Un ragazzo di ventitrè anni viene portato d'urgenza in ospedale. Ha la pelle violacea, lamenta forti dolori al petto, tutti sintomi di un incipiente assideramento. Un medico fornisce le cure essenziali al ragazzo, lo tiene in osservazione, e quando è sicuro che sia ormai fuori pericolo lo dimette dall'ospedale. Ma quella che per tutti gli altri pazienti è una procedura normale, si rivela un errore. Il ragazzo in questione, Mahmoud, è infatti un immigrato di origine egiziana. Prima di finire su uno dei letti dell'Ospedale San Paolo di Milano, ha trascorso più di venti giorni arroccato insieme ad altri immigrati su una vecchia ciminiera in Via Imbonati. Rivendicava il suo permesso di soggiorno, ha sborsato 500 euro per averlo, nessuno l’aveva informato che non aveva i requisiti per una sanatoria che, in realtà, era indirizzata alla regolarizzazione di colf e badanti. Mahmoud ha resistito alla febbre, alla pioggia e al gelo, ma alla fine è dovuto scendere per farsi ricoverare. Il medico che l'ha curato ora rischia di essere indagato per averlo dimesso senza allertare le autorità. Perché Mahmoud non ha permesso di soggiorno. E in Italia, dal 2009, l'immigrazione clandestina è un reato punibile per legge.
Fantasmi a metà. Lavoratori visibili, cittadini invisibili
Questo sono gli immigrati in Italia. Manodopera a basso prezzo quando si parla di lavoro, fantasmi invisibili quando si parla di diritti. Cinque milioni di fantasmi che lavorano nelle nostre fabbriche, raccolgono le nostre arance, accudiscono i nostri nonni e, in molti casi, fondano imprese che danno lavoro ai nostri giovani.
L’ultimo
dossier Caritas sull’immigrazione in Italia, rivela che i quasi 5 milioni di cittadini stranieri presenti su suolo italiano rappresentano il 10% dei lavoratori dipendenti e contribuiscono al prodotto interno lordo per l'11%. Pagano quasi 11 miliardi di euro tra tasse e contributi previdenziali ogni anno e usufruiscono, in cambio, di meno di 10 miliardi di servizi. Questo significa che lo Stato, ogni anno, guadagna almeno 1 miliardo di euro dagli immigrati.
Ma a questa “integrazione lavorativa” corrisponde quasi sempre una “apartheid sociale”. I permessi di soggiorno sono difficilissimi da ottenere e facilissimi da perdere. Il rimpatrio assomiglia a una gita all’inferno, che spesso passa attraverso i temutissimi Centri di Identificazione ed Espulsione, che per la loro fatiscenza e le condizioni di vita dei “permanenti” sono state paragonate ai
lager. Ottenere la cittadinanza è un incubo burocratico. Anche i figli di coloro che lavorano in Italia da decenni, spesso sono condannati all’apolidia. E se qualcuno, dopo aver pagato migliaia di euro per provare a rientrare nei ranghi di una sanatoria truffaldina, si arrocca per protesta a patir la fame e il freddo su una torre, deve aver paura anche solo a chiedere cure mediche.
Internet, l’ultimo strumento libero per guadagnar visibilità
Cosa può fare allora un simile fantasma per ottenere visibilità? Ben poco. Può affidarsi ai partiti, che magari lo sfrutteranno come totem elettorale a seconda dell’aria che tira. Può salire su una gru o su una ciminiera, rischiando la vita e l’arresto. Può scendere in piazza, come a Rosarno, e diventare capro espiatorio delle mafie.
Oppure, può fondare un sito internet.
“Internet permette di diffondere le informazioni in tempo reale, di evitare spostamenti e di abbattere i costi. Si tratta quindi di uno strumento a portata dei più poveri” sostiene Karim Metref, immigrato algerino e attivista digitale “I movimenti dei migranti sono spesso dei movimenti molto poveri e come tutti gli altri hanno bisogno di comunicare, scambiare, organizzarsi senza dover impegnare troppi mezzi economici. Per questo ricorrono sempre di più al web."
