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Il primo Atlante sui femminicidi in Italia: un contributo per sradicare la cultura sessista e la violenza di genere

13 Dicembre 2022 9 min lettura

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Il primo Atlante sui femminicidi in Italia: un contributo per sradicare la cultura sessista e la violenza di genere

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Primo febbraio 2021: Sonia Di Maggio, 29 anni, viene accoltellata dall’ex partner mentre si trova per strada col nuovo compagno a Specchia Gallone, 40 chilometri a sud di Lecce. 22 febbraio 2021: Deborah Saltori, 42 anni, viene uccisa a Cortesano, in provincia di Trento, aggredita con un’accetta dall’ex marito, che poi tenta il suicidio. 24 dicembre 2021: Emanuela Rompietti viene colpita con un colpo di pistola dal marito nella loro villetta ad Amelia, in Umbria. Ha 80 anni ed è malata di Alzheimer.

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Sono alcune delle storie contenute nell’Atlante dei femminicidi in Italia, la prima piattaforma che, su base cartografica, mette insieme i dati sui femminicidi, per facilitare la loro analisi e l’elaborazione di strategie di prevenzione. Il progetto è stato realizzato dalla Casa delle donne per non subire violenza di Bologna insieme allo studio di grafica cartografica Atlantis, con il finanziamento della regione Emilia-Romagna e del Comune di Bologna: sulla piattaforma è possibile esplorare una mappa interattiva, costruita a partire dai casi di cronaca apparsi sulla stampa e censiti dall’associazione. Nel 2021 il numero complessivo di femminicidi rilevati è stato di 106, dato in leggero aumento rispetto agli anni precedenti: erano 96 nel 2019 e 102 nel 2020. “Certamente il numero è sottostimato, perché alcuni casi sfuggono alla cronaca”, spiega Anna Pramstrahler della Casa delle donne per non subire violenza. “Il sommerso colpisce in particolare le donne più fragili, come le migranti, le trans, le sex workers, le vittime di tratta e sfruttamento, le donne anziane o malate”.

Da ottobre 2021, un gruppo di ricerca della Casa delle donne ha iniziato a mettere insieme la banca dati da cui poi è stato sviluppato l’Atlante, che permette di geolocalizzare i femminicidi e di categorizzarli in base a diversi parametri: la relazione con l’assassino, le violenze pregresse, le denunce presentate, l’età e la provenienza di vittima e aggressore, oltre che la causa scatenante. “Ma in realtà il vero e più profondo movente è sempre lo stesso: la condizione stessa di essere donna, e la volontà di possesso da parte dell’uomo”, spiega Margherita Apone, che ha fatto parte del gruppo di ricerca della Casa delle donne. 

L’87% dei femminicidi censiti è stato commesso da un familiare e nella metà dei casi si è trattato del partner. Quasi la metà delle vittime aveva più di 60 anni, con un considerevole aumento di questa fascia d’età rispetto agli anni precedenti. Almeno il 44% degli assassini aveva in precedenza agito violenza fisica contro le donne e il 12% era già stato denunciato. La maggioranza dei casi è avvenuta nel nord Italia, e tre donne su quattro erano italiane. Oltre alla mappa, in alcune schede di approfondimento sono presentati altri dati da fonti nazionali e internazionali: è possibile consultare grafici, articoli di giornale, bibliografia e sitografia, e i report della Casa delle donne dal 2006 a oggi.

Oltre ai numeri, l’Atlante è composto da una galleria di nomi, volti, storie. Partecipando a una call for artists, cento illustratori hanno collaborato al progetto realizzando i ritratti delle vittime di femminicidio, donando le loro opere a titolo gratuito. “In brevi schede narrative abbiamo cercato di raccontare la vicenda di ogni donna nel modo più rispettoso possibile”, afferma Margherita Apone. “Per questo abbiamo dedicato grande attenzione al linguaggio, evitando sensazionalismi, esagerazioni, supposizioni e pietismi. Abbiamo provato a raccontare queste storie nel modo più asciutto possibile, attenendoci ai fatti”.

Nell’ordinamento italiano manca una prospettiva di genere

Fino a nemmeno quarant’anni fa, il nostro ordinamento prevedeva il “delitto d’onore”, ovvero la concessione di forti sconti di pena per coloro che uccidevano il proprio coniuge giustificando la propria azione con la necessità di tutelare o restaurare il proprio buon nome. Per il Codice penale italiano del 1930, infatti, i reati di violenza sessuale e incesto erano rispettivamente parte dei “delitti contro la moralità pubblica e il buon costume” e dei “delitti contro la morale familiare”: la violenza sessuale non era vista allora come un reato che offendeva la persona, ma come un atto che ledeva una generica moralità pubblica, affermando implicitamente che la donna non era libera di disporre di alcuna libertà nel campo sessuale. 

