Il referendum contro l’autonomia differenziata raccoglie mezzo milione di firme, ma senza una buona politica rischia di non essere risolutivo
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Secondo il portale del Ministero della Giustizia oltre 480mila italiane e italiani hanno firmato a favore del referendum per abrogare la recentissima legge Calderoli, che alcuni confondono con la cosiddetta riforma dell’autonomia differenziata, ma che in realtà - come è stato illustrato in una precedente riflessione qui su Valigia Blu - si limita a definire «i princìpi generali per l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e per la modifica e la revoca delle stesse, nonché le relative modalità procedurali di approvazione delle intese fra lo Stato e una Regione, nel rispetto delle prerogative e dei Regolamenti parlamentari».
Per la precisione i firmatari sono 488.397, pari al 97,68% dei firmatari necessari. Il quorum digitale (di mezzo milione) è dietro l’angolo, ma se si considerano le firme raccolte in tutto il paese dai banchetti e dai gazebo di partiti, sindacati e associazioni, esso è stato già ampiamente superato. Un risultato tre volte degno di nota. In primo luogo perché un simile livello di partecipazione è arduo da ottenere al culmine dell’estate (la raccolta delle firme è infatti partita nel penultimo fine-settimana di luglio, con la crisi climatica che arroventa le strade e le piazze). In secondo luogo perché sono soprattutto gli italiani nel Mezzogiorno a essersi mobilitati, stando a quanto riferito dal comitato promotore. In terzo luogo perché, una volta tanto, i principali partiti dell’opposizione marciano uniti: la battaglia contro la legge Calderoli unisce PD, M5S, AVS ecc.; del resto decine di migliaia di firme sono arrivate dalla Toscana (26mila) e dal Lazio (53mila) nonché dal Piemonte (22mila), dall’Emilia-Romagna roccaforte del PD (28mila) e dalla Lombardia (50mila), culla della Lega Nord ma anche di quei sindaci (ed ex-sindaci) come Sala, Gori e altri che criticano la via leghista all’autonomia, più che l’autonomia in sé.
Nel complesso questo netto successo ha galvanizzato i promotori del referendum, che puntano adesso ad arrivare a un milione di firme. Un traguardo a portata di mano, specialmente se si considera che la raccolta delle firme (da inviare alla Corte di Cassazione) continuerà sino al 15 settembre, quando è probabile che gran parte degli italiani sarà tornata dalle vacanze. In rapporto alla popolazione, le regioni che hanno fornito a oggi più firme sono la Campania e la Calabria. Se era prevedibile la massiccia adesione dei campani, anche alla luce delle durissime critiche alla legge Calderoli e all’autonomia differenziata da parte del vulcanico presidente della giunta regionale della Campania Vincenzo De Luca, sorprende – ma solo se si guarda al Mezzogiorno con sguardo pigro, aggrappandosi a ritriti stereotipi – la forte partecipazione dei calabresi. Nella regione italiana con il più basso reddito pro capite, e da sempre alle prese con una forte emorragia di giovani e forza-lavoro, gli effetti del divario secolare tra le regioni del nord e il Mezzogiorno sono ormai sotto gli occhi di tutti. Ad esempio nella sanità. Secondo il report SVIMEZ Un paese due cure. I divari Nord-Sud nel diritto alla Salute, in Calabria la spesa sanitaria corrente per abitante è la più bassa del paese (1.748 euro, contro una media di 2.140); sempre secondo il report la regione però è prima per numero di pazienti oncologici che hanno scelto di curarsi altrove, ad esempio in Lombardia o Lazio.
Amministratori locali come Nicola Fiorita, sindaco di sinistra di Catanzaro, sono molto critici verso l’autonomia differenziata. E il presidente della giunta regionale della Calabria, Roberto Occhiuto, è tra i politici di centrodestra che hanno mostrato più scetticismo verso la Calderoli; ad esempio chiedendosi «[c]osa succederebbe per gli agricoltori di Campania e Calabria che esportano le loro merci?» qualora alcune regioni diventassero autonome in un settore delicato come il commercio estero.
