L’autonomia differenziata fra sogni, rischi ed esiti imprevedibili
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Il 19 giugno la Camera dei Deputati, «col favore delle tenebre» per citare la suggestiva prosa di Giuseppe Conte, ha approvato il ddl Calderoli. Ciò non significa che la cosiddetta autonomia differenziata sia diventata una realtà. Infatti il disegno di legge (qui il testo), fortemente voluto dalla Lega, si limita a definire «i princìpi generali per l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e per la modifica e la revoca delle stesse, nonché le relative modalità procedurali di approvazione delle intese fra lo Stato e una Regione, nel rispetto delle prerogative e dei Regolamenti parlamentari».
In altre parole il ddl è il punto di partenza, non di arrivo. Ed è bene ricordare (come ha fatto di recente il presidente della giunta regionale della Lombardia, il leghista Attilio Fontana, in un’intervista al Corriere della Sera) che non ci sarebbe stato nessun ddl Calderoli, e nessuna prospettiva di autonomia differenziata, senza la riforma del Titolo V della Costituzione ai tempi del governo Amato.
Una riforma che, come scrive lo storico dell’economia Filippo Sbrana nel libro Nord contro Sud. La grande frattura dell’Italia repubblicana (Carocci), fu «largamente imperfetta, per le incongruenze nella ripartizione fra Stato e regioni, la mancata individuazione di una clausola di interesse nazionale, l’assenza di un Senato trasformato in Camera delle autonomie territoriali» (p. 214). Una «riforma costituzionale diretta a superare il centralismo» varata da un governo di centrosinistra, su insistenza di alcuni esponenti dei DS (e a sinistra combattuta solo da Rifondazione Comunista, che in essa vedeva un grimaldello per scardinare il welfare nazionale), forse suggestionati dalla devolution di Tony Blair (devolution che, per inciso, avrebbe dovuto porre fine all’indipendentismo scozzese, e che non impedì alla Scozia di arrivare a un passo dall’indipendenza nel 2014).
Di cosa parliamo in questo articolo:
Su cosa interviene la legge
Cosa prevede l’articolo 116, terzo comma, del Titolo V della Costituzione? Che «[u]lteriori forme e condizioni particolari di autonomia […] possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all'articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».
Le «[u]lteriori forme e condizioni particolari di autonomia» riguardano 23 materie (e c’è una regione, il Veneto, che «ha espresso la volontà di poter amministrare l’intero panel di competenze»): dalla tutela della salute alle norme generali dell’istruzione; dal commercio con l’estero ai porti e aeroporti civili, dalla produzione, trasporto e distribuzione dell’energia alle grandi reti di trasporto e di navigazione; dai rapporti internazionali e con la UE delle regioni alla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali; dalle professioni alla ricerca scientifica e tecnologica e al sostegno all'innovazione per i settori produttivi ecc.
Sono ambiti il più delle volte strategici: è evidente che se (alcune) regioni dovessero gestire la maggioranza delle 23 materie non solo scomparirebbe un welfare nazionale degno di questo nome, ma sarebbero impossibili serie politiche industriali da parte dello Stato, cruciali per sostenere e rilanciare il manifatturiero. Per tacere poi dell’ulteriore frammentazione del quadro normativo entro cui dovrebbero operare le aziende attive a livello nazionale, o almeno macro-regionale; ciò che il Piemonte potrebbe normare in un modo la Toscana potrebbe normarlo in un altro, e la Basilicata in un altro ancora.
Ci si lamenta spesso del nanismo delle nostre aziende. Di certo il moltiplicarsi dei regolamenti e delle burocrazie non contrasterebbe il fenomeno, anzi: si creerebbero ulteriori inefficienze e freni, a scapito della crescita delle imprese. In un mondo alle prese con la crisi climatica ha senso frammentare la Protezione Civile, fondamentale in un’Italia investita da emergenze di ogni tipo? E si vuole seriamente riconoscere poteri reali alle regioni in materie strategiche (e delicatissime) come il commercio con l’estero, storica prerogativa di ogni governo centrale degno di questo nome? Come è stato osservato da un esponente apicale di Forza Italia, il presidente della giunta regionale della Calabria Roberto Occhiuto, se alcune regioni diventassero autonome nel commercio estero, «[c]osa succederebbe per gli agricoltori di Campania e Calabria che esportano le loro merci?»
