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Attacco di Hamas a Israele: è solo l’inizio di qualcosa di inedito che va al di là della dimensione interna israeliana e palestinese

8 Ottobre 2023 6 min lettura

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Attacco di Hamas a Israele: è solo l’inizio di qualcosa di inedito che va al di là della dimensione interna israeliana e palestinese

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No. Le proporzioni sono diverse. Il parallelo tra la debacle dello Yom Kippur, 6 ottobre 1973, e il fallimento dell’intelligence e dell’esercito israeliano cinquant’anni e un giorno dopo, il 7 ottobre 2023, è incongruo. Una guerra contro gli Stati arabi, la guerra dello Yom Kippur, il punto di svolta dei rapporti tra Egitto e Israele, non si può paragonare a ciò che è successo quando le brigate armate di Hamas e Jihad islamico hanno condotto la più sanguinosa e imprevedibile incursione da Gaza verso Israele, penetrando fino a trenta chilometri nel territorio  lungo il confine. 

No, ieri non è stata una tragica riedizione dello Yom Kippur di mezzo secolo fa. Anche perché è passato mezzo secolo, con tutto ciò che ha significato e significa questo tempo nella questione israelo-palestinese. Eppure, la componente simbolica – e dunque anche evocativa – è fortissima, in molti dicono già incisa nel pensare collettivo.

Il 7 ottobre 2023 è, però, una cesura nella storia interna di entrambi, di israeliani e palestinesi. Un punto di svolta, anche per il carattere simbolico. Non è la prima volta che le fazioni armate della Striscia preparano e attuano incursioni al di là del muro (o delle recinzioni metalliche) che separano Gaza e Israele. Un fatto raro, ma è  successo. Incursioni veloci, compiute dopo aver scavato tunnel sotto le recinzioni, per poi rientrare velocemente dentro la Striscia. In molti se ne ricorderanno, quando proprio le Brigate Ezzedin al Qassam compirono il 25 giugno 2006 una incursione all’altezza di Kerem Shalom, uccisero due soldati israeliani e ne rapirono un terzo, Gilad Shalit, tenuto prigioniero dentro Gaza per cinque anni. Sino a che proprio Benjamin Netanyahu (premier anche allora) non negoziò e raggiunse un accordo per lo scambio di prigionieri, 1027 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in cambio della liberazione di Shalit. 

Ora è successo qualcosa di inedito, qualcosa dai contorni ancora confusi. Un numero imprecisato di miliziani di Hamas e Jihad islamico ha rotto una recinzione complessa e sotto controllo dell’esercito israeliano. I video messi su internet da Hamas mostrano bulldozer, la recinzione divelta, i miliziani che entrano in moto o a piedi. Tanti. I video ne mostrano altri in parapendio, e proprio i parapendii sono divenuti nel giro di pochissime ore un simbolo grafico riprodotto e diffuso ovunque nel web palestinese, arabo, globale. E poi? E poi è successo l’impensabile: quella che il comandante delle brigate al Qassam, Mohammed Deif, ha definito l’operazione Alluvione di al-Aqsa, ha raggiunto i paesi israeliani lungo il confine, i kibbutz, le cittadine come Sderot e Ofakim, mostrando un vulnus, un vero e proprio vuoto nella sicurezza israeliana, per ore, per una intera giornata. Un fallimento.

Ed è stata strage. Strage di civili. 

I numeri sono impressionanti, e in crescita. Nel momento in cui scriviamo si parla di trecento israeliani uccisi, di oltre 1.600 feriti. E di un numero imprecisato di rapiti, civili e militari, portati dentro Gaza. Forse decine di rapiti. 

La reazione israeliana, indicata dal premier Netanyahu in una dichiarazione pubblica e trasmessa in tv, parla di guerra. I bombardamenti su Gaza, meno di 400 km quadrati in cui vivono oltre due milioni di persone che non possono scappare da nessuna parte, sono iniziati. Di nuovo, come già successo nel 2021, i caccia hanno sganciato bombe sui palazzi di Gaza dal potenziale esplosivo impressionante, come dimostrano i video della distruzione della Palestine Tower a Gaza City. Quattrocento sinora gli ‘obiettivi di Hamas’ colpiti, dicono le autorità militari israeliane.

Ed è strage. Strage di civili.

Stavolta il bilancio delle vittime del 7 ottobre 2023 va fatto mettendo insieme i morti e i feriti di entrambe le comunità, colpite in modo così profondo, e tragicamente paritario, nella loro parte invisibile, la parte più nascosta nel racconto. I civili. Nelle prime 18 ore, dalle 6 ora locale alla mezzanotte, erano state uccise già quasi 600 persone, in massima parte civili. E oltre tremila persone erano state ferite. Metà nelle incursioni dei miliziani di Hamas e Jihad Islamico nei paesi attorno al confine. Metà nei bombardamenti israeliani su Gaza.