Le premesse perché internet diventi lo strumento principe per le rivendicazioni degli stranieri, del resto, ci sono. Secondo un’
indagine Moneygram, compagnia specializzata in trasferimenti di denaro e migrant banking, svolta su un campione di 2000 immigrati italiani di età compresa tra i 18 e i 70 anni, il 70,4% degli immigrati naviga abitualmente in Internet, di questi il 65% lo fa direttamente dalla propria abitazione. Un dato in linea con il
trend europeo, che è ancora più interessante se si considera che la media gli italiani che dichiarano di navigare in Rete si aggira intorno al 51% (
dati Istat), mentre quelli che in casa possiedono una connessione casalinga sono il 68% (
dati Audiweb). Questo significa che, anche per ragioni anagrafiche (la popolazione immigrata è in gran parte under 30), gli immigrati in media utilizzano internet più degli italiani. Inoltre, anche la barriera linguistica – che spesso impedisce un dialogo allargato trasversale alle varie comunità straniere - sta venendo meno. Un recente
rapporto Censis indica che l’85% degli stranieri è in possesso di una conoscenza sufficiente della lingua italiana.
Eppure, come ora illustreremo, manca ancora manca una autentica piattaforma capace di concentrare le forze di quanti subiscono la stessa condizione di fantasmi-a-metà. Il motivo ce lo spiega sempre Karim: “Sanno usare internet per questioni personali (comunicare, leggere la stampa nazionale) ma non per fare rete e produrre contenuti”. Fino a oggi, insomma, l’utilizzo di internet da parte degli stranieri è stato più passivo che attivo.
Il monopolio italiano degli immigrati su internet
Tra tutti (e sono tantissimi) i siti che si occupano di proteggere e rivendicare i diritti degli stranieri, senza considerare quelli che fanno riferimento a partiti o organizzazioni sindacali, gran parte sono gestiti interamente dai italiani. Lo stesso vale per i social network come Facebook dove una delle pagine più seguite, il Gruppo
Solidarietà agli immigrati di Rosarno (41.584 membri) è interamente gestita da italiani. Intendiamoci: spesso si tratta di siti animati da una sincera volontà di aiutare, ben curati, con contenuti approfonditi e irreperibili altrove. Pur rappresentando un’utile risorsa, però, molti di questi portali non sono tradotti in lingue diverse dall’inglese, alcuni hanno un traffico web impercettibile, e negli ultimi cinque anni molti hanno chiuso battenti o non vengono più aggiornati. Le stesse pagine ufficiali fornite dai Ministeri competenti, spesso contengono
informazioni parziali, talvolta incomprensibili, talvolta fuorvianti.
Attenzione, i siti creati e gestiti da stranieri per stranieri esistono, ma raramente hanno un’ambizione generalista. In molti casi si tratta di portali rivolti a specifiche comunità. Siti come
Ako Ay Pilipino o
Gazeta Ukrainska, sono pensati per essere visitati dai soli membri delle comunità etniche di riferimento e difficilmente possono essere considerati strumenti di “integrazione”. Lo dimostra il fatto che il più delle volte i contenuti non sono nemmeno tradotti in italiano.
La tendenza alla costituzione di isole digitali non comunicanti assume toni ancor più significativi se si considera la nascita di associazioni professionali etniche, ad esempio l’
AFCAI, che si occupa di aiutare l’inserimento professionale dei farmacisti camerunensi in Italia.
Questo tipo di dati dimostra che anche in Rete, come nelle metropoli, esiste una tendenza isolazionista (spesso foraggiata da politiche abitative poco accorte) che porta le comunità etnico-linguistiche a rafforzare più il rapporto con il paese di origine che con quello ospitante; andando così a trasformare il tanto sbandierato multiculturalismo in quello che il Premio Nobel Amartya Sen definisce
plural-monoculturalismo.
Naturalmente, esistono alcune importanti eccezioni. Il sito
Stranieriinitalia.it, ad esempio: gestito almeno in parte da stranieri ma completamente in italiano, è il sito con l’offerta più completa e in più è anche quello che registra il maggior traffico web, tra quelli che abbiamo analizzato (dati
alexa.com).
