11/9 2001-2021, l’attacco che ha cambiato l’America
16 min lettura“Dov’eri l’11 settembre?”. Quante volte ce lo siamo sentiti chiedere o lo abbiamo domandato, almeno quelli di noi che hanno un po’ più di vent’anni, senza neanche bisogno di aggiungere l’anno: 2001. Perché “11 settembre” è diventato una data-icona, una svolta della storia. Per chi c’era, naturalmente. E anche per chi non c’era, non era nato o era troppo piccolo per ricordare. Vent’anni fa il mondo è cambiato, per tutti. Cerchiamo di ripercorrere quei giorni e gli eventi che ne sono seguiti.
Gli attacchi
Le vittime
I fatti, minuto per minuto, giorno per giorno
Il primo impatto economico
Venti anni di incubi e rivalsa: i sondaggi
Le nuove paure
I valori traditi
America sotto sorveglianza
La guerra all’America
I segnali ignorati
La guerra (permanente) dell’America
America First
Nemici di se stessi
Gli attacchi
L’11 settembre 2001 diciannove uomini sequestrarono e dirottarono quattro aeroplani civili, a pieno carico di carburante, diretti verso destinazioni della costa ovest degli Stati Uniti. In totale 2.977 persone rimasero uccise a New York, Washington DC e nelle campagne fuori Shanksville, Pennsylvania. Gli attacchi erano stati organizzati dal gruppo terroristico Al Qaeda, guidato dal saudita Osama bin Laden.
Le vittime
Nel World Trade Center (WTC) a Lower Manhattan, 2.753 persone persero la vita quando il volo 11 dell’American Airlines e il volo 175 della United Airlines vennero lanciati a schiantarsi contro la Torre Nord e la Torre Sud del grande complesso di uffici. Di coloro che persero la vita negli attacchi iniziali e nel successivo crollo delle Torri, 343 erano vigili del fuoco della città di New York (quasi la metà dei pompieri morti in cento anni di storia del corpo di New York), 23 poliziotti e 37 funzionari della Port Authority. La vittima più giovane è stata una bambina di 2 anni, Christine Hanson, che viaggiava sul volo 175 e stava andando a Disneyland per la prima volta. La vittima più anziana fu Robert Norton, 82 anni, passeggero a bordo del volo 11. Circa il 75% delle vittime erano uomini. Solo il 60% delle 2.753 vittime del WTC è stato identificato tramite i loro resti.
Nell’attacco al Pentagono di Washington morirono 189 persone, di cui 64 a bordo del volo 77 della American Airlines che si andò a schiantare sull’edificio. L’edificio, la cui costruzione era cominciata proprio l’11 settembre del 1941, era stato costruito in cemento armato con colonne e rampe al posto delle scale. Questa struttura particolarmente robusta permise di limitare, relativamente, la perdita di vite umane. Ci vollero trenta minuti perché l’ala colpita dal velivolo crollasse del tutto.
A Shanksville, Pennsylvania, i 40 passeggeri e membri dell’equipaggio del volo 93 dell’United Airlines morirono quando il velivolo precipitò nei campi. Tra le ipotesi è che l’obiettivo dei dirottatori fosse la Casa Bianca e che passeggeri ed equipaggio sventarono il piano mandando l’aereo a schiantarsi in una zona non popolata.
I fatti, minuto per minuto, giorno per giorno
11 Settembre 2001
8:46 am (ora cosa Est, le 14:46 in Italia) - Il volo 11 American Airlines (diretto da Boston a Los Angeles) colpisce la Torre Nord del WTC di New York City.
9:03 am ET (15:03 in Italia) - Il volo 174 della United Airlines (diretto da Boston a Los Angeles) colpisce la Torre Sud del WTC.
9:37 am (15:37 in Italia) - Il volo 77 American Airlines (diretto da Dulles, Virginia, a Los Angeles) colpisce il Pentagono a Washington DC.
9:59 am ET (15:59) - La Torre Sud del WTC crolla in circa 10 secondi.
10:03 am ET (16:03) - Il volo 93 United Airlines (diretto da Newark; New Jersey, a San Francisco) si schianta fuori Shanksville, Pennsylvania.
10:28 am ET (16:28) - Crolla la Torre Nord del WTC. Dall’impatto del primo aereo sul WTC sono passati 102 minuti: tutto è accaduto in meno di due ore.
7 pm (1 del mattino del 12 settembre in Italia) - Il presidente George W. Bush (che era in Florida al momento degli attacchi e ha passato la giornata in diversi luoghi del Paese come misura di protezione) ritorna alla Casa Bianca.
