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La politica che criminalizza la disobbedienza civile nonviolenta degli attivisti climatici

12 Aprile 2023 11 min lettura

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La politica che criminalizza la disobbedienza civile nonviolenta degli attivisti climatici

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Il Senato approva il disegno di legge contro gli attivisti climatici

Aggiornamento 14 luglio 2023: Il Senato ha approvato un disegno di legge per punire con pene più severe danneggiamento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali e paesaggistici. La proposta è del ministro Sangiuliano ma assorbe altri progetti di legge proposti da Lega e Fratelli d’Italia nei mesi scorsi. Il disegno di legge, che deve ancora passare al vaglio della Camera, prevede, in aggiunta alle sanzioni penali, un’autonoma sanzione amministrativa irrogata dal prefetto per una somma tra i 20mila e i 60mila euro. Sono poi modificati il reato di danneggiamento (art. 635 c.p.) e quello di deturpamento o imbrattamento di cose altrui (art. 639 c.p.). Per il primo, all’aggravante già prevista dal decreto Salvini-bis per il caso in cui il danneggiamento sia commesso durante una manifestazione in luogo pubblico o aperto al pubblico, si aggiunge una multa da 10mila euro. Per il secondo, si prevede la punibilità anche nel caso in cui il deturpamento o imbrattamento riguardi “teche, custodie e altre strutture adibite all’esposizione, protezione e conservazione di beni culturali”. Anche a questo reato è aggiunta l’aggravante contro le proteste, con le pene raddoppiate nel caso in cui il fatto sia commesso durante una manifestazione in luogo pubblico o aperto al pubblico.

Il 2023 è iniziato da poche ore quando, la mattina del 2 gennaio, prima ancora che riprendano i lavori del Senato, tre attivisti per il clima spruzzano della vernice lavabile sulla facciata di Palazzo Madama: arrestati in flagranza grazie un’aggravante prevista dal decreto Salvini-bis, sono ora a piede libero in attesa del processo per danneggiamento, nonostante le mura dell’edificio siano tornate pulite nel giro di poche ore. La settimana dopo, il 10 gennaio, Simone Ficicchia, portavoce nazionale di Ultima Generazione, si presenta davanti al tribunale di Milano per essere ascoltato in sua difesa: la questura aveva infatti richiesto per lui l’applicazione della sorveglianza speciale, una misura di polizia prevista dal codice antimafia. 

Il giudice ha deciso di respingere la richiesta, ma la repressione contro chi decide di intraprendere azioni di disobbedienza civile non si ferma. La Lega ha infatti presentato in Parlamento una proposta di legge, con Claudio Borghi come primo firmatario, per inasprire il reato di “distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici”. La proposta, assegnata alla Commissione Giustizia del Senato presieduta da Giulia Bongiorno, prevede esplicitamente l’arresto in flagranza e comprende tra i beni culturali tutelati anche “teche, custodie e altre strutture adibite all'esposizione, protezione e conservazione”, ossia gli unici oggetti danneggiati nelle azioni di Just stop oil, Extinction Rebellion e Ultima generazione.

A questo si aggiunge la proposta di Fratelli d’Italia, a firma del senatore Lisei. Secondo le anticipazioni uscite, con questo intervento si vorrebbe, da un lato, allargare l’applicazione del reato di danneggiamento anche alle ipotesi in cui i beni non vengano deturpati in maniera permanente (quindi, appunto, nei casi di imbrattamento con vernice lavabile), e, dall’altro, prevedere forme di Daspo urbano, con il divieto amministrativo di avvicinarsi agli edifici sottoposti a tutela culturale, con multe da 500 a 1.000 euro in caso di violazione della misura.

Questi tentativi di repressione rappresentano lo sbocco politico, normativo e giudiziario di una retorica che condanna gli ambientalisti impegnati in azioni simili, talora rappresentandoli come eco-vandali, altre volte dipingendoli come idealisti un po’ ipocriti. In questo modo, però, oltre a criminalizzare il dissenso, si delegittima un metodo di azione che merita invece di essere conosciuto più in profondità: la disobbedienza civile nonviolenta.

Dalla letteratura alla storia: la disobbedienza civile come protesta e proposta

La storia delle conquiste civili e sociali è piena di atti di disobbedienza civile: dagli obiettori di coscienza al servizio militare al rifiuto di giurare fedeltà a un regime, dalla marcia del sale durante la campagna per l’indipendenza indiana ai boicottaggi contro la segregazione razziale negli Stati Uniti, passando per lo sciopero, un’attività che, oggi, in Italia, è un diritto ma che, a seconda dei luoghi e delle epoche, può essere perfino un reato.

