Attentato di Mosca: perché il Cremlino accusa l’Ucraina
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L'attentato al teatro Crocus City Hall di Mosca dello scorso 22 marzo continua a destare interrogativi e controversie. Tra le molteplici narrazioni che circondano il tragico evento in cui finora 143 persone sono morte e 382 sono rimaste ferite, una delle più discusse è la presunta implicazione dell'Ucraina.
Un dibattito che continua a prendere piede a Mosca come in Occidente, nonostante la rivendicazione di una cellula dell’ISIS – l’Isis Khorasan (ISIS-K), ramo terrorista attivo in Asia centrale e meridionale – sia arrivata da Amaq, un organo di stampa ufficiale degli islamisti, a poche ore dall’accaduto (seguita dal rilascio di immagini della strage riprese dalla bodycam di uno dei terroristi).
Una circostanza confermata a stretto giro dall’intelligence statunitense, che pure aveva avvisato la controparte russa di un attacco terroristico imminente due settimane prima, seguendo la prassi internazionale del duty to warn – cioè l’obbligo di avvertimento da parte dei servizi di intelligence in possesso di informazioni riguardo possibili episodi di terrorismo in altri Stati.
La segnalazione è stata bollata immediatamente dal presidente russo Vladimir Putin come una provocazione atta a “intimidire e destabilizzare la società russa”. Secondo una recente esclusiva di Reuters, però, anche l’alleato Iran avrebbe avvertito la Russia di un imminente attacco dell’ISIS-K: 35 membri dell’organizzazione terroristica erano stati arrestati da Teheran per il coinvolgimento negli attacchi di inizio gennaio a Kerman, in cui più di 100 persone avevano perso la vita.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Il discorso di Putin alla nazione e le prime insinuazioni verso Kyiv
Alimentata dalla propaganda e più di una volta citata da Putin e da alti esponenti dello Stato russo nei giorni successivi al 22 marzo, la cosiddetta pista ucraina dell’attentato moscovita rappresenta un nodo intricato che rischia di persistere nel tempo, influenzando l'opinione pubblica sia europea che russa – condizionando da una parte il decrescente aiuto occidentale a Kyiv, dall’altra il sempre più lontano spiraglio di dialogo fra le due popolazioni civili.
Sebbene nel suo discorso alla nazione all’indomani della tragedia Putin abbia confermato la matrice islamica dell’attentato, il presidente russo ha insistito su un punto ulteriore: i quattro tagiki arrestati dalla polizia russa sono solo gli esecutori materiali del terrore, ma i mandanti sarebbero da ricercare fuori dalla cornice del terrorismo fondamentalista islamico. A chi si riferisse Putin è stato chiaro quando ha accusato i responsabili della strage di aver agito “come dei nazisti”, la definizione prediletta da un decennio per riferirsi agli ucraini.
In prima istanza, il motivo alla base delle accuse è sembrato molto semplice e intuitivo: i terroristi fermati a bordo di una Renault Symbol bianca nell’oblast’ di Bryansk’ erano diretti – secondo Putin e i servizi russi – verso il confine russo-ucraino.
Da questo primo indizio ha avuto inizio la teoria del governo russo che vede i servizi ucraini dietro l’attentato, anche attraverso l’utilizzo di una delle tecniche di manipolazione preferite dalla propaganda russa. Cioè, decontestualizzare gli eventi chiedendo retoricamente all’interlocutore immaginario: cui prodest?
Proprio insinuando, in un successivo discorso, come bisognerebbe chiedersi “chi ha avuto beneficio” dall’attentato, Putin ha definitivamente eletto la pista ucraina a linea ufficiale del Cremlino nelle indagini dell’attentato al Crocus City Hall.
L’inconveniente Lukashenko
Un indizio, quello per cui i quattro terroristi islamici fossero diretti verso l’Ucraina, peraltro tutto da dimostrare. Da una parte, molti hanno messo in dubbio la plausibilità della scelta da parte dei terroristi di una direzione a priori presidiata massicciamente da forze dell’ordine e militari. Dall’altra, una parziale smentita alla teoria di Putin e dell’FSB (Servizio federale per la sicurezza della Federazione Russa) è arrivata dal suo principale alleato, il leader bielorusso Aleksandr Lukashenko.