De Luca è un esponente apicale (seppure sui generis) del Partito Democratico, Occhiuto è un politico di peso di Forza Italia. E in effetti come è stato rilevato dai promotori del referendum, a firmare non sono solo elettrici ed elettori del PD, dell’AVS o del M5S, ma anche di partiti dell’attuale maggioranza di governo. Soprattutto nel Mezzogiorno, che tanti voti ha dato a Forza Italia e Fratelli d’Italia. Secondo l’Istituto demoscopico Noto Sondaggi (pubblicato il 21 luglio da Repubblica) il 55% degli italiani avrebbe intenzione di votare al referendum sulla legge Calderoli: il 45% al nord, il 59% al centro, il 68% al sud e nelle isole. Questo significa che il quorum potrebbe essere superato largamente, dato che, affinché un referendum sia valido, è necessario che voti la metà degli aventi diritto più uno. Sempre secondo lo stesso sondaggio, il 63% degli elettori del Mezzogiorno voterebbe per abrogare la legge; a livello nazionale il 52% degli elettori di Forza Italia e il 21% di Fratelli d’Italia sono abrogazionisti.
Non a caso lo stesso Antonio Tajani, che di Forza Italia è il segretario, è un sostenitore assai tiepido dell’autonomia differenziata; e in qualità di ministro degli Esteri ha espresso profondo scetticismo all’idea che una materia strategica come il commercio con l’estero possa diventare di competenza regionale (specie in questa fase storica, come già segnalato tempo fa proprio qui su Valigia Blu). «Serve una politica nazionale, l’export costituisce il 40% del PIL – ha dichiarato a fine luglio Tajani –. Non possiamo scherzare su questo argomento. Bisogna essere chiari, anche sulle competenze, che non vogliono siano sottratte al ministero degli Esteri».
Pure Nello Musumeci, ministro per la Protezione civile e le politiche del mare, uomo di destra vicino a Giorgia Meloni nonché ex presidente della giunta regionale della Sicilia, a luglio ha espresso perplessità di fronte alla richiesta avanzata dal Veneto di riaprire i negoziati con Roma per il trasferimento delle competenze su nove materie che non prevedono i LEP (i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, da garantire a tutti i cittadini italiani a prescindere dal luogo di residenza). Se il presidente della giunta regionale del Veneto Luca Zaia ha fretta (e non è difficile capire perché: l’autonomia differenziata è uno storico cavallo di battaglia elettorale suo e della Liga Veneta), Matteo Salvini non può ignorare che la legge Calderoli è apprezzata dalla larga maggioranza degli elettori leghisti. Per questa ragione è probabile che in autunno il ministro dei Trasporti chieda a Giorgia Meloni un’accelerazione. Che la presidente del Consiglio voglia poi accontentarlo è un’altra storia.
A complicare la partita per la maggioranza di governo c’è il fatto che in Veneto, nel 2025, si terranno le elezioni regionali, e Zaia non vi potrà prendere parte (per lui, sui media locali, si parla di un futuro come sindaco di Venezia). Se il candidato del centrodestra dovesse essere un esponente locale di Fratelli d’Italia, come il bellunese Luca De Carlo o la bassanese Elena Donazzan, difficilmente Meloni potrebbe ostentare indifferenza verso le richieste leghiste di accelerare con l’autonomia. Infatti in Veneto, che confina con due regioni a statuto speciale e ha particolarità linguistiche e geografiche degne di nota, il tema è realmente sentito (al referendum consultivo del 2017 partecipò il 57% degli elettori veneti, quasi tutti a favore dell’autonomia).
Tuttavia è bene precisare: il Veneto non è la Catalogna, chi percorre le sue contrade si imbatte spesso in tricolori, e le preoccupazioni di molti elettori veneti sembrano essere altre, come il rincaro dei prezzi, la microcriminalità o il rallentamento dell’economia tedesca (cruciale per le tante PMI orientate all’export). Vari imprenditori di rilievo hanno sottolineato a chi scrive che è un conto dare più competenze a Venezia sui beni culturali o sul credito fondiario, un altro sulle grandi reti di trasporto, sull’energia o sul commercio estero. Per le multinazionali tascabili del nordest l’agguerrita concorrenza globale non si batte con il ritorno alle piccole patrie, o con un’ulteriore frammentazione normativa. E come dolorosamente ricorda spesso chi scrive, la Lombardia ha un PIL inferiore a quello della “piccola” Taiwan, e il Veneto un peso demografico pari a quello di un paio di popolosi distretti di Pechino.
Intanto il Mezzogiorno, come si accennava sopra, è in fermento. In Basilicata, regione guidata dal centrodestra, non è passata la mozione dell’opposizione di centrosinistra per chiedere il referendum abrogativo della legge, ma neanche la mozione della maggioranza a sostegno della stessa. A detta di Marco Sarracino, deputato del PD e responsabile Coesione territoriale, Sud e aree interne della segreteria del partito, in Basilicata «l’autonomia differenziata ha già spaccato la destra». In Puglia, regione guidata dal centrosinistra, il Consiglio regionale non è riuscito ad approvare le integrazioni alla richiesta di referendum abrogativo sulla legge Calderoli, ma il presidente della giunta Michele Emiliano ha deciso di impugnare la norma di fronte alla Corte costituzionale. L’incarico è stato affidato da Emiliano al capo dell’avvocatura regionale Rossana Lanza (che coordina il gruppo regionale per lo studio dell’autonomia differenziata) e al professor Massimo Luciani, noto costituzionalista.