Ma allora come si spiega la predominanza italiana, nell’utilizzo degli strumenti di attivismo digitale? “Le organizzazioni italiane spesso sono più strutturate” spiega Ismail Ademi, immigrato albanese co-fondatore del portale Albania News “e soprattutto trovano i canali di finanziamento ai quali l’associazionismo immigrato difficilmente può accedere. Per partecipare a bandi pubblici, infatti, le associazioni devono dimostrare che hanno già collaborato con altre amministrazioni, e adempiere a delle burocrazie che richiedono la presenza di personale amministrativo esperto. Inoltre le procedure sono poco accessibili e poco trasparenti.”
Se fino ad oggi, dunque, gli stranieri residenti in Italia sono sembrati poco propositivi in Rete, non è per apatia. Piuttosto, per dirla con Dave Meslin, attivista web canadese, siamo probabilmente di fronte a un altro caso di “
esclusione intenzionale” degli stranieri dalla fruizione degli strumenti partecipativi.
Ma per fortuna, qualcosa sta cambiando.
L’esperienza di Ismail e Albania News
Ismail è arrivato in Italia nel 1996 all'età di 13 anni, clandestinamente, come la maggior parte di chi si trova a immigrare nello Stivale. In Italia ha studiato, si è sposato, lavora e vive. E come tantissimi altri stranieri conosce bene i labirinti burocratici che ogni anno bloccano migliaia di persone dal riconoscimento del loro status giuridico: "Se uno nasce in Italia da genitori immigrati deve dimostrare di aver vissuto in modo ininterrotto in Italia dalla nascita fino al compimento dei diciotto anni." racconta pacato Ismail "Quando poi compie la maggiore età, ha tempo solamente un anno per poter fare la richiesta. Se anche sei arrivato in Italia quando avevi due anni, devi ottenere dieci anni di residenza regolare, fedina penale pulita, reddito e lavoro negli ultimi tre anni."
Ma anche chi riesce a compilare la domanda in regola, si trova spesso a dover aspettare quattro anni.
Dopo dodici anni passati a lottare con la burocrazia italiana, assieme ad un gruppo di amici Ismail ha fondato
Albania News, un giornale online che col passare dei tempo e delle pageviews si è trasformato in una community gestita da 30 collaboratori, e sempre più attiva: "Al momento il sito ha 43 mila visitatori unici mensili, con oltre 130 mila pagine visitate e 210 mila ad-impressions" racconta Ismail "Albanianews ha cominciato dall’anno scorso ad organizzare anche convegni con temi afferenti l’Albania e l’immigrazione, trasformandosi cosi in un punto di riferimento per le tantissime associazioni albanesi sparse in giro per l’Italia."
L’esperienza di AN è incoraggiante, e non è l’unico caso del genere, ma il suo raggio di azione non può estendersi più di tanto oltre i 500.000 residenti di origine albanese. Perché gli stranieri residenti in Italia ottengano un’autentica visibilità, serve anche uno strumento che superi le barriere tra le comunità etniche e che sappia coinvolgere, almeno in potenza, i 5 milioni di immigrati che oggi risiedono nel territorio italiano.
Integrazione: apprendere la cultura altrui o produrne una nuova?
Giorgio Gaber, storico cantautore italiano ha scritto un verso che è diventato vangelo, per i cittadini progressisti di questo paese: “Libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione”.
Ascoltando la storia di Karim Metref, immigrato algerino residente in Italia da più di dieci anni, verrebbe da parafrasare la frase di Gaber per dire che “Integrazione non è la convivenza di due culture, ma la produzione di una nuova”.
“La produzione culturale e le lotte per i diritti sono i due strumenti principali per la costruzione della convivenza pacifica e dell'interazione positiva.” dice Karim “Esprimendo me stesso e lottando per i miei diritti io apro uno spazio di dialogo e mi pongo come attore attivo nella società dove vivo. Contribuendo a questi aspetti, il web contribuisce moltissimo alla costruzione della futura convivenza e interazione positiva.”