Lukashenko non ha resistito alla tentazione di evidenziare, per l’ennesima volta, il suo ruolo di supporto essenziale per l’equilibrio politico di Mosca, come fece, per diverse settimane, quando si pose come presunto mediatore fra Putin e l’ex capo della Wagner Evgenij Prigožin, in seguito allo spettacolare ammutinamento dello scorso 24 giugno.
In questo caso il presidente bielorusso ha però involontariamente rotto le uova nel paniere alla narrazione ufficiale russa, un po’ come quando sembrò svelare al grande pubblico i piani militari russi pochi giorni dopo l’invasione, mostrando in diretta una mappa con le direzioni di azione dell’esercito del Cremlino.
Lukashenko, addressing his security council, points to a map of Ukraine that shows what look like planned troop movements, infrastructure targets, and the country divided into four parts pic.twitter.com/O81hpIvZM3
— max seddon (@maxseddon) March 1, 2022
Stando alle parole di Lukashenko la Renault dei terroristi era diretta verso la Bielorussia, e solo quando quest’ultimi hanno capito che “avevamo predisposto le nostre unità in stato d’allerta in preparazione a una situazione di combattimento”, hanno cambiato rotta verso l’Ucraina.
Una versione che stride fortemente con quella del Cremlino, testimoniando come le autorità russe siano tutt’altro che allineate nella diffusione di informazioni pubbliche dell’intelligence, sottolineano gli analisti dell’Institute for the Study of War (ISW).
Ne è un esempio la dichiarazione dello scorso venerdì del portavoce del Comitato investigativo russo per cui “i terroristi si sono diretti in auto verso il confine russo-ucraino per poi raggiungere Kyiv e ricevere la ricompensa promessa [5000 dollari, ndr]", completamente incompatibile con la versione di Lukashenko, espressa per di più tre giorni prima.
Quest’ultimo, peraltro, non sembrerebbe avere nessun incentivo politico nel far intendere che i terroristi avrebbero trovato un terreno più sicuro nel suo paese, piuttosto che in Ucraina; ciò potrebbe porre seri dubbi sulla tenuta della sicurezza interna di Minsk. Appena un mese prima dell’attentato, Lukashenko sosteneva di aver fermato dei sabotatori ucraino sul confine bielorusso.
Le accuse russe all’Ucraina e al capo dell’intelligence ucraina Kyrylo Budanov
Come spesso è accaduto durante questi due anni di guerra, le devianze di alleati e sottoposti rispetto alla propaganda ufficiale del Cremlino (Igor Girkin “Strelkov” ne è stato, fino all’arresto, un perfetto esempio) hanno raramente determinato chiarimenti o quantomeno imbarazzi nell’élite russa.
Nei giorni successivi all’attentato, l'establishment russo ha perciò intensificato le accuse nei confronti dell'Ucraina, e le uscite di Lukashenko non hanno determinato cambiamenti della narrazione ufficiale.
Già a poche ore dall'attacco, l'ex presidente russo Dmitry Medvedev aveva sollevato sospetti sull'Ucraina col suo tipico stile minaccioso, senza però fornire indizi concreti a sostegno di tali affermazioni.
Le accuse dell’FSB e di Putin per cui i quattro responsabili dell'attacco terroristico contavano su una ‘finestra’ di opportunità per fuggire in Ucraina, e detenevano presunti contatti di alto livello a Kyiv, sono pure rimaste, nei fatti, prive di prove tangibili. Secondo una fonte di Meduza interna all’apparato mediatico statale russo, il Cremlino ha però istruito i media filo-governativi nell’enfatizzare il più possibile la cosiddetta pista ucraina.
Contro ogni fattualità, le accuse dei vertici russi rimangono dunque nel rango di pure suggestioni: la portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha dichiarato come sia "estremamente difficile da credere" che lo Stato Islamico possa essere dietro l'attacco di Mosca, senza però specificare perché sia facile, al contrario, credere che l’Ucraina possa aver organizzato un’operazione di tale portata.