9 pm (3 am in Italia) - Bush parla alla nazione dallo Studio ovale: “Gli attacchi terroristici possono scuotere le fondamenta dei nostri più grandi edifici ma non possono scuotere le fondamenta dell’America. Questi atti distruggono l’acciaio, ma non possono intaccare l’acciaio della risolutezza dell’America”. E riguardo alla risposta militare: “Non faremo distinzione tra i terroristi che hanno compiuto questi atti e quelli che danno loro rifugio”.
7 Ottobre 2001 - Parte Enduring Freedom, operazione militare internazionale a guida Usa per sradicare il regime dei Taliban in Afghanistan e distruggere la rete terroristica di bin Laden. In due mesi i Taliban vengono rimossi dal potere ma la guerra continua anche nel vicino Pakistan per debellare la resistenza dei Taliban.
13 dicembre 2001 - Il governo Usa diffonde un video in cui Osama bin Laden rivendica gli attacchi.
18 dicembre 2001 - Il Congresso approva una misura che designa l’11 settembre come “Patriot Day” in ogni anniversario degli attacchi.
25 novembre 2002 - Con la legge Homeland Security Act viene istituito il Dipartimento dell’Homeland Security. A tutt’oggi il Dipartimento è responsabile di misure di prevenzione dal terrorismo, sicurezza ai confini, immigrazione.
27 novembre 2002 - Viene istituita la National Commission on Terrorist Attacks Upon the United States. La “9/11 Commission”, bipartisan, fu incaricata di investigare sugli eventi che avevano portato agli attentati.
22 luglio 2004 - La 9/11 Commission pubblica il rapporto finale. In esso viene indicato Khalid Sheikh Mohammed, come “il principale architetto” degli attacchi dell’11 settembre. Mohammed aveva guidato le operazioni di propaganda di al Qaeda dal 1999 al 2001. Era stato catturato il 1 marzo del 2003 dalla CIA e dai servizi pachistani e interrogato prima di essere rinchiuso nel carcere speciale sulla base di Guantanamo Bay insieme ad altri quattro presunti terroristi, tutti accusati di terrorismo e crimini di guerra legati all’11 settembre. Nell’interrogatorio venne fatto uso di torture, tra cui il “waterboarding” (una tecnica di soffocamento per affogamento del detenuto), come accertato da investigazioni successive sulle pratiche di interrogatorio usate a Guantanamo. Il processo di Mohammed e gli altri quattro era stato fissato per il 2021 ma è stato rinviato a causa della pandemia di Covid19.
2 maggio 2011 - Osama bin Laden viene rintracciato e ucciso in un’operazione delle forze speciali dell’amministrazione Obama, nel suo rifugio ad Abbottabad, Pakistan.
Giugno 2011 - Barack Obama annuncia l’inizio del ritiro delle truppe Usa dall’Afghanistan.
Agosto 2021 - Il presidente Joe Biden completa il ritiro delle truppe dall’Afghanistan.
3 Settembre 2021 - Biden ordina la desecretazione nell’arco di sei mesi degli atti dell’indagine sugli attentati.
Il primo impatto economico
500mila dollari - La stima di quanto sia costata la pianificazione, preparazione ed esecuzione degli attentati.
123 miliardi di dollari - La stime delle perdite economiche negli Usa nel primo mese dopo gli attacchi.
60 miliardi di dollari - Il costo stimato dei danni al WTC, compresi i danni a edifici circostanti, infrastrutture e metropolitana.
750 milioni di dollari - Il conto per ripulire Ground Zero dai detriti nel corso di 261 giorni di lavoro.
60% dei posti di lavoro persi nelle compagnie aeree nel primo anno.
40 miliardi di dollari - Il valore del pacchetto di aiuti per le misure anti-terrorismo approvate dal Congresso il 14 settembre 2001.
15 miliardi di dollari - Aiuti Usa alle compagnie aeree.
9,3 miliardi di dollari - Danni denunciati alle assicurazioni per gli attacchi dell’11 settembre.
Venti anni di incubi e rivalsa: i sondaggi
Se miliardi di dollari andarono in fumo sotto le macerie delle Torri Gemelle, di certo l’impatto emotivo fu il prezzo più alto pagato dagli Usa in quei giorni e negli anni a seguire. Gli americani (e non solo loro) non riuscivano a staccarsi dagli schermi televisivi (la tv nel 2001 era ancora la principale fonte di informazione, non c’erano social media e molto relativa la diffusione dell’informazione online) ma soffrivano di crisi di depressione, attacchi d’ansia, insonnia, incapacità di concentrarsi: lo indicano i sondaggi d’opinione condotti nei primi giorni dopo gli attacchi e ricostruiti oggi dal Pew Research Center.