Un nuovo panorama geopolitico cupo: l’Italia nano tra i giganti
Come osservavamo sempre su Valigia Blu a inizio 2023, il dibattito sull’autonomia differenziata è anacronistico. «Il federalismo che si vuole dare all’Italia è un lascito degli anni ’90, una riforma fuori tempo massimo». È il risultato di un’inerzia culturale e di un ottundimento della ragione tipici di una classe politica provinciale, autoreferenziale, gerontocratica, eurocentrica, presentista. Persino nel nordest, dove la Lega per decenni è stato il partito egemone, sono tanti gli imprenditori e i manager con cui parlo tutti i giorni che non apprezzano l’idea che ogni regione possa dire la sua su temi chiave come l’energia o il commercio estero.
Il mondo di chi nel 1993 tuonava contro i “terroni” e “Roma ladrona” e chiedeva la secessione dell’improbabile Padania, o il mondo di chi nel 2000 (con incredibile ingenuità) emendava il Titolo V non esiste più. Gli Stati Uniti di Bill Clinton non hanno trasformato il mondo in un’oasi di libero commercio e democrazia, la Russia non è diventata una benevola federazione disarmata, la Cina si ritrova con il regime più autoritario dai tempi di Mao e il sogno di una grande Europa «da Lisbona a Vladivostok» in cui l’Italia doveva “sciogliersi” sembra svanito di fronte all’incubo del governo neoimperialista di Putin che stermina uomini, donne e bambini inermi ai confini dell’Unione Europea. Gli statisti, quando scrivono (o emendano) una carta costituzionale, dovrebbero attrezzare la loro nazione anche per il peggio, consapevoli che il mondo è grande e cambia in fretta.
Tra quindici o venti anni, quando l’autonomia differenziata potrebbe pienamente dispiegare i suoi effetti, le maggiori economie del pianeta saranno i tre colossi USA, Cina e India, seguiti da stati come il Brasile, l’Indonesia, la Russia (forse) e il Messico. Il Giappone e la Germania saranno medie potenze industriali, e l’Italia avrà un’economia più piccola di quella di Turchia, Arabia Saudita, Nigeria, Egitto, Pakistan, Iran, Sud Corea, Filippine, Vietnam… Davvero trasformare il paese in una sorta di federazione (de facto benché non de jure) ci aiuterebbe in un mondo ancora più competitivo di quello odierno? E non si corre il rischio di rendere l’Italia ancora più vulnerabile alle interferenze e pressioni di grandi e medie potenze extraeuropee?
L’esempio della Catalogna, dove sono emerse gravi azioni di ingerenza russa a favore degli indipendentisti catalani, è un campanello d’allarme che non può essere ignorato. E del resto quanta autonomia dà la Francia alla Corsica? E la Polonia alla Slesia? Si cita spesso l’esempio della Germania federale: ma la Germania è sempre stata federale, sin dal 1871, ha avuto 150 anni per far pratica (eccetto i dodici catastrofici anni della dittatura nazista).
Ancora, in settori ad altissima intensità di capitali come l’IA, l’auto elettrica, la robotica e i semiconduttori, dove si affrontano i giganti della Silicon Valley, i conglomerati dell’Asia democratica e le possenti iniziative della Cina, nessuna regione italiana può essere incisiva: a stento l’Italia, forse l’Europa. L’innovazione deep-tech non si fa all’ombra dei campanili. O per citare l’imprenditore Maurizio Stirpe in un’intervista a Repubblica, «ci sono tematiche in cui neppure la dimensione nazionale è più che sufficiente, figuriamoci quella regionale».
Del resto la più ricca e popolosa regione d’Italia, la Lombardia, ha un numero di abitanti inferiore alla più piccolina tra le province cinesi, l’insulare Hainan (meno di 10 milioni di lombardi contro 10 milioni di hainanesi). E il Veneto ha gli stessi abitanti di un paio di popolosi distretti di Pechino (o un po’ meno della Slovacchia). Nessuna regione italiana può battere quanto a PIL la “piccola” Taiwan (e neanche il Belgio, che nella UE ha un peso inferiore a quello dell’Italia). E se è comprensibile che una regione policentrica come il Veneto, terra di imprenditori e agricoltori infaticabili, confinante con gli autonomi Trentino e Friuli, chieda materie quali la previdenza complementare e integrativa oppure le casse rurali, è altrettanto chiaro che non si può trasformare l’autonomia in un articolo di fede, neanche nell’operosa ex sagrestia d’Italia. Anche perché le regioni non sono mai diventate «selezionatrici di una nuova classe dirigente» come invece un abile politico vicentino, il segretario della DC e presidente del consiglio Mariano Rumor, auspicava: le recenti vicende in Liguria ne sono un esempio eloquente, di certo non l’unico.