Il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha perlomeno sottolineato che l’assenza di prove pubbliche è temporanea e dovuta alle indagini in corso, preferendo al momento inveire contro il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, definendolo “un tipo particolare di ebreo”. Peskov ha motivato questo velato insulto antisemita per la presunta alleanza fra Zelensky e gli ultranazionalisti ucraini, facendo intendere vi siano quest’ultimi dietro l’attacco.
In effetti, nei giorni successivi gli investigatori russi hanno arrestato un uomo sospettato di far par parte della rete finanziaria dei terroristi e dichiarato che alcune transazioni in criptovalute ricondurrebbero ai “nazionalisti ucraini”. Un’espressione sempre più vaga, usata da Mosca per definire ormai qualsiasi ucraino non filorusso.
In un secondo momento, le accuse russe hanno inoltre coinvolto gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, con il direttore dell’FSB Aleksandr Bortnikov che ha dato per certo un coinvolgimento della CIA e del MI6 nell’operazione con cui “l’Ucraina ha addestrato i terroristi in Medio Oriente”.
Bortnikov ha persino alzato il tiro sostenendo che l’Ucraina stava aspettando di accogliere i terroristi “come degli eroi” sul suo territorio, un’ipotesi quantomeno improbabile per le sue ovvie implicazioni mediatiche.
Ciononostante, il capo dei servizi russi ha ribadito che in seguito all’attentato i servizi segreti ucraini, sia interni (SBU) che esteri (GUR) devono essere valutati come delle “organizzazioni terroristiche”, e in particolare Kyrylo Budanov è considerato ufficialmente un obiettivo legittimo di ritorsione russa. Budanov è da tempo nella kill list del Cremlino; la moglie del capo dell’intelligence ucraina ha subito un avvelenamento negli scorsi mesi, ricondotto a sabotatori russi.
L’evocazione da parte russa del nome di Budanov non è casuale. Un recente reportage del New York Times ha raccontato come il vertice del GUR ucraino avesse fatto parte dell’unità d’élite dei servizi segreti addestrata della CIA. Perciò Budanov è il personaggio perfetto per acuire la tesi russa dell’Ucraina come marionetta militare americana.
Da più, inoltre, si ritiene che Budanov prediliga operazioni di sabotaggio molto rischiose, come in Crimea e nella stessa Federazione Russa. In un certo senso, col suo cinismo e carisma mediatico da organizzatore di “brutte sorprese per i russi” costruito negli ultimi due anni, Budanov rappresenta in modo simbolico quella percentuale crescente di ucraini che ritiene giusto rivalersi sul suolo russo della distruzione operata in Ucraina dalle forze armate russe, anche se ciò può porre un rischio per i civili russi, esasperando così il concetto di responsabilità collettiva. Un fenomeno tanto presente, quanto inevitabile in seguito alla scia di distruzione scatenata da Mosca dal 24 febbraio 2022 (e supportata informalmente dal 2014).
Accostare il suo nome alle sue indagini dell’attentato, rende più plausibili le manipolazioni del Cremlino, rispetto a personaggi ad altri personaggi come l’ex capo del Consiglio di sicurezza Oleksij Danilov e il direttore dell’SBU Vasyl Malyuk, sebbene anche il nome di quest’ultimo sia stato richiamato da Maria Zakharova. “Chiederemo l’estradizione di Malyuk per terrorismo presso le Corti Internazionali” ha dichiarato la portavoce del Ministero degli esteri russo, sebbene l’accusa riguardi precedenti attacchi al ponte di Crimea e non l’attentato al Crocus City Hall.
La teoria del false flag interno
Senza sorprese, Budanov ha rispedito al mittente le accuse di Mosca, sostenendo che i servizi segreti russi sapessero dell’attentato “perlomeno dal 15 febbraio” e l’avrebbero “lasciato accadere”, pensando tuttavia esso sarebbe stato su una scala molto più piccola, allo scopo di accusare Kyiv per l’accaduto e giustificare poi l’ennesima escalation.
Budanov ha dunque risposto specularmente, insinuando la teoria del complotto, opposta, del fronte antirusso. E cioè che i servizi segreti russi non abbiano impedito, o persino co-organizzato, gli attentati islamisti perseguendo la propria strategia del terrore, con lo scopo di alzare il tiro nei conflitti in cui la Russia è coinvolta. Il parallelo è ovviamente quello con il caso ceceno di fine anni ’90.