Anche per la sua diffusione spontanea e per la sua potenziale efficacia, la disobbedienza civile è protagonista di pagine memorabili di letteratura e filosofia. Da Antigone, che dalla tragedia greca di Sofocle è divenuta simbolo di ribellione contro i totalitarismi, per il suo intransigente rifiuto della legge del re, che le impediva di seppellire il fratello, come prescrivevano le leggi degli antenati e degli dei, ad Albert Camus, che definisce "l’uomo in rivolta" come qualcuno che dice no ma che, "se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi". La disobbedienza civile si distingue infatti dalla semplice violazione di una norma perché è contemporaneamente protesta e proposta, negazione e affermazione: nel rifiuto di una legge pone la rivendicazione di una legge diversa, inconciliabile con quella imposta e violata.

Al di là della storia dell’attivismo e della riflessione filosofica, che si può far partire dal Discorso sulla servitù volontaria e dal saggio sulla Disobbedienza civile di Thoreau, occorre ricordare che la legge non sostituisce la coscienza, né è necessariamente strumento di giustizia: l’obbedienza a una legge, insomma, dipende anche dalla legge. “Nessuno ha il diritto di obbedire”, come recita un celebre motto di Hannah Arendt, e non mancano argomentazioni giuridiche sull’esistenza di un diritto di ribellione e resistenza all’oppressione, diritto contenuto in diverse Carte costituzionali, talvolta esplicitamente, come in quelle francese e tedesca, o in altri casi implicitamente, come in quella italiana. 

Gli interrogativi sull’applicazione attuale degli atti di disobbedienza civile sono diversi, e meritano una risposta tutt’altro che scontata: davvero lanciare le azioni eclatanti degli ambientalisti sono atti di disobbedienza civile nonviolenta, come affermano gli attivisti? Non è violento imbrattare edifici, bloccare il traffico, imporre cioè la propria protesta? E, soprattutto, queste azioni sono efficaci per salvarci dalla catastrofe climatica? 

La pazienza nei risultati, l’urgenza nell’azione, la centralità del conflitto

Bisogna subito chiarire che la nonviolenza non è necessariamente gentile: la disobbedienza civile non è un pranzo di gala, la ribellione non segue le regole del bon ton. Pretendere che la protesta sia beneducata può perfino tradursi in una forma di violenza, perché la richiesta di modalità di mobilitazione che non disturbino nessuno sottintende spesso un’incapacità di concepire il dissenso e di affrontare il conflitto. La nonviolenza riconosce invece il valore del conflitto, come elemento ineliminabile della realtà sociale, da vivere in maniera costruttiva: chi rifiuta la violenza non rifiuta il conflitto ma lo valorizza, e, nonostante le santificazioni che spesso arrivano post-mortem, i nonviolenti più celebri erano spesso considerati, tra i loro contemporanei, pericolosi, antipatici, polemici, rompiscatole.

Anche gli odierni attivisti ambientali subiscono giudizi simili e attuano evidentemente pratiche nonviolente: le azioni sono pubblicamente rivendicate e sono prive di violenza contro le persone; la violenza contro le cose è ridotta al minimo, con danni solo temporanei e reversibili, anche grazie alla ricerca di materiali lavabili e alla scelta di opere d’arte protette da teche e custodie (che sono però equiparate alle opera d’arte nel nuovo reato proposto dalla Lega); nella rivendicazione pubblica è poi compresa anche l’accettazione delle conseguenze delle proprie azioni, con l’attesa pacifica dell’arrivo delle forze dell’ordine, verso le quali vengono al più adottate forme di resistenza passiva, sedendosi a terra e facendosi portare via di peso.

Pratiche simili, nella storia, sono state spesso applicate da minoranze di persone disponibili al sacrificio individuale per dimostrare l’ingiustizia legalizzata. È accaduto così negli Stati Uniti, dagli Anni Cinquanta, quando i ricorsi ai tribunali contro le leggi Jim Crow si intrecciavano alle azioni di disobbedienza civile contro la segregazione razziale: il gesto dell’attivista Rosa Parks, nel dicembre 1955, con il successivo boicottaggio degli autobus di Montgomery per più di un anno dopo il suo arresto, le freedom rides, gite di gruppi misti di bianchi e neri, tra i confini interni degli Stati, per violare le leggi segregazioniste, e ancora casi di sit-in, nel senso letterale della locuzione, ossia neri che si sedevano in locali a loro vietati, spesso pagando per le loro azioni con l’arresto. 