Per Bari «[l]a Costituzione (art.116 comma 3) prevede infatti la possibilità che siano attribuite “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” alle Regioni a statuto ordinario, e non certo la possibilità, invece prevista dalla legge Calderoli, del trasferimento di tutte le funzioni concernenti tutte le ventitré materie contemplate dall’art. 117 Cost., così perpetrando una palese violazione dei princìpi fondamentali di unità e indivisibilità della Repubblica. Secondo la Regione Puglia, tale violazione si riverbera inesorabilmente sull’ordinamento regionale e sui princìpi supremi di eguaglianza tra i cittadini nell’esercizio dei diritti e nell’assolvimento dei doveri fondamentali».
In effetti la riforma dell’articolo 116 (voluta da un governo di centrosinistra nella speranza di vincere le elezioni del 2001) è stata ispirata al modello regionalista spagnolo della tabla de quesos (vassoio di formaggi) previsto dall’articolo 148 della Costituzione spagnola. Un’altra fonte di ispirazione è stata la devolution di Tony Blair. Ma l’Italia non è figlia dell’unione di due regni centralizzati (e per secoli indipendenti) come Scozia e Inghilterra, né è un mosaico di nazionalità come la Spagna (si pensi ai catalani, ai baschi, ai galiziani). E se è palese che la devolution blairiana ha concorso a portare il Regno Unito sull’orlo della disintegrazione, il secessionismo catalano non è stato placato dalla larga autonomia ottenuta negli anni dalla Catalogna, come si è drammaticamente visto nel 2017.
Chiaramente figlio di un’altra epoca e di un’altra visione del mondo, intrisa di eurocentrismo e ingenuo ottimismo liberista, il riformato articolo 116 da tempo è oggetto di critiche, sia a destra che a sinistra. Nel 2014 l’attuale presidente del Consiglio propose un progetto di legge per abrogarlo. Alla fine del 2022 intellettuali, giornalisti e accademici progressisti come Isaia Sales, Sandro Veronesi, Massimo Villone, Gianfranco Viesti e Nadia Urbinati hanno chiesto una profonda modifica degli articoli 116 e 117, ad esempio inserendo nella Carta una clausola di supremazia statale e restituendo alcune competenze strategiche allo Stato. Anche la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi nel 2016 (poi bocciata al referendum di quello stesso anno) andava nella direzione di una revisione complessiva del titolo V della Costituzione.
In ogni caso raccogliere mezzo milione o più di firme è un risultato significativo ma non basta a garantire che il referendum si faccia. La Corte Costituzionale, com’è noto, dovrà infatti compiere una valutazione di ammissibilità costituzionale (e c’è chi teme che i giudici costituzionali possano dire no). E se anche il referendum dovesse portare all’abrogazione della Calderoli ciò non comporterebbe una sterilizzazione di quanto disposto dal terzo comma dell’articolo 116. Niente infatti impedirebbe al Veneto, alla Lombardia ecc. di chiedere a Roma ulteriori competenze, come accadde nel 2018, quando l’allora governo di centrosinistra negoziò tre pre-intese con Milano, Venezia e Bologna.
Senz’altro una vittoria degli abrogazionisti sarebbe un segnale potente sia alla coalizione di centrodestra sia alle opposizioni; forse il Partito Democratico abbandonerebbe per sempre la pregiudiziale federalista che da oltre due decenni condiziona l’agire dei parlamentari di centrosinistra (che a lungo hanno ripetuto il dogma della sinistra necessariamente federalista e che sembrano ignorare, per esempio, le storiche pulsioni anti-centraliste e localiste di una fetta significativa della destra europea). Forza Italia probabilmente metterebbe da parte le sue ritrosie a opporsi a una riforma che non solo preoccupa tanti elettori nel Mezzogiorno, ma anche le aziende, che ad esempio rischiano di ritrovarsi con un quadro regolatorio ancora più caotico, complesso e (nel caso di realtà che operano in più regioni) frantumato o persino contraddittorio. E cosa farebbe la Presidente del Consiglio, così attenta agli umori popolari? Fratelli d’Italia del resto prende molti voti nel centro-sud, ad esempio in Lazio, Abruzzo, in certe aree della Puglia e della Campania. E Salvini riuscirebbe a tenere unito il suo già diviso partito di fronte a un tale tsunami? Non è sicuro. La vittoria del no al referendum potrebbe forse portare alla fine della Lega come l’abbiamo conosciuta, e alla nascita di un nuovo “sindacato del Nord”.
