra violenza da parte di un uomo: il viscidissimo presunto mentore Darrien che instaura con lui giovane e alla ricerca di un'occasione nell'ambito teatrale, una dinamica tipica dell'abuso psicologico e sessuale. Lo adula, lo adesca offrendogli amicizia e possibilità di carriera, lo spinge a consumare droghe per accrescere e affinare la creatività, lo sottopone a pratiche sessuali mentre è stordito e infine lo stupra. Pur scioccato dall'accadimento che ha gravi ripercussioni sulla sua psiche e sulla sua vita, Donny non denuncia e a distanza di tempo torna dal suo violentatore e ne accetta un'offerta di lavoro. Questa storia e la reazione del personaggio mi hanno ricordato il racconto che la top model Bianca Balti ha fatto della violenza subita quando aveva 18 anni durante il programma Belve di Francesca Fagnani.
Per tornare agli spettatori di Baby reindeer, nel tentativo di rintracciare il “vero Darrien” abbiamo visto all'incirca ciò che è accaduto con Martha e anche con Teri (la scrittrice e psicologa Anna De Simone ha raccontato di aver ricevuto più di 3mila messaggi di persone convinte che il personaggio fosse ispirato a lei). Lo scrittore Richard Osman ha dichiarato che “tutti”, nell'ambito televisivo, sarebbero a conoscenza della sua reale identità. L’attore e regista Sean Foley, probabilmente tirato in ballo a causa di una somiglianza fisica con l’attore che interpreta Darrien, Tom Goodman-Hill, ha dichiarato su X di aver informato la polizia circa le minacce ricevute e i post diffamatori e offensivi contro di lui. Gadd ha preso le parti delle persone (Foley incluso) che sono state ingiustamente coinvolte. Tuttavia è difficile credere (e forse anche accettare) che l'attenzione sul nome di questo potente predatore sessuale, forse l'unico e autentico cattivo, vada a scemare. E questo non solo perché la storia vera è ormai sfuggita ai gangli narrativi, ma perché una volta finita la serie, da spettatori dei complessi dinamismi delle relazioni umane, siamo diventati interpreti dell'ultimo atto. Cosa accadrà adesso, cosa faremo accadere, quale colpo di scena? Baby reindeer, che cosa ci hai fatto?
Immagine in anteprima: frame video Netflix via YouTube