Nello specifico, secondo i sostenitori di questa tesi, la situazione sembrerebbe ripetere più la retorica del Cremlino in seguito alle bombe nei palazzi del settembre 1999 – mesi dell’ascesa di Putin che fece della reconquista cecena il suo principale slogan politico durante il primo mandato – piuttosto che le stragi del teatro Dubrovka del 2002 e della scuola di Beslan del 2004, in cui il presidente russo non aveva più convenienza politica nel legittimare il residuo potere del “regime di Grozny”, e seguì piuttosto quella del terrorismo islamico internazionale, nel clima collaborativo post-11 settembre.
No point in making any big statements on the Moscow shooting, but I wouldn't rule out a false flag operation.
— Pekka Kallioniemi (@P_Kallioniemi) March 22, 2024
This is what FSB/Putin did in 1999 to justify the Second Chechen War and improve Putin's popularity and image as a strong leader. https://t.co/17eAroL3jx
Similmente alla pista ucraina promossa dal Cremlino, però, queste accuse non forniscono nessuna prova a sostegno della tesi dell’operazione false flag di marca russa. Anche qui le ragioni addotte – anch’esse non immuni da complottismi – sono per lo più suggestioni: dal paragone storico fra la guerra cecena e ucraina, al sostanziale disinteresse delle élite russe per la propria popolazione civile, testimoniata da operazioni come la stessa Beslan.
È interessante però notare come negli scorsi giorni l’FSB abbia iniziato a perseguitare, attraverso i classici metodi intimidatori, il proprietario del Crocus City, l’oligarca di origini azere Aras Agalarov, cinquantunesimo uomo più ricco di Russia.
Quali sono gli interessi in campo?
Da una parte un auto-attentato del Cremlino, a riprova della crudeltà e cinismo delle élite russe, dall’altra un’operazione perfettamente orchestrata dall’Ucraina, espressione d’odio del regime nazista di Kyiv. Pure quando viene concesso il legame dell’attentato all’ISIS, una tesi di fondo delle dietrologie è il classico accostamento dello Stato Islamico (indiretto tramite l’operazione Timber Sycamore in Siria) all’intelligence statunitense, e dunque per analogia all’Ucraina.
Gli episodi di terrorismo, specie quando condotti su suolo occidentale – è interessante come in altri contesti geografici, come per l’attentato all’ambasciata russa a Kabul del 2022, si creda quasi sempre alle rivendicazioni ufficiali – conoscono spesso diversi tentativi di depistaggio e l’incursione di un numero indefinito di attori nelle sottotrame da essi generati.
Disinformazione, complottismo e depistaggi sono sempre dietro l’angolo quando si parla di terrorismo internazionale, rendendo nei fatti impossibile monitorare fino in fondo le diverse piste nel breve termine, pure per ovvi limiti di accesso a dati riservati. Ciò rende ancor più necessario riassumere in modo concreto gli interessi delle parti in gioco.
Al di là delle future e probabili escalation, il Cremlino avrebbe interesse nel giustificare una falla di sicurezza interna dell’FSB come un episodio collegato alla guerra in Ucraina, di per sé più complesso da prevenire, piuttosto che un ritorno agli anni del terrorismo ceceno, la cui soppressione è alla base della legittimazione del regime di Putin. Quando, come lo scorso 29 marzo a Stavropol’, nel sud della Russia, i servizi segreti hanno dichiarato di avere sventato un attacco terroristico e arrestato altre tre persone “di un paese dell’Asia centrale”, l’Ucraina non è stata nominata tra i mandanti.
La generica formula utilizzata per definire un paese dei cosiddetti “-Stan” sembra essere dettata dall’esigenza di prevenire il crescente odio etnico nei confronti delle minoranze musulmane, onnipresente nel contesto russo, e in particolare nei confronti dei tagiki, unica nazionalità fra gli esecutori materiali dell’attentato.