Karim è arrivato in Italia quando aveva 30 anni. “Una età in cui si scende poco a compromessi con il mondo e con se stesso” racconta “Non hai la spensieratezza di chi è giovanissimo, e nemmeno la saggezza dell'anziano”.
In realtà Karim è riuscito a integrarsi bene in Italia, e la città di Torino, in cui vive oggi, la chiama tranquillamente casa. E questo forse perché Karim non si è limitato a cercare il suo “spazio libero” nel capoluogo piemontese, ha voluto fare di più, ha voluto “partecipare”.
Nel 2007 ha fondo
LettERRANZA.org, un portale che si occupa della produzione letteraria degli stranieri in Italia. L’idea di Karim ha subito incontrato l’entusiasmo di quegli stranieri che in Italia svolgono lavori creativi, anche perché andava ad aprire una finestra nuova su un parco di autori stranieri che, tra narratori e poeti, oggi conta 110 scrittori pubblicati.
A pochi giorni dal lancio del sito, però Karim ha ricevuto la lettera di un professore che nell’ambiente della tutela degli immigrati viene accreditato come “esperto”. Invece che plaudire all’iniziativa di Karim, questa persona gli ha consigliato di lasciar perdere. “Definiva come ‘ombroso’ sia la mia persona che il mio sito, in quanto, io non avevo ‘nessuna patente’ per farlo. In una lettera successiva mi incitava a seguire i suoi consigli in quanto’persona che rappresenta la cultura che (mi) ospita’.”
Questo atteggiamento non rappresenta un caso isolato, in Italia. Va a inserirsi nell’ottica della tendenza monopolizzante, che come primo prodotto ha quello di tagliare fuori gli stessi immigrati. Ovvero esattamente coloro che dovrebbero essere i soggetti attivi dell’integrazione. “Molti ‘amici’ dell'immigrazione hanno questo approccio da “salvatori” nei confronti degli immigrati e si prendono tutta la responsabilità della loro salvezza” chiarisce Karim, citando il modello psicologico del
triangolo psicodrammatico di Karpam “Ogni auto-organizzazione, ogni ricerca di autonomia, ogni tentativo di protagonismo degli immigrati è vissuto come una rimessa in causa del loro lavoro, come un'invasione di un loro terreno.”
Mentre nei paesi ospitanti c’è chi si straccia le vesti pur di tutelare l’integrità delle culture immigrati, l’esperienza e l’attività di Karim dimostrano che invece è possibile, oltre che auspicabile, considerare la nostra cultura (come quella degli immigrati) non necessariamente come qualcosa da proteggere, ma come qualcosa da condividere, e spezzare così le barriere invisibili che isolano le varie comunità dell’arcipelago urbano. Operare la transizione, insomma, da un modello multiculturale (o plural-monoculturale) basato sulla convivenza, a un modello interculturale, basato sulla contaminazione e sull’integrazione fra culture.
Con questo articolo vogliamo suggerire come gli attori eletti di questa transizione potrebbero essere gli immigrati di seconda generazione. Il mezzo: la produzione di cultura e strumenti partecipativi. Il terreno di coltura: la Rete.
Seconde generazioni: italiani nativi e nativi digitali
Perché le seconde generazioni? Perché il
60% degli stranieri minorenni è nato in Italia, e mostra un
rendimento scolastico superiore ai figli di genitori italiani. Perché la maggior parte di loro sono nativi digitali, e quindi hanno più familiarità con il mezzo Internet. Perché la ricerca “
Liberi tra due mondi”, condotta su 200 minorenni stranieri residenti a Napoli, ha evidenziato come i ragazzi tra i 13 e i 18 tendano a sviluppare abitudini e tendenze tipiche della cultura ospitante e a mantenere contemporaneamente un saldo legame con quella di origine. A questo fenomeno è stato il nome di “doppia etnicità”.