A riguardo è interessante il caso Indonesia, come ha di recente ricordato l’avvocato d’affari Francesco Bruno citando il paper Adjusting to Decentralization: Investment Dynamics and Beyond. Nel paese asiatico, che con il ritorno alla democrazia ha attuato una marcata decentralizzazione, i minori trasferimenti dal governo centrale hanno provocato un innalzamento dei tributi locali, e una marcata incertezza normativa; ciò ha depresso - in un primo periodo - gli investimenti da parte delle aziende, e ha generato un aumento delle donazioni politiche. Ovviamente l’Italia non è l’Indonesia, ma è plausibile che un aumento dei poteri dei governi regionali si possa tradurre, oltre che in un inedito “centralismo regionale”, anche in ulteriore oscurità giuridica, e in maggior cautela da parte degli imprenditori.
Cosa accadrà ora?
Un vigoroso critico dell’autonomia differenziata quale l’economista Gianfranco Viesti, autore del saggio Verso la secessione dei ricchi (Laterza), teme che l’Italia si trasformi in un «paese arlecchino». L’eminente costituzionalista Massimo Villone paventa il rischio di «un’Italia di repubblichette». I più autorevoli esponenti della Lega sostengono il contrario: ad esempio nel corso di una manifestazione della Lega a Montecchio Maggiore (Vicenza) Matteo Salvini ha dichiarato, di fronte a una selva di vessilli con il leone di San Marco (e a una solitaria bandiera degli indipendentisti catalani), che «l’autonomia aiuterà tutta l’Italia, da nord a sud».
Che abbia ragione Viesti o Salvini (mi piacerebbe fosse il primo nel torto, ma fatti e numeri parlano temere il peggio…) nulla di tutto ciò avverrà nel giro di pochi mesi. Il ddl Calderoli, ora legge dello Stato, dovrà essere promulgato entro 30 giorni dal presidente Mattarella, quindi entro quindici giorni dovrà essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Soltanto allora le regioni potranno avviare la trattativa con Roma, e unicamente per quelle materie che non prevedono i LEP, i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, da garantire a tutti i cittadini italiani a prescindere dal luogo di residenza. Un ospedale del crotonese, ad esempio, magari non potrà fornire lo stesso livello di cure e assistenza di un ospedale dell’Alto Adige, ma non dovrà mai scendere sotto lo standard nazionale. E ovviamente bisogna assicurare agli enti locali risorse adeguate per erogare i servizi definiti dai LEP.
Infatti, come precisato dalla legge Calderoli,
«[l]’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, relative a materie o ambiti di materie riferibili ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti equamente su tutto il territorio nazionale, è consentita subordinatamente alla determinazione, nella normativa vigente alla data di entrata in vigore della presente legge o sulla base della procedura di cui all’articolo 3, dei relativi livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali».
Si tratta dei cosiddetti LEP, che il governo «è delegato ad adottare, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge». Due anni, un’eternità per la politica. Come ha spiegato il deputato di Forza Italia (e uomo di Antonio Tajani nel nordest) Flavio Tosi, «[p]er poter trasferire una materia LEP ci vorrà qualche anno».
Per questo motivo la Lombardia e il Veneto, le due regioni a guida leghista dove nel 2017 si tennero due referendum consultivi ad hoc (a cui parteciparono rispettivamente appena il 38% degli elettori lombardi e ben il 57% di quelli veneti, con una schiacciante maggioranza a favore di una maggior autonomia), puntano a chiedere funzioni di materie o intere materie non soggette a LEP, come i rapporti internazionali e con l’Unione Europea delle Regioni, il commercio con l’estero, la previdenza complementare e integrativa, le professioni, la protezione civile, l’organizzazione della giustizia di pace. Non sono note le intenzioni delle due giunte regionali, che senz’altro saranno improntate al buonsenso e all’interesse di tutti, però giova ricordare (come ha fatto la Fondazione Mezzogiorno) che i rapporti internazionali e con l’Unione Europea delle Regioni comportano 16 funzioni, il commercio con l’estero 21 (incluso il controllo delle esportazioni e delle importazioni di materiali di armamento), la protezione civile addirittura 42.