Un rinnovato allarme xenofobo che rende necessarie deportazioni dei migranti tagiki, come a San Pietroburgo, ed è percepito come un pericolo cruciale per il regime di Putin: il nazionalismo etnico della maggioranza russa slava rappresenta da sempre un innesco di tensione etniche a catena, che potrebbero in futuro mettere in pericolo la tenuta dell’impero-federazione. O anche solo la mobilitazione nei ranghi dell’esercito, in cui le minoranze del sud e dell’est rappresentano in proporzione alla popolazione il bacino principale di soldati per la campagna ucraina.
Da qui la scelta di Putin di deresponsabilizzare il Tagikistan quando, all’indomani dell’attentato, dichiara “il terrorismo non ha nazionalità” (eccetto, a quanto pare, quella ucraina): l’ideologia euroasiatica e multipolare di Putin non può che provare imbarazzo quando i problemi di Mosca derivano proprio da quelle repubbliche ex-sovietiche che, in linea teorica, dovrebbero essere quelle più legate al Cremlino.
Il Tagikistan – che nei giorni successivi ha arrestato altri 9 sospettati all’interno dei suoi confini – è peraltro un paese che nel corso degli anni ’90 ha vissuto una lunga e sanguinosa guerra civile (con circa 150 mila morti in cinque anni) fomentata dall’odio etnico. Una delle due fazioni era supportata da movimenti legati al fondamentalismo islamico, tra cui Al-Qaeda. La pacificazione – promossa anche dalla Federazione Russa – ha riportato alla stabilità sociale ma pure a un irrigidimento delle tendenze autocratiche, da sempre fonti di tensione nell’area – come in Kazakistan, dove a poche settimane dall’invasione del 24 febbraio 2022 pure vi fu il coinvolgimento repressivo delle forze militare russe.
Ciò serve a ricordare, se necessario, come gli interessi e i conflitti di Mosca nell’area non riguardano di certo solo Kyiv, e non nascano certo negli ultimi due anni. Attengono, al contrario, all’intera area post-sovietica e pure quella dell’Asia meridionale e Medio Oriente, in cui il Cremlino ha sempre più spinto le proprie politiche, spesso proprio in ottica anti-ISIS. E ben prima della guerra civile in Siria, la Russia era di gran lunga il paese europeo con più vittime per attentati di matrice islamica. Tensioni fra centro e periferie, anche esterne al territorio della Federazione, che nel caso della regione del Khorasan risalgono addirittura alla “memoria drammatica della guerra sovietico-afgana”, ha ricordato l’analista Greta Cristini.
Rispondendo alla domanda della propaganda russa “cui prodest?” verrebbe da pensare che Kyiv, in un momento di crisi senza precedenti in questa guerra, ha tutt’altri interessi rispetto all’alienarsi il già striminzito sostegno occidentale, organizzando in segreto una carneficina senza precedenti nel conflitto. Gli alleati hanno spesso espresso riserve sui bombardamenti e sull’uso di droni in profondità nel territorio russo, e mal accetterebbero anche un lieve sospetto nei confronti di un coinvolgimento ucraino di fronte a un episodio, che forse per la prima volta, sembrerebbe mettere tutti d’accordo.
Il Ministero degli Esteri ucraino sostiene che quello russo sia un tentativo di screditare l’immagine internazionale dell’Ucraina, sebbene secondo il consigliere dell’amministrazione presidenziale Mykhailo Podolyak queste accuse lascino stupiti persino i paesi neutrali rispetto alla guerra.
Ciò che è certo è che l’episodio segna l’ennesima voragine nel rapporto fra civili russi e ucraini – un rapporto probabilmente irrecuperabile a livello sociale per diverse generazioni. I principali analisti, tra cui Hanna Notte e Joshua Yaffa, sostengono pure come sia un’anticipazione di una escalation russa, confermata dalle parole del capo dell’FSB Bortnikov, che ha già annunciato rappresaglie.Al di là delle escalation future, l’attentato ha già contribuito a offuscare i più massicci attacchi russi su civili, infrastrutture e obiettivi militari degli ultimi mesi, avvenuti proprio poche ore prima dell’attentato al Crocus City Hall (e poi continuati in seguito a esso). Accusare l’Ucraina di terrorismo ha alzato ancora di più l’asticella, presentando all’opinione pubblica russa i bombardamenti come qualcosa di giusto.
Immagine in anteprima: frame video Times of India via YouTube