Anche Martin Luther King fu portato in prigione, in più di un caso, e in una di queste occasioni, dal carcere di Birmingham, nel 1963, scrisse una lettera ancora attuale: ai reverendi (bianchi) che, pur solidarizzando con lui, criticavano la disobbedienza civile e le manifestazioni, sostenendo che la segregazione andasse pazientemente smontata nei tribunali, Martin Luther King rispose spiegando che la giustizia raggiunta troppo tardi è giustizia negata. Il tema dell’urgenza dell’azione e della legittima impazienza degli oppressi è un argomento che si ritrova spesso nei discorsi di King e che, con tutte le differenze del caso, riguarda anche la questione ambientale, alla luce dell’irreversibilità dei danni e del breve periodo a disposizione per invertire la rotta politica.

Dal centro alla moltitudine: il problema degli atti di disobbedienza non condivisi

Questa urgenza si scontra, almeno apparentemente, con la pazienza che contraddistingue l’azione nonviolenta, un tipo di lotta politica che si concentra sui mezzi, oltre che sui fini: chi usa questo metodo, infatti, sa di non avere potere esclusivo sull’effettiva realizzazione di un obbiettivo, e che può al più scegliere i mezzi con cui tendere a esso. In questo senso, gli attivisti protestano, anche in maniera eclatante, sperando nella reazione di altri (e della politica), ma partendo da sé: per usare le parole di Aldo Capitini, filosofo della nonviolenza, si può dire che l’azione nonviolenta "è compiuta da un centro, che può essere di una persona o di un gruppo di persone; ma essa è presentata e offerta affettuosamente al servizio di tutti: essa è un contributo e un’aggiunta alla vita di tutti. Questo animo è fondamentale nell’addestramento alla nonviolenza: sentirsi centro rende modesti e pazienti, toglie la febbre di voler vedere subito i risultati, toglie la sfiducia che l’azione non significhi nulla. Anche se non si vede tutto, l’azione nonviolenta è come un sasso che cade nell’acqua e causa onde che vanno lontano."

Perché un atto di disobbedienza civile sia “affettuosamente al servizio di tutti” non basta però che il fine sia il benessere collettivo (come nel caso della giustizia sociale climatica e della salvezza della specie umana, ad esempio), ma serve coinvolgere sempre più la comunità, affinché le azioni nonviolente non siano semplici performance di gruppo. Nel metodo nonviolento si riconosce infatti la necessità di valutare i mezzi, di sceglierli in relazione alla realtà in cui si intende agire, graduandoli rispetto ai diritti che già si hanno e cercando simpatia tra le persone che potrebbero unirsi alla causa.

La nonviolenza, infatti, anche se parte da un centro, cioè dalla scelta personale dell'individuo che agisce, è sempre in potenza collettiva, ha vocazione di moltitudine: la lotta contro la segregazione razziale può certo iniziare da Mamie Till, o da Rosa Parks, o da Martin Luther King, ma risuona e fa la storia quando le strade di Selma si riempiono per le grandi marce.

L’atto eclatante e individuale può avere risultati, specie quando serve per ottenere visibilità, ma lo stesso atto può smettere di essere fertile se non allarga la base di pressione, se finisce per essere oggetto di attenzione, senza che cambino le dinamiche di potere.

Il potere di tutti, tra efficacia e repressione

La disobbedienza civile è infatti insieme espressione di impotenza e rivendicazione di potere, dal momento che viene attuata, per citare Hannah Arendt, “quando un numero significativo di cittadini si convince che i canali consueti del cambiamento non funzionano più, che non viene dato ascolto né seguito alle loro rimostranze”.

È così per la questione ambientale: la comunità scientifica denuncia la situazione da decenni, le piazze si sono riempite di giovani per i Fridays for Future, ma il negazionismo climatico continua a influenzare la politica, che si esibisce in tentativi di repressione verso chi compie azioni di disobbedienza civile.

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Eppure l’impressione, anche alla luce degli insulti che spesso gli attivisti ricevono come commento alle proprie azioni, è che imbrattamenti, blocchi stradali, forme più o meno simboliche di disobbedienza non siano efficaci. L’efficacia, però, è un concetto mutevole, strettamente legato alla realtà in cui un’azione politica viene messa in atto, e spesso non si esaurisce nella dicotomia tra vittoria e fallimento, né può valutarsi nell’immediato. Per comprendere questa flessibilità dell’efficacia nonviolenta basta guardare a episodi di apparenti sconfitte nella storia della nonviolenza.