Gradualmente lo shock ha lasciato il posto alla reazione: tre settimane dopo gli attacchi per l’87% degli americani il sentimento prevalente era la rabbia. E questo spiega come il lancio delle operazioni militari e i primi anni di guerra siano stati in gran parte accompagnati dal favore e da espressioni di ritrovato patriottismo e unità nazionale, con altissimi indici di popolarità per il presidente Bush, almeno nella fase iniziale. Con il passare degli anni il sostegno alla presenza militare (prima in Afghanistan e poi in Iraq) si è via via indebolita: dall’83% del 2002 a poco più del 60% nel 2009, il primo anno di presidenza Obama. Finché la cattura di bin Laden ha portato il pendolo dei favori decisamente verso il ritiro dal Medio Oriente.
Parallelamente, la guerra in Iraq - inglobata da Bush nella strategia della “guerra al terrore”, mistificazione che ha convinto per anni gran parte dell’opinione pubblica americana che Saddam Hussein fosse legato ai terroristi dell’11 settembre - ha seguito analoghe fortune di consenso, fino ad arrivare nel 2018 (quindicesimo anniversario della guerra) a meno della metà degli americani che ancora difendevano la scelta dell’occupazione.
Le nuove paure
La fede e la preghiera divennero preponderanti nella vita quotidiana dopo l’11 settembre, secondo il 78% degli americani intervistati un anno dopo. Quegli eventi avevano profondamente cambiato l’America. E questo senso di svolta epocale è cresciuto con il passare degli anni. Se nel 2002 metà degli americani dichiaravano che gli Usa erano “cambiati in modo significativo”, 10 anni dopo era il 61% a pensarla così, e 15 anni dopo il 76% ha indicato l’11 settembre come l’evento che ha cambiato di più la storia americana, seguito a distanza dall’elezione del primo presidente nero.
Nella prospettiva del tempo, la magnitudo dello shock delle Torri si riverbera con forza sempre più potente, fino ad arrivare ai giorni nostri, quando un’altra tragedia globale è riuscita a scalzare il primato: la pandemia del nuovo coronavirus è oggi citata da più americani (35%) come la sfida più grande mai affrontata dagli Usa, l’11 settembre è ancora al primo posto per il 27% degli americani, mentre altri tre problemi condividono il terzo posto a pari merito: le sparatorie di massa, i cambiamenti climatici e l’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso.
Tre volti di un’America che con l’11 settembre ha mutato profondamente anche il suo spirito: se nei primi mesi dopo lo shock iniziale il patriottismo, il favore per le istituzioni e persino la fiducia nei media registravano un trend di crescita, con gli anni il Paese si è ripiegato su se stesso, è cresciuto il complottismo e la tendenza ad armarsi. Nonostante non ci siano stati attacchi terroristici esterni in vent’anni contro gli Usa, la necessità di difendersi dal terrorismo è rimasta in cima alle preoccupazioni degli americani in tutti i sondaggi dal 2001 a oggi. Quest’anno, prima del ritiro degli Usa dall’Afghanistan, il terrorismo interno aveva sopravanzato il timore del terrorismo straniero nei sondaggi d’opinione. Non a caso è la popolazione nera a temere di più la minaccia interna, rappresentata in larga parta dal suprematismo bianco. Ma oggi, all’indomani del ritiro e con il sopravvento dei Taliban di nuovo a Kabul, l’89% degli americani è tornato a temere per la propria sicurezza.
I valori traditi
Gli analisti che si sono dedicati alla ricostruzione e alla lettura delle conseguenze dell’11 settembre ci riportano oggi, a 20 anni di distanza, un quadro di reale trasformazione della mentalità e dello spirito del corpo sociale dell’America, e certo non solo dell’America. E quel che ne emerge è un ritratto di involuzione, politica e sociale.
La risposta agli attentati, sostenuta con convinzione dall’opinione pubblica disorientata e scioccata, ha innestato una spirale di errori, mistificazioni, bugie, forzature della legge nazionale e dei codici internazionali sui diritti umani e civili, che oggi costituiscono una legacy di barbarie che si va ad aggiungere alla brutalità degli attentati.