Per la legge Calderoli,
«l’atto di iniziativa relativo alla richiesta di attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, è deliberato dalla Regione, sentiti gli enti locali, secondo le modalità e le forme stabilite nell’ambito della propria autonomia statutaria. L’atto è trasmesso al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro per gli affari regionali e le autonomie che, acquisita entro sessanta giorni la valutazione dei Ministri competenti per materia e del Ministro dell’economia e delle finanze, anche ai fini dell’individuazione delle necessarie risorse finanziarie da assegnare ai sensi dell’articolo 14 della legge 5 maggio 2009, n. 42, avvia il negoziato con la Regione richiedente ai fini dell’approvazione dell’intesa di cui al presente articolo».
È il punto di partenza di un iter molto lungo e articolato, che ha come fulcro il negoziato tra l’esecutivo (oggi guidato da Giorgia Meloni) e la regione, e che prevede un coinvolgimento (limitato) del Parlamento in due momenti: il primo è nella fase di intesa preliminare (il cui schema è subito «trasmesso alle Camere per l’esame da parte dei competenti organi parlamentari, che si esprimono con atti di indirizzo, secondo i rispettivi regolamenti […] udito il Presidente della Giunta regionale interessata»), il secondo è quando l’intesa è definitiva e si è trasformata in un disegno di legge che deve essere approvato (o rifiutato) in blocco a maggioranza assoluta dalle Camere. Il ruolo marginale del Parlamento è uno degli aspetti più controversi della riforma, non soltanto perché l’Italia è una repubblica parlamentare in base alla nostra Costituzione, ma perché – come è stato osservato – il negoziato tra l’esecutivo e la giunta regionale rischia di assomigliare, nelle sue modalità, al negoziato tra Roma e un paese straniero.
La legge Calderoli precisa poi che «[c]iascuna intesa individua, in un apposito allegato, le disposizioni di legge statale che cessano di avere efficacia, nel territorio regionale, con l’entrata in vigore delle leggi regionali attuative dell’intesa». E ancora: «[l]e disposizioni statali successive alla data di entrata in vigore delle leggi di approvazione di intese osservano le competenze legislative e l’assegnazione delle funzioni amministrative nonché le ulteriori disposizioni contenute nelle intese». In altre parole le intese, della durata massima di dieci anni, saranno “a prova di bomba”, come mi ha detto alcuni mesi fa un deputato.
In ogni caso, è improbabile che il presidente della giunta regionale del Veneto, Luca Zaia, strenuo sostenitore dell’autonomia differenziata al pari del compagno di partito Calderoli, possa portare a casa qualche risultato concreto entro Natale, come ipotizzano alcuni media nordestini. Il segretario del PD del Veneto, Andrea Martella, è arrivato a definire la legge Calderoli «una scatola vuota che non porterà nulla al Veneto» come riportato dal Corriere del Veneto. I sindacati veneti non sembrano entusiasti. Ad esempio, quelli dei pompieri hanno già fatto sapere di non gradire la regionalizzazione dei vigili del fuoco, ipotizzata dall’assessore alla protezione civile del Veneto: il corpo secondo loro ci perderebbe in interoperabilità, standardizzazione, efficienza. Il soccorso pubblico, precisano, è riservato dalla Costituzione allo Stato.
Paradossalmente la legge Calderoli, alla stregua di un’altra riforma caldeggiata dall’attuale maggioranza (il ddl Casellati sul premierato), concorrerà a rafforzare l’esecutivo, specie la Presidenza del Consiglio. Infatti, secondo la neo-approvata legge,
«[a]l fine di tutelare l’unità giuridica o economica, nonché di indirizzo rispetto a politiche pubbliche prioritarie, il Presidente del Consiglio dei ministri, anche su proposta del Ministro per gli affari regionali e le autonomie o dei Ministri competenti per materia, può limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie o ambiti di materie individuati dalla Regione nell’atto di iniziativa».
In altre parole l’inquilino (o l’inquilina) di Palazzo Chigi avrà un potere di veto sul negoziato tra Roma e la regione. Diventando il garante sostanziale dell’unità nazionale, e l’arbitro/a della principale partita politica nazionale.