Allo stesso tempo c’è il rischio che il paese si polarizzi ulteriormente, e che si ampli il già profondo solco tra le regioni del nord e quelle del Mezzogiorno. Che cosa accadrebbe per esempio se in Lombardia e Veneto gli anti-abrogazionisti avessero una larga maggioranza? Il fatto probabilmente sarebbe strumentalizzato - almeno nel medio periodo - dai più oltranzisti e cinici tra gli autonomisti delle due regioni. Potrebbe tornare in modo massiccio l’inaccettabile demagogia nordista del “Sud che non lavora”, “Sud zavorra” ecc., che l’ascesa del populismo nazionalista ha un po’ silenziato. C’è poi il serio rischio che si creino, nelle regioni del nord, antipatiche divisioni tra gli “indigeni” pro-autonomia e gli “allogeni” (per nascita od origine) contrari alla stessa (lo scrivente si è imbattuto in molti post di questo genere su Facebook, e un articolo su un media regionale di rilievo registrava il fenomeno).
È difficile condividere le parole di Zaia quando definisce il referendum «il vero spacca Italia», ma dopo decenni di inni ai benefici (veri o presunti) del federalismo e della sussidiarietà (da parte di partiti di tutto lo spettro politico), dopo una riforma del Titolo V varata sotto il governo Amato ed elogiata da molti esponenti di sinistra, e dopo che nel 2018 il governo Gentiloni ha firmato un accordo preliminare anche con l’Emilia-Romagna guidata dal PD, c’è una fetta di italiani nelle regioni del nord che, a torto o ragione, vuole davvero più autonomia (benché non necessariamente a livello regionale: la dimensione comunale e provinciale in certe aree è molto sentita). Questi nostri concittadini magari non hanno un PhD in scienza politica, ma hanno diritto a risposte, o almeno a spiegazioni serie, al pari dei concittadini nel Mezzogiorno. Non si può dire al manager di Thiene, all’imprenditore high-tech di Salerno, all’impiegato di Busto Arsizio che la classe politica italiana ha “scherzato” per trent’anni.
Sia i partiti che sostengono l’abrogazione della Calderoli, sia i fautori della legge, hanno dunque il compito, al di là degli esiti della consultazione referendaria, di fornire una nuova road map per il rilancio dell’Italia. Senza retoriche, senza toni da pasdaran della Padania, da Masanielli del XXI secolo, da flagellatori del “Nord egoista” o del “Sud immobilista”. I promotori del referendum hanno avuto il grandissimo merito di porre al centro del dibattito pubblico (almeno nel Mezzogiorno) una riforma cruciale ma che avanza in sordina. Tuttavia, come è già stato osservato sopra, anche se il referendum riuscisse a cancellare la Calderoli, il Veneto, la Lombardia ecc. potrebbero comunque chiedere ulteriori competenze. Ecco perché tanto le forze di centrosinistra che quelle di centrodestra hanno il dovere di trovare una soluzione politica a una disputa (spesso avvelenata da slogan, dogmi, ignoranza e cliché) che sta segnando (e tormentando) non solo i rapporti nord-sud, ma la nostra vicenda nazionale dagli anni ‘90, quando l’ascesa politica del nordismo arrembante proiettò sul Mezzogiorno e su Roma problematiche che riguardavano (e riguardano) l’intera Italia, compresa quella sopra il Po: l’inefficienza di pezzi della Pubblica Amministrazione, il clientelismo, la debole fedeltà fiscale, la scarsa competitività economica, l’influenza della criminalità organizzata, una certa mentalità parassitaria tra rentier e cercatori di sinecure.
Dopo tanti decenni i nodi stanno arrivando al pettine. Occorre un piano. Un piano che trovi una sintesi tra gli imperativi della solidarietà e dell’unità nazionale, e le istanze di alcuni territori e gruppi sociali, specie nel nordest; tra le istanze localistiche e di autogoverno, e le sfide epocali che solo un’Italia coesa e compatta sarà in grado di affrontare. Un piano che preveda i necessari correttivi all’architettura istituzionale della Repubblica, e che contribuisca a colmare il divario tra le regioni del nord e il Mezzogiorno, tra centri e periferie (rurali, montane e isolane), tra metropoli come Milano, Roma o Torino e la sterminata provincia italiana. In altre parole, una nuova riforma del titolo V appare inevitabile.
Immagine in anteprima via Il Quotidiano del Sud