E perché la Rete? Perché i
media mainstream sembrano ignorare l’esistenza degli immigranti, andando a consolidare ulteriormente la loro condizione di fantasmi a metà. Perché internet è uno strumento libero, orizzontale, dove la differenza tra fruitore e produttore di contenuti è virtualmente inesistente. Ma anche perché gli immigrati in media usano internet più degli autoctoni. Perché se solo l’
11% degli italiani sfrutta la rete per informarsi o accrescere le proprie conoscenze, tra gli immigrati la percentuale raggiunge il 45%. Inoltre, da una
ricerca condotta in Germania, emerge che il 70% degli stranieri utilizza internet per informarsi sulla situazione politica sia del paese di origine che di quello ospitante.
Non stupisce allora che una delle realtà più promettenti nel panorama web italiano sia proprio un portale ideato e gestito da immigrati di seconda generazione. “La rete
Seconde Generazioni è stata fondata nel settembre del 2005 da giovani stanchi di un contesto che li respingeva, sulla spinta di una pressante voglia di analizzare la situazione, elaborare proposte di miglioramento e farsi sentire il più possibile” spiega Jaskarandeep Singh, 26 anni, immigrato di origini indiane “L'obiettivo di breve termine è essenzialmente la modifica della legge sulla cittadinanza.
Quello di lungo termine è la creazione di una società e di una cultura che riconosca i figli d'immigrati come italiani a tutti gli effetti”
Jaskarandeep Singh è arrivato in Italia diciannove anni fa con la madre e il fratello, per ricongiungersi con il padre che già da tempo aveva lasciato il Punjab per cercare lavoro, aveva sette anni. In Italia ha studiato, si è laureato e oggi lavora per una ONLUS che si occupa proprio di immigrazione.
Ma dopo quasi vent’anni, ancora non può votare né partecipare a concorsi pubblici, e questo perché la legge ancora non lo considera cittadino italiano. Così, Jaska si è unito agli altri ragazzi di Seconde Generazioni. Questo gruppo di figli di immigrati in 5 anni ha creato una comunità attiva di più di 800 membri che, oltre ad aver dato vita a un tavolo di discussione trasversale alle diverse etnie, ha permesso ai ragazzi di alzare la voce per farsi sentire dalle istituzioni: “Fino a poco tempo fa, arrivati alla maggiore età, eravamo gettati nel mondo degli adulti-immigrati dovendo obbligatoriamente scegliere se studiare o lavorare, ed avere così un permesso d'un tipo o dell'altro” spiega Jaska “Dopo che anche noi di Rete G2 ci siamo battuti contro questo adesso le Questure rilasciano permessi di soggiorno per motivi familiari anche dopo il compimento del diciottesimo anno d'età.”
Ma il raggio d’azione di Rete G2 non si è fermato qui, dopo aver instaurato un canale di comunicazione con associazioni come
ASGI e
Save The Children, G2 ha stretto sodalizio con l’
Ufficio Nazionale Anti-discriminazioni Razziali (UNAR), che fa capo al Ministero per le Pari Opportunità, per il lancio di uno sportello legale web gratuito, un progetto pilota che durerà per tutto il 2011 ed esplorerà la possibilità di attivare uno strumento web che funga da ponte tra i senza voce e le istituzioni: “Chiunque può richiedere una consulenza: figli di famiglie straniere, volontari impegnati nel settore dell'immigrazione e anche funzionari della pubblica amministrazione incerti sulle normative vigenti” si legge nella presentazione del progetto “La risposta, fornita da avvocati esperti, è personale, a meno che durante la compilazione della domanda non si esprima l'assenso per pubblicare la conversazione sul forum. Nel progetto è inoltre previsto il patrocinio legale gratuito per dieci casi giuridici, che diventeranno una sorta di guida per i processi futuri in questo ambito.”
Oltre ai siti web e agli sportelli on-line, un ruolo decisivo possono svolgerlo i social network, e Jaska – che su Facebook conta più di 1500 contatti – lo conferma: “Per i giovani figli di stranieri (che secondo noi non sono soggetti da "integrare") internet e i socialnetwork possono avere un effetto duplice: quello di metterli in contatto con i loro compagni di scuola, dai quali a volte risultano separati fuori dalla scuola a causa della distanza fisica, o a causa di genitori poco inclini a permettere ai figli di ospitare in casa i loro amici. All'opposto però internet può anche mantenere vivi e/o consolidare i legami con la comunità di appartenenza, presente in Italia o all'estero.”