Un esempio è quello di piazza Tienanmen, nel 1989: del ragazzo con le buste della spesa davanti ai carri armati, da solo, nulla sappiamo di certo, ma possiamo ipotizzare che sia stato arrestato, o ucciso, o fatto sparire. Se non su di lui, la repressione si sarà abbattuta senz’altro sulla popolazione cinese, sia in quelle ore che nei mesi e negli anni successivi. O, ancor prima, con la Primavera di Praga, nel 1968, i cecoslovacchi volevano un socialismo dal volto umano, e cercarono di attuarlo democraticamente, con il proprio governo, trovandosi in reazione i carri armati nella capitale; resistettero in maniera nonviolenta, dialogando con i carristi, spiegando le loro ragioni, eppure persero, il Patto di Varsavia prevalse e l'invasione impedì l'apertura democratica.

Furono davvero sconfitte? È più che plausibile ritenere che quelle azioni nonviolente, di disobbedienza, abbiano influenzato l’opinione della comunità internazionale, che quel ragazzo solo davanti ai carri armati abbia ispirato generazioni intere, che l’intransigenza dei cecoslovacchi abbia influito sull'elaborazione di un'alternativa, e che quella resistenza, fallimentare nel breve termine, sia stata una delle crepe del muro di Berlino.

In un contesto almeno formalmente democratico, come quello in cui viviamo, e nel quale dobbiamo confrontarci con la crisi climatica, la resistenza richiede certo minor sacrificio rispetto a quella necessaria per opporsi a una dittatura. Ma perché si possa influire, serve paradossalmente maggior costanza e creatività, anche per evitare forme di repressione che possono apparire giuridicamente legittime, pur restando politicamente violente. 

Su questa riflessione, e sulla necessità di allargare la base, coinvolgendo altre persone interessate e attive, sembra porsi ad esempio il comunicato della divisione britannica di Extinction Rebellion, che il 31 dicembre 2022 ha annunciato l’intenzione di abbandonare, o comunque ridurre, le azioni di interruzione di pubblici servizi, per coltivare maggiormente le relazioni, con la speranza di “diventare impossibili da ignorare”. E, nel frattempo, si prepara la grande mobilitazione del 22 aprile, in contemporanea in diverse città del mondo. Ultima generazione, che, in aggiunta agli atti di disobbedienza civile, propone assemblee periodiche aperte e un evento settimanale di presentazione online del gruppo, invita tutti a Roma, a ballare, “come se non ci fosse un domani”.

Se però un domani ci fosse, la storia ricorderebbe gli attivisti, piuttosto di chi li critica o persino li etichetta come “vandali” e “terroristi”. A posteriori, conosciamo i discorsi di Martin Luther King, mentre il paternalismo di chi ne contestava il metodo si è perso nell’oblio; studiamo le azioni di Gandhi, ma ignoriamo gli editorialisti britannici che a suo tempo si opponevano all’indipendenza indiana; e quando leggiamo la lettera di don Milani ai giudici, i nomi dei cappellani militari che definirono vili gli obiettori di coscienza al servizio di leva, in carcere per la loro disobbedienza civile, sono un trascurabile dettaglio della storia. 

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Borbottare contro i metodi degli attivisti è una libertà di chiunque, partecipare all’elaborazione di alternative e impegnarsi nell’azione politica è però un modo più fertile per vivere la propria eventuale critica alle scelte altrui di lotta politica nonviolenta. E se chi compie atti di disobbedienza civile se ne assume la responsabilità, sopportando anche le conseguenze ingiuste che la legge attribuisce a un’azione giusta, è anche vero che uno Stato democratico non si definisce solo per la presenza di elezioni, ma soprattutto per la maturità con cui affronta il conflitto ed elabora il dissenso. 

Dalla proposta di Borghi a quella di Lisei, passando per il reato anti-rave e per le aggravanti del decreto Salvini-bis in caso di manifestazioni, assistiamo invece al paradosso di un regime democratico che riforma, inasprendolo, un codice penale scritto in epoca fascista. L’attuale classe politica, insomma, sta esibendo la propria scelta, tanto di inazione, ai limiti del negazionismo, rispetto alle questioni ambientali, quanto di azione repressiva, mostrando i muscoli e l’aspirazione autoritaria, nei confronti di chi si permetta di protestare.

Immagine in anteprima via Il Riformista

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