In una recensione collettiva della saggistica post 11 settembre uscita negli Usa, il critico del Washington Post Carlos Lozada disseziona senza pietà le membra sfiancate del ventennio americano: “Più che esemplificare i valori più alti della nazione, la risposta ufficiale all’11 settembre ha sguinzagliato le sue qualità peggiori: inganni, brutalità, arroganza, ignoranza, manie di grandezza, esagerazione e negligenza. Per quante storie individuali questi libri possano raccontare, sono sempre troppe quelle che descrivono il ripudio dei valori degli Stati Uniti, non da parte degli estremisti ma per nostra stessa mano. Il tradimento dei principi che l’America aveva professato è stato il fuoco amico della guerra al terrore. L’indifferenza alla crescente minaccia del terrorismo ha lasciato il posto a sete di sangue e vendetta dopo gli attacchi. In nome dell’antiterrorismo, la sicurezza viene politicizzata, la barbarie legalizzata e il patriottismo diventa un’arma”.
America sotto sorveglianza
Nel caos dell’11 settembre ha trovato spazio la legittimazione di aggressioni esterne non giustificate ma si è anche aperto un grande e conveniente spazio per la soppressione delle libertà e dei diritti civili interni. “Il panico ci ha reso politicamente vulnerabili - ricorda oggi Edward Snowden, l’ex analista della National Security Agency che con le sue rivelazioni scoperchiò nel 2013 i sistemi di sorveglianza elettronica di massa attuati dall’intelligence Usa sia all’interno che all’estero. “Questa vulnerabilità è stata sfruttata dal nostro governo per arrogarsi il diritto di espandere radicalmente i poteri che per decenni erano stati fuori dalla sua portata”. Vista in prospettiva, riflette Snowden, l’esplosione dello spionaggio interno post 11 settembre sarebbe anche stata prevedibile. “Avremmo dovuto sapere cosa stava per succedere e guardando oggi le dichiarazioni e i documenti pubblici, penso che molti di noi lo sapessero, a livello intellettuale. Ma le élite politiche e i media hanno continuato a ripetere senza sosta che la scelta era ovvia: una garanzia di vita o la certezza della morte”.
La guerra all’America
Osama bin Laden aveva dichiarato guerra all’America il 23 agosto del 1996. Porta quella data la fatwa “Dichiarazione di guerra contro gli americani che occupano la terra dei due luoghi santi”, pubblicata su un giornale in lingua araba a Londra e diffusa via fax a sostenitori in tutto il mondo. Si tratta di un condensato di accuse agli Usa, a Israele e agli alleati per “le aggressioni, ingiustizie, iniquità” sofferte nei decenni dalle popolazioni islamiche per colpa della “alleanza giudaico-cristiana”. Giovane istruito e di ricca famiglia saudita, bin Laden aveva combattuto in Afghanistan con i mujaheddin contro gli occupanti sovietici negli anni Ottanta. Finita la guerra, era tornato in Arabia Saudita e poi in Sudan, da cui era stato espulso, per poi rientrare in Afghanistan dove era rimasto a vivere sotto la protezione dei Taliban. Nel suo appello a liberarsi di quelli che considerava occupanti in Arabia Saudita, cioè gli americani basati nel regno, bin Laden auspicava un salto di qualità militare negli attacchi alle forze americane in varie parti del mondo. E tra il 1996 e il 2001 si susseguirono una serie di micro attacchi, fino al primo vero attentato su grande scala: le bombe dell'agosto 1998 alle ambasciate in Kenya e Tanzania, in cui morirono 224 persone, 12 delle quali cittadini Usa. La prima reazione Usa fu la condanna legale di bin Laden e attacchi missilistici sul Sudan e l'Afghanistan. Nel 2000 un attacco kamikaze colpì l'incrociatore portamissili USS Cole nel porto yemenita di Aden, uccidendo 17 persone. L'anno successivo la guerra arrivava nel cuore dell'America.
I segnali ignorati
Esistono molte ricostruzioni del pre 11 settembre che indicano in modo quasi univoco - “quasi soffocante” dice Lozada - la trascuratezza e superficialità con cui le minacce di al Qaeda erano state affrontate dall’intelligence americana negli anni precedenti. Anche il rapporto della Commissione del Congresso, pubblicato nel 2004, punta il dito sul colossale fallimento della prevenzione: “Gli autori del complotto avevano risorse ed erano flessibili, dunque non possiamo sapere se alcuni passi avrebbero potuto fermarli - si legge nella relazione finale - Ma quel che sappiamo con certezza è che nessuna delle misure adottate dal governo Usa dal 1998 al 2001 ha disturbato o neanche rallentato i progressi del complotto di al Qaeda. In tutti gli ambienti di governo c’è stata una carenza di immaginazione, politiche, mezzi e management”.