Oltre alla tortuosità dell’iter, l’altro tallone d’Achille della legge Calderoli (che però ha almeno il pregio di fornire un framework) è finanziario. Com’è noto l’Italia vanta un enorme debito pubblico, e un’economia incapace di attirare FDI e tendenzialmente anemica, frenata da un quadro normativo di estrema farraginosità. Già in passato la Banca d’Italia, il servizio di bilancio del Senato e Bruxelles hanno segnalato le loro preoccupazioni relative alla gestione della finanza pubblica e alla competitività del sistema-paese, e nel recente Country Report 2024 la Commissione europea ha voluto rinnovare i suoi timori. E come ha sintetizzato in un post su X l’economista Francesco Prota, «[c]on l’autonomia differenziata sarà complesso (per usare un eufemismo) assicurare il controllo della spesa primaria netta finanziata da risorse nazionali».
Non sono chiari i costi dell’autonomia. Secondo il democratico Francesco Boccia, ministro per gli affari regionali e le autonomie nel Conte bis, tra gli ottanta e i cento miliardi di euro. Si teme, ad esempio, un aumento degli esborsi per le pubbliche amministrazioni, dato che, sempre per citare Prota, ci sarà un «minore sfruttamento delle economie di scala e di integrazione a livello nazionale». Di sicuro sinché non si definiscono i LEP non è possibile conoscerne i costi. La legge Calderoli comunque specifica che «[d]all’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa [con le regioni] non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica».
Infine, si teme che l’autonomia differenziata vada a incidere in modo molto profondo sulla vita dei cittadini in ambiti quotidiani come la salute e la scuola, aumentando i divari tra regioni del nord e del sud, e tra cittadini ad alto reddito e cittadini a medio o a basso reddito. Per la presidente della giunta regionale della Sardegna Alessandra Todde la riforma va contro l’articolo 3 della Costituzione. I sindacati e numerose associazioni produttive, la CEI, persino il Vaticano hanno espresso perplessità o financo preoccupazione. Ad esempio Pierino Di Silverio, dirigente medico e segretario dell’ANAAO ASSOMED, ha dichiarato che «la legge sull’autonomia differenziata, o meglio sul regionalismo potenziato […] segna l’inizio della fine per l’indivisibilità dei diritti civili e sociali, a cominciare da quello alla salute». In un’intervista a Repubblica Di Silverio ha prefigurato l’aumento dei viaggi della speranza dalle regioni del sud a quelle del nord, e magari un blocco degli stessi da parte dei territori con i servizi sanitari più efficienti. «Si azzera il principio solidaristico: chi curerà quei malati?»
I timori sono forti soprattutto al centro e al sud, dove non a caso l’autonomia differenziata è bocciata dalla maggioranza degli elettori (e in generale il 45% degli italiani è contrario e solo il 35% è favorevole). Probabilmente la paura per l’autonomia differenziata ha contribuito al successo del centrosinistra al Sud alle ultime elezioni europee. La stessa Forza Italia, che ha il suo granaio di voti nelle regioni meridionali, ha mostrato profonda insofferenza verso la maratona notturna che ha portato all’approvazione del ddl Calderoli. Il vice-segretario del partito, nonché presidente della regione Calabria, Roberto Occhiuto ha espresso fortissime riserve, ma alla fine Forza Italia ha preferito non bloccare il provvedimento per timore di una reazione esplosiva da parte di Salvini (o almeno così è stato riferito dai retroscena dei giornali).
Cosa faranno le opposizioni?
È anche per questo motivo che tutti i partiti di opposizione, in una rara manifestazione di unità, hanno promesso di lottare contro l’autonomia differenziata puntando a un referendum abrogativo: o a seguito della raccolta di 500mila firme tra i cittadini, o attraverso la richiesta di cinque consigli regionali (ipotesi sulla quale pende la spada di Damocle del trasferimento di Stefano Bonaccini, presidente dimissionario della giunta regionale dell’Emilia-Romagna, al Parlamento europeo).
Il referendum rischia di essere un’arma spuntata dal punto di vista giuridico, perché nulla impedirebbe a governo e regione di negoziare lo stesso, a prescindere dalla legge Calderoli: nel 2018, poco prima delle elezioni poi trionfalmente vinte da Lega e M5S, il governo di centrosinistra guidato da Paolo Gentiloni negoziò tre pre-accordi con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna senza bisogno di alcun framework. Il referendum potrebbe però catalizzare l’attenzione dei cittadini, non solo al sud ma al nord, e tener vivo l’interesse dei media. E se riuscisse a passare sarebbe un segnale politico fortissimo, tale da giustificare (con una nuova maggioranza in parlamento) la modifica del Titolo V, come non pochi attivisti, politici ed esperti chiedono da tempo.