Conclusione
Torniamo ora da dove siamo partiti, alla torre di Via Imbonati. Dei sette immigrati che si erano arrampicati sui pioli pericolanti della torre il 5 novembre 2010, solo tre hanno resistito fino al 2 dicembre. Uno di questi aveva la doppia cittadinanza e la sua protesta non ha avuto conseguenze. Pochi giorni dopo che Mahmoud è stato dimesso dall’Ospedale San Paolo, un altro dei suoi compagni, Abdelrajat, un trentaduenne marocchino, è stato portato d’urgenza in ospedale in preda a un attacco di colica renale. Ma se Mahmoud è stato dimesso da uomo libero, ad Abdel non è toccata la stessa fortuna. Nel giro di quattro ore è stato trasferito nel
famigerato CIE di Via Corelli, a Milano con in tasca un decreto di espulsione, biglietto di sola andata obbligato per il suo paese di origine. Oggi, Abdel è in Marocco, e mentre il vice-sindaco di Milano, Riccardo De Corato
si dice allarmato perché la città sta diventando “troppo africana”, su youtube si diffondono filmati-denuncia, che hanno lo scopo di impedire che gli exploit di Rosarno, della torre via Imbonati, dello sciopero del primo marzo 2010 e della gru di Brescia, non evaporino nell’indifferenza generale.
Nel frattempo, le istituzioni italiane continuano a guardare alla Rete non come risorsa, ma come occasionale scorciatoia. Lo scorso 31 gennaio, il governo italiano ha aperto una finestra online per la regolarizzazione di 50.000 immigrati. Gli interessati hanno potuto avanzare le loro richieste solamente online. Alle 8 precise di quello che è stato infelicemente nominato “click-day” la finestra si è aperta, in meno di un minuto sono state presentate oltre 100.000 domande, e nel giro di quattro ore si era arrivati quasi a quota 300.000. Una vera e propria corsa al permesso istituita senza alcun criterio che non fosse: chi primo arriva bene alloggia.
Ma ecco che mentre i video, gli eventi e gli appelli continuano a seguire la consueta, fulminea, curva di sopravvivenza, in Rete sta fermentando anche una realtà diversa. L’esperienza di Albania News, quella di LettERRANZA e, in particolare, la crescita della Rete G2-Seconde Generazioni sono la dimostrazione di come gli stranieri cominciano a considerare la Rete un ecosistema privilegiato per lo sviluppo di un’integrazione che parta dal basso. Un’integrazione che non si esaurisce con la rivendicazione e l’ottenimento di diritti paritari, ma prosegue e mette radici a partire dalla produzione di una cultura meticcia che possa erodere le barriere fra le singole comunità.
La nostra scelta di concentrarci sulle seconde generazioni non è dovuta solo al fatto gli immigrati di seconda generazione partono da uno stadio avanzato nel processo di integrazione, ma perché secondo noi rappresentano un’occasione unica e irripetibile. I motivi sono vari: i figli di immigrati portano in se l’eredità culturale della famiglia e quella territoriale del paese ospitante (doppia etnicità), sono padroni della lingua ospitante e avantaggiati nel processo di integrazione ma hanno anche assistito da vicino alle difficoltà dei loro padri, e possono comprenderne le criticità. Sono abbastanza vicini alla cultura ospitante e non ancora troppo lontani dalla cultura di origine. Se c’è una generazione che incarna tutte le potenzialità di compiere questo passo da plural-monoculturalismo a inter-culturalismo, se c’è un popolo che può produrre la prima nuova cultura globale, se c’è qualcuno che può dimostrare che è stupido, oltre che inutile, avere paura dei fantasmi-a-metà, questi sono loro. E sono ancora abbastanza giovani per non darsi per vinti.
Federica Cocco e Fabio Deotto
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