La guerra (permanente) dell’America
All’inadeguatezza della prevenzione ha fatto da specchio l’inevitabilità quasi fatalista della risposta militare, e la sua prosecuzione nei decenni con declinazioni diverse - dalle torture di Abu Ghraib alla “guerra umanitaria” di Barack Obama - che hanno avuto l’effetto di precipitare per 20 anni gli Stati Uniti in uno stato di mobilitazione bellica permanente, con ripercussioni pesanti sulla stabilità del tessuto interno.
Il cambio di passo, e di paradigma, imposto da Obama sta nel passaggio di definizione dello sforzo bellico da “guerra al terrore” a “guerra umanitaria”. Dando una cornice legale alle “uccisioni mirate”, perpetrate grazie a un uso massiccio di droni e a grandi investimenti negli apparati di sorveglianza, Obama ha di fatto creato, dicono oggi gli storici, un template per la guerra senza confini e senza limiti di tempo. “L’idea stessa di una guerra più umana sembra una contraddizione in termini - osserva lo storico di Yale Samuel Moyn sul Guardian - I conflitti degli Stati Uniti all’estero rimangono brutali e mortali, ma a spaventare non è solo la violenza che infliggono. Questo nuovo tipo di guerra americana sta rendendo sempre più chiaro che il volto più profondo della guerra non è la morte, ma il controllo attraverso il dominio e la sorveglianza”.
Al termine del suo discorso di accettazione del discusso premio Nobel per la pace, nel 2009, Obama rivendicò la paternità del concetto di guerra legittima perché inquadrata in standard di giustizia condivisi: “Sono convinto che l’adesione agli standard internazionali rafforza chi la adotta e isola e indebolisce chi la rifiuta. Credo che gli Stati Uniti d’America debbano continuare a essere i paladini degli standard nella conduzione della guerra”.
Lo stesso Obama sembra però rimanere vittima di una narrazione che è diventata difficile da controllare. Come spiegava un anno fa sull’Atlantic Ben Rhodes, ex vice consigliere della sicurezza nazionale dell’ex presidente democratico, “è molto più difficile fermare le guerre che intensificarle”. Obama stesso, nella lettura del suo consigliere, venne risucchiato da una logica che contraddiceva proprio la natura della sua prima candidatura: “Senza l’11 settembre, che mise in moto la catena di eventi che portò alla guerra in Iraq, Obama non sarebbe diventato il 44esimo presidente degli Stati Uniti. La sua opposizione all’invasione e l’impegno a far finire la guerra erano stati al cuore del contrasto con Hillary Clinton durante le primarie democratiche. Durante il primo anno di presidenza una reazione di forze preponderanti - quasi gravitazionali - continuò a risucchiare il giovane presidente sempre più giù nell’enorme sequenza di conflitti post 11 settembre (...) Per quanto allora l’escalation potesse sembrare inevitabile, i costi appaiono oggi più alti dei guadagni”.
America First
Con Donald Trump la retorica della “fine dell’era 11 settembre” appare ancor più stridente se confrontata con i fatti: budget di difesa astronomici (112 miliardi di dollari in più nell’ultimo anno di presidenza rispetto al primo), incremento nell’uso dei droni, aumento delle truppe in Afghanistan, un “rilassamento delle regole d’ingaggio tese a limitare le vittime civili in Afghanistan e contro l’Isis. Gli sforzi di Obama di formulare una politica estera post-11 settembre - nota Rhodes - vengono smantellati. Al loro posto arriva una costellazione di politiche radunate sotto il marchio ‘America first’ - un misto di pratiche restrittive sull’immigrazione, spregio per gli alleati e le istituzioni internazionali, guerra commerciale con la Cina”. E una “fissazione” per l’Iran come priorità assoluta.