Ancora, il presidente della Campania Vincenzo De Luca intende impugnare la legge di fronte alla Corte Costituzionale. Certo, la legge Calderoli è stata abilmente collegata alla legge di bilancio come annesso finanziario, e questo potrebbe schermarla dal referendum abrogativo, che non è ammesso per le leggi tributarie e di bilancio; ma come rileva Repubblica «è pronto il ricorso contro la possibilità che la Corte Costituzionale giudichi non ammissibile il referendum». C'è chi spera anche in un rinvio al Parlamento da parte di Mattarella, azione che in virtù dell’estrema popolarità del capo dello Stato e delle sue origini (la Sicilia è la regione autonoma per eccellenza) nessun partito politico avrebbe davvero la forza di censurare.
Il dilemma di Giorgia Meloni, l’Occidente declinante e i nuovi Hulk
La strada per le opposizioni è in salita, ma il tempo c’è. Invece la Meloni, non avendo spinto Tajani ad affossare il ddl Calderoli alla Camera, ha commesso probabilmente un grave passo falso: difatti ancor più del premierato (che piace a pezzi dell’opposizione, e del paese) è il contrasto all’autonomia la bandiera attorno a cui può raccogliersi un’opposizione eterogenea e discorde, un po’ come fu con l’antiberlusconismo tra il 1994 e il 2011; da Azione ad AVS, dal PD al M5S sino a Italia Viva, tutti hanno interesse a far deragliare la riforma. E senza il sud (e il centro) non solo Forza Italia ma anche Fratelli d’Italia rischiano un indebolimento serio alle urne.
Ed è paradossale che una Presidente del Consiglio nazionalista non colga i primi segnali di un riaccendersi delle tensioni tra nord e sud, sopite negli ultimi anni grazie anche all’evoluzione della Lega Nord in Lega nazionale salviniana. Oggi sono pochi (al nord) i cittadini innamorati dell’autonomia, e ancora meno quelli pronti a scendere in piazza per essa. Ma una maggiore attenzione mediatica e un acuirsi dello scontro tra fautori e detrattori dell’autonomia potrebbe tornare a dividere in modo profondo l’Italia, da sempre incline al gioco masochistico dei guelfi contro i ghibellini, proprio come accadde tra berlusconiani e antiberlusconiani. Questo provocherebbe un grave sciupio di risorse morali, intellettuali e politiche in un momento di crisi geopolitica globale, distogliendo il paese dalle vere sfide, come il rilancio dell’economia o la crisi demografica. Ricordiamo che nel primo decennio di questo millennio l’Italia è cresciuta pochissimo, e ha perso molti treni.
Ecco perché Giorgia Meloni dovrebbe mostrare un sano pragmatismo popolare. Ad esempio escludendo in modo chiaro dal negoziato con le regioni le materie non-LEP più delicate, come i rapporti internazionali, il commercio con l’estero, la Protezione Civile e le professioni, e attribuendo alle regioni solo quelle materie legate a doppio filo alle reali specificità territoriali (e in questo senso l’unica regione davvero un po’ speciale è il Veneto, con il suo arcipelago di microcosmi e la sua natura di confine).
Serve un compromesso lungimirante e ragionevole, che abbandoni le velleità anacronistiche veicolate dalla Lega e le ingenuità di certa sinistra irenica, e veda il mondo per quello che è: un posto pieno di opportunità, ma anche di sfide e insidie, dove un’Italia divisa nel giro di pochi anni potrebbe contare pochissimo; non poco, pochissimo. E allora altro che “colonia di Bruxelles”, come strepitano certi demagoghi: potremmo sì diventare colonie, ma di potentati extra-europei. E se è vero che l’Occidente non è più una sorta di Hulk contro i sette nani, come ha dichiarato pochi mesi fa il ministro della Difesa, Guido Crosetto, immaginiamoci cosa potrebbe fare il nano Italia (o lo gnomo Lazio, o la gnoma Lombardia) in un mondo di Hulk. Insomma, o torniamo a essere «fratelli d’Italia» in una logica di solidarietà, unità, pragmatismo e razionalità, o finiremo sì «calpesti e divisi». Tutti: veneti e lucani, toscani e lombardi, emiliani e calabresi, campani e piemontesi. Probabilmente i giovani che in questi giorni fanno la maturità conoscono la sorte dei capponi di Renzo…
Immagine in anteprima: frame video ANSA