E non è finita. È ahimè solo l’inizio di qualcosa di inedito, di preoccupante, di estremamente volatile che coinvolge sia la dimensione interna israeliana e palestinese, sia gli equilibri regionali. Dal punto di vista interno a Israele e Palestina, qualcosa è già successo. Ieri, sabato, è stata per la prima volta annullata la grande manifestazione di protesta contro il governo di destra presieduto da Netanyahu che ha segnato per 40 settimane la vita di Tel Aviv e di decine di cittadine israeliane. Per la prima volta da nove mesi, centinaia di migliaia di persone non si sono riunite contro il governo e il suo tentativo di cambiare i connotati delle istituzioni, della corte suprema, del potere legislativo. 

Non è però da sottovalutare neanche l’impatto che l’Alluvione di al-Aqsa ha sulla politica palestinese. Anzitutto per quello che è successo ieri alle 6 di mattina: Hamas ha rotto la recinzione, è entrata in Israele. Immediata la reazione dell’agorà virtuale palestinese e araba, sul tenore di: “Aperta la prigione di Gaza”. Il messaggio è chiaro, all’interno del panorama palestinese: Hamas non può essere confinata dentro Gaza, e ciò che succede da mesi (da anni) in Cisgiordania e a Gerusalemme riguarda tutti, compreso Hamas e Jihad Islamico. La ‘grande illusione’ che aveva colpito molti, tra israeliani e diplomazia internazionale, che fosse cioè possibile ragionare dello status quo in Israele/Palestina escludendo Gaza, è crollato come il confine che blocca la Striscia.

Il secondo messaggio è indirizzato a quei paesi che, nella regione, sono tra gli attori di un tentativo di ricomposizione degli equilibri. Compreso l’Iran. Nessuno ha infatti dimenticato nella regione la riapertura delle relazioni tra i due grandi nemici, Iran e Arabia Saudita, benedetta qualche mese fa dalla Cina. E Hamas si è forse sentito schiacciato da una politica regionale che potrebbe essere incline a sacrificare Gaza. Ma il messaggio lanciato è in primis all’Arabia Saudita di Mohammed Bin Salman, in queste ultime settimane alle prese con una normalizzazione con Israele da manovrare con delicatezza estrema. Nelle dichiarazioni e nelle interpretazioni di queste ultime settimane, è emerso che Riyadh è disposta a cedere molto, riguardo alle richieste politiche dei palestinesi, impegnandosi semmai dal punto di vista del sostegno economico. Aiuti economici sì, ma uno spostamento evidente dal punto di vista politico. Il 7 ottobre 2023 ha già imposto uno slittamento nello stesso uso delle parole, da parte dei sauditi. Ne è riprova la dichiarazione emessa ieri, in cui Riyadh chiede di fermare l’escalation e, soprattutto, ricorda di aver “ripetutamente avvertito delle conseguenze del [deterioramento] della situazione come risultato dell'occupazione” israeliana dei territori palestinesi, “nonché della privazione del popolo palestinese dei suoi diritti legittimi e della [mancata cessazione] delle provocazioni sistematiche contro i suoi [luoghi] santi”.

Gerusalemme torna sulla scena. A dire il vero non è mai stata espunta dalla scena. L’estrema destra israeliana, quella rappresentata da due dei pilastri del governo Netanyahu, Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, ha imposto una tensione a Gerusalemme sempre più alta, in particolare sulla Spianata delle Moschee, dove è quotidiano l’ingresso di centinaia di estremisti israeliani scortati dalla polizia e dalla guardia di frontiera, con conseguente militarizzazione di un luogo santo, il terzo luogo santo per l’islam globale. Di questo si dice pochissimo, praticamente nulla sui giornali italiani. Eppure saperlo servirebbe a comprendere quello che sta succedendo e che succederà. 

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Per i palestinesi, e dunque anche per Hamas, Gerusalemme è la linea rossa da non valicare. Persino per chi è a una sessantina di chilometri a sud di Gerusalemme, dentro Gaza. Il simbolo dell’unità palestinese, il cuore dell’islam palestinese è, per Hamas e non solo, anche lo strumento iconico per essere dentro la politica palestinese, e non ai suoi margini.

*A novembre esce per Seven Stories Press (New York) "Hamas. From Resistance to Regime", l’aggiornamento di Paola Caridi della sua ricerca storico-politica su Hamas. La prima edizione è uscita in italiano per Feltrinelli, nel 2009.

(Immagine in anteprima: frame video Guardian via YouTube)

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