La retorica del paese che deve tornare a vincere - We don’t have victories anymore, “Non abbiamo più vittorie”, rimarcò Trump nel discorso di candidatura del 2015 - era diretta non più e non solo al nemico esterno, ai terroristi nascosti nelle caverne dell’Afghanistan. Il concetto di “nemico” diventava moneta fungibile di repressione e propaganda: “Gli attacchi ai musulmani, agli immigrati che cercavano di entrare dal confine sud, ai manifestanti che protestavano contro le ingiustizie razziali erano rafforzati dalla natura completamente indefinita della guerra al terrore”, scrive Lozada parlando del libro di Spencer Ackerman Reign of Terror. “La guerra non è solo lontana, in Iraq o in Afghanistan, in Yemen o in Siria, ma avviene qui con la sorveglianza di massa, la polizia militarizzata e la ridefinizione dell’immigrazione, che diventa una minaccia alla sicurezza della nazione piuttosto che una pietra miliare della sua identità”. Trump ha imparato la lezione più importante dell’11 settembre”, scrive Ackerman: “I terroristi sono chiunque tu decida che siano”.
Trump rimane in tutto e per tutto un presidente dell’era 11 settembre: secondo Rhodes “non avrebbe potuto diventare presidente senza l’architettura dei media di destra, soprattutto Fox News, che hanno prosperato dopo gli attacchi. Con Trump i sentimenti di rabbia, lutto, nazionalismo, paura e razzismo allo stato puro sono stati coltivati per ottenere sostegno politico”.
Nemici di se stessi
Il ventesimo anniversario dell’11 settembre è un momento di bilancio anche per i nemici di allora. È vero che il terrorismo non è più quello del 2001, il presidente Joe Biden lo ha spiegato bene nel discorso in cui ha squadernato i motivi del ritiro delle truppe Usa dall’Afghanistan e anche esposto con grande lucidità e coraggio una vera e propria nuova dottrina per la presenza americana nel mondo, non più di natura bellica ma basata sulla diplomazia, le alleanze, la politica, e l’affinamento dei sistemi di intelligence e di cybersicurezza.
Un segnale di trasparenza che si accompagna all’annuncio dell’ordine esecutivo, a una settimana dall’anniversario, con cui il governo desecreterà nel giro di sei mesi gli atti sulle indagini sugli attentati, un passo importante soprattutto per gli squarci che potrebbe aprire sul ruolo dell’Arabia Saudita nel finanziamento e copertura del piano di bin Laden. Non a caso sia Bush che Obama, che Trump (quest’ultimo con un voltafaccia dell’ultimo minuto) si erano sempre rifiutati di rendere noti i dettagli dell’indagine dell’FBI Operation Encore, nonostante le richieste delle famiglie delle vittime, portando a giustificazione i rischi per la sicurezza nazionale. L’indagine aveva approfondito la possibile complicità dei sauditi, contatti specifici tra le autorità di Riad e gli attentatori dell’11 settembre che vivevano in California nei mesi precedenti agli attacchi. L’Arabia Saudita ha sempre negato ogni addebito.
Ma proprio la coincidenza tra il ritiro dall’Afghanistan - e le polemiche che l’hanno accompagnato - e la scadenza simbolica di un ventennio segnato dal terrore offrono ampio margine alla propaganda delle organizzazioni terroristiche tuttora attive. L’intelligence Usa si aspetta un bombardamento di messaggi commemorativi, a metà tra la minaccia e il proselitismo. Paradossalmente è stata proprio l’America lacerata e violenta degli ultimi anni a dare l’assist definitivo a quel che resta di al Qaeda. A luglio, l’organizzazione terroristica ha diffuso un video di 14 minuti dal titolo America Burns, “L’America brucia”: un montaggio di clip che intervallano la pandemia da SARS-CoV-2, l’economia in stallo, le profonde divisioni interne. Il video, dicono gli analisti, suggerisce che gli attacchi del 6 gennaio 2021 al Campidoglio, aizzati dal presidente Trump che contestava i risultati delle elezioni, hanno avuto un impatto ancora maggiore del “quarto aeroplano” che “non colpì il suo bersaglio”. Il riferimento è al volo United 93 che forse era diretto alla Casa Bianca ma si schiantò nelle campagne della Pennsylvania. Nei verbali della Commissione sull’11 settembre l’episodio è descritto così: dopo il dirottamento i passeggeri avevano acceso i telefoni e parlato con i parenti che gli avevano raccontato degli altri dirottamenti. “Secondo una delle telefonate, i passeggeri votarono sull’ipotesi di attaccare i terroristi per riconquistare l’aereo”. Un voto, nel mezzo del caos e della paura: l’atto più ancestrale della democrazia, quella che i terroristi hanno cercato di spezzare.
Immagine in anteprima: TheMachineStops (Robert J. Fisch) derivative work: upstateNYer, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons