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Almeno 227 attiviste e attivisti in difesa della terra e dell’ambiente uccisi nel 2020. Il numero più alto per il secondo anno consecutivo

17 Settembre 2021 6 min lettura

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Almeno 227 attiviste e attivisti in difesa della terra e dell’ambiente uccisi nel 2020. Il numero più alto per il secondo anno consecutivo

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Óscar Eyraud Adams, 34 anni, messicano, indigeno del gruppo dei Kumiai, combatteva per il diritto all'acqua. In un'intervista rilasciata al quotidiano Reforma ad agosto 2020 aveva dichiarato che l'acqua che sarebbe dovuta arrivare alle comunità indigene per irrigare i raccolti veniva deviata verso aree più ricche e uno stabilimento della Heineken.
Il 24 settembre 2020 è stato ucciso a colpi di arma da fuoco nella sua casa, poco dopo l'arrivo di due veicoli con i vetri oscurati.

Ana Lucía Bisbicús García, 50 anni, colombiana, membro della comunità indigena Awá della riserva Pipalta Palvi Yaguapí, situata nel comune di Barbacoas, Nariño. Da anni era molto attiva nell'organizzazione della sua comunità e di quella degli Awá in generale.
Il 3 ottobre 2020 alcuni membri di un gruppo armato l'hanno portata dietro una chiesa, dove stava partecipando a una veglia funebre, e l'hanno assassinata.

Fikile Ntshangase, 65 anni, sudafricana. Si batteva contro l'ampliamento di una miniera di carbone di proprietà della Tendele Coal Mining, vicino a Somkhele, nella provincia di KwaZulu-Natal.
Il 22 ottobre 2020 è stata trucidata con colpi di arma da fuoco nel soggiorno della sua abitazione.

Adams, Bisbicús García e Ntshangase sono tra i 227 attiviste e attivisti impegnati per la protezione dell'ambiente e la tutela del diritto alla terra assassinati nel 2020. Tutti gli omicidi tranne uno sono avvenuti in paesi del sud del mondo. A denunciarlo in un rapporto Global Witness, una ONG fondata nel 1993 con sede a Londra, impegnata nel mettere fine alle violazioni ambientali e dei diritti umani provocate dallo sfruttamento delle risorse naturali e dalla corruzione nel sistema politico ed economico globale. Dal 2012 l'organizzazione si occupa anche di raccogliere dati e informazioni sulle uccisioni di chi difende la terra e l'ambiente.

227 è il numero più alto registrato per il secondo anno consecutivo. Nel 2019 le vittime erano state 212. Una media di più di quattro persone uccise ogni settimana. Ma le vittime potrebbero essere anche di più. Non si ha certezza a causa delle crescenti restrizioni a cui sono sottoposti i giornalisti e, più in generale, per le limitazioni alle libertà civili.

Secondo quanto si legge nel documento di Global Witness quasi un terzo degli omicidi è collegato allo sfruttamento delle risorse: disboscamento, estrazione mineraria, agroindustria su larga scala, dighe idroelettriche e altre infrastrutture.

All'intensificarsi della crisi climatica corrisponde, inoltre, un aumento della violenza nei confronti di coloro che proteggono la loro terra e il pianeta. È ormai evidente – dichiara Global Witness – che lo sfruttamento e l'avidità che guidano la crisi climatica stanno anche causando la violenza nei confronti di chi difende la terra e l'ambiente. La crisi climatica è una crisi contro l'umanità.

Più della metà delle aggressioni è avvenuta in tre paesi: Colombia, Messico e Filippine. Fanno seguito Brasile e Honduras.

Per il secondo anno consecutivo, la Colombia ha registrato il maggior numero di omicidi, con 65 difensore e difensori della terra e dell'ambiente uccisi in un contesto di attacchi diffusi contro chi tutela i diritti umani e i leader della comunità in tutto il paese. A essere presi maggiormente di mira gli indigeni, nonostante costituiscano solo il 5% della popolazione mondiale. La pandemia di COVID-19 ha poi peggiorato una situazione già grave. Difensore e difensori si sono trovati sotto attacco nelle proprie case e le misure di protezione del governo sono state ridotte.

Il livello di violenza e intimidazione nel paese è talmente alto che un ragazzino di 12 anni, Francisco Vera, ha ricevuto minacce di morte anonime su Twitter a causa del suo attivismo.

In Messico, nel 2020, sono stati documentati 30 omicidi con un aumento del 67% rispetto al 2019. Quasi un terzo di questi attacchi è riconducibile al disboscamento e metà delle aggressioni avvenute aveva come obiettivo le comunità indigene. L'impunità per i crimini commessi contro chi combatte per l'ambiente rimane incredibilmente alta: nel 95% dei casi non viene individuato un colpevole.

Nelle Filippine l'opposizione alle aziende che non salvaguardano i territori e le comunità viene spesso accolta con violente repressioni da parte della polizia e dell'esercito. Secondo i dati forniti da Global Witness oltre la metà degli omicidi è direttamente collegata all'opposizione a progetti minerari, di disboscamento e di dighe. La vicenda più scioccante si è verificata il 30 dicembre, quando i militari e la polizia hanno massacrato nove indigeni Tumandok che si stavano opponendo al progetto di una diga di dimensioni gigantesce sul fiume Jalaur a Panay.

Da quando Rodrigo Duterte è diventato presidente della repubblica il paese ha assistito a un drammatico aumento della violenza contro difensore e difensori. Dalla sua elezione, avvenuta nel 2016, fino alla fine del 2020, sono state uccise 166 persone.

In molti paesi, ricchi di risorse naturali e biodiversità fondamentale per il clima, le imprese operano nella più totale impunità. Raramente qualcuno viene arrestato o portato davanti alla giustizia per aver ucciso chi difende la propria terra e la propria comunità. Quando accade si tratta dell'autore materiale del crimine e mai di chi potrebbe essere altrimenti implicato, direttamente o indirettamente, nel reato.

In una delle prefazioni al rapporto di Global Witness l'attivista ambientale Bill McKibben ha richiamato alla responsabilità le multinazionali delle nazioni ricche che sfruttano le risorse locali. “Le aziende devono essere più responsabili e agire. Soprattutto perché le persone che abitano questi luoghi non condividono mai veramente le ricchezze che producono: il colonialismo è ancora forte, anche se travestito con loghi aziendali o nascosto da conti bancari offshore. Nel frattempo dobbiamo renderci conto che le persone uccise ogni anno che difendono le proprie terre stanno anche difendendo il pianeta che è di tutti, in particolar modo il nostro clima”, ha scritto.

Come riportato da BBC News in occasione dell'uscita del rapporto uno degli autori, Chris Madden, ha invitato i governi a “prendere sul serio la protezione dei difensori” e le aziende a “mettere le persone e il pianeta davanti al profitto” per evitare che la crisi climatica e gli omicidi continuino.
«I dati raccolti sono l'ennesimo, duro, promemoria del fatto che combattere la crisi climatica comporta un onere insopportabile per alcune persone che rischiano la vita per salvare foreste, fiumi e biosfere essenziali per contrastare l'insostenibile riscaldamento globale. Tutto questo deve finire».

L'ONG ha invitato i governi a riconoscere formalmente il diritto umano a un ambiente sicuro, sano e sostenibile e a garantire che gli impegni che saranno presi alla conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici il prossimo novembre, COP26, integrino le protezioni dei diritti umani.

In risposta, il presidente della COP26, Alok Sharma, ha dichiarato di “aver dato priorità agli incontri con le persone che sono in prima linea nella lotta al cambiamento climatico per garantire che le voci di tutti siano ascoltate”.

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Global Witness ripone inoltre speranza nell'adozione di una legislazione europea sulla due diligence (dovuta diligenza) delle imprese. Annunciato il 29 aprile 2020 dal Commissario europeo per la giustizia, Didier Reynders, nell'ambito dell'iniziativa Sustainable Corporate Governance, il provvedimento dovrebbe imporre a tutte le aziende l’obbligo di implementare un processo che mira a identificare e prevenire l'impatto su diritti umani e ambiente nelle loro operazioni attribuendo responsabilità in caso di violazioni.

Nel rapporto, infine, viene dato spazio a diverse vittorie importanti ottenute nel 2020. Nello Zimbabwe la Zimbabwe Environmental Law Association e i gruppi ambientalisti sono riusciti a bloccare un piano di due società cinesi per la costruzione di una miniera di carbone nel parco nazionale di Hwange. Nell'Artico gli attivisti statunitensi e canadesi hanno rallentato l'estrazione delle sabbie bituminose e hanno fatto pressioni sulle banche affinché smettano di finanziare l'esplorazione in quell'area. In Sudafrica, un'alta corte ha annullato l'approvazione della costruzione di una centrale elettrica a carbone nella provincia di Limpopo. In Brasile, la comunità indigena Asháninka ha ottenuto un risarcimento per la deforestazione illegale del proprio territorio da parte di una compagnia di legname.

Immagine anteprima via Wikimedia Commons - CC BY-SA 4.0

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