Elaborato e promulgato durante il regime fascista, il Codice penale è tuttora in vigore, sia pure dopo aver attraversato importanti modifiche: “Tuttora nel Codice non esiste una norma che definisca chiaramente cos’è la violenza contro le donne”, afferma Paola Di Nicola Travaglini, magistrata della Corte di Cassazione, già consulente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio. “Dal punto di vista normativo, comunque, gli strumenti per contrastare la violenza di genere ci sarebbero: l’Italia ha sviluppato una grande attenzione sul tema, promulgando leggi e regolamenti. Parallelamente, però, siamo ancora tra i paesi più arretrati nell’applicarli: a differenza di altri paesi, quando avviene un delitto, la nostra magistratura non esamina il contesto a partire da una prospettiva di genere. Questo perché le discriminazioni sono spesso considerate ‘normali’: è normale che una donna rinunci alla propria vita professionale, è normale che non gestisca le finanze della famiglia, è normale che si occupi da sola della cura dei figli e dei genitori anziani”.

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Anche la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha più volte condannato l’Italia per non aver tutelato adeguatamente in tribunale i diritti delle donne. Nella sentenza Talpis c. Italia del 2017, il nostro paese è stata condannato per aver violato l’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che tutela il diritto alla vita, e l’articolo 3, che vieta i trattamenti inumani e degradanti. Nel caso specifico, le autorità italiane non erano intervenute per proteggere una donna e i suoi figli dal marito violento, nonostante le ripetute denunce: alla fine, l’uomo aveva tentato di uccidere la moglie ed era riuscito a uccidere il figlio. La Corte ha stabilito che, soprattutto nelle cause in materia di violenza domestica, i diritti dell’aggressore non possano prevalere sui diritti alla vita e alla integrità fisica e psichica delle vittime. 

Nel 2021 un’altra sentenza, la J. L. c. Italia, si è pronunciata sul delicato problema della vittimizzazione secondaria. L’Italia questa volta è stata condannata per aver violato l’articolo 8 della Cedu, che garantisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Il caso riguardava una donna che aveva denunciato di essere stata violentata da sette uomini: secondo la Corte di Strasburgo il tribunale italiano, che ha definitivamente assolto tutti gli imputati, ha utilizzato un “linguaggio colpevolizzante e moraleggiante, che scoraggia la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario” per la “vittimizzazione secondaria cui le espone”.

Anche il Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria, redatto nel 2021 dalla Commissione d’inchiesta sul femminicidio del Senato, ha rilevato nel nostro sistema giudiziario “una sottovalutazione dei fenomeni di violenza di genere e domestica, che non viene ‘letta’ correttamente. […] Vi è ancora molto da fare perché si possa ritenere che il nostro sistema paese sia davvero democratico in quanto garantisce alle donne di essere libere da ogni forma di violenza”. 

“L’unico rimedio è la formazione culturale, non solo degli operatori del settore come magistrati, professionisti sanitari e insegnanti, ma di tutti i cittadini”, commenta Anna Pramstrahler. “L’Atlante è stato pensato proprio con questo obiettivo: vorremmo sensibilizzare la popolazione per far capire cos’è la violenza contro le donne, in modo che aumenti la consapevolezza sul fenomeno a 360 gradi”.

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“Femminicidio”, un termine dalla definizione non semplice

Il concetto di “femicidio” viene introdotto per la prima volta in ambito anglosassone nel 1976 dalla studiosa femminista Diana Russell, che con il termine femicide identifica la morte di una donna derivante da atteggiamenti e pratiche sociali misogine che si innescano quando la donna trasgredisce al ruolo tradizionale che le viene imposto da una società patriarcale. Il termine “femminicidio”, dallo spagnolo feminicidio, si afferma invece negli anni Novanta a partire dagli studi dell’antropologa messicana Marcela Lagarde, che utilizza questa parola per indicare tutte le forme estreme e strutturali di violenza contro le donne, estendendo quindi il concetto oltre la semplice uccisione. Lagarde inoltre pone l’accento su un nodo centrale del fenomeno, cioè quello di manifestarsi all’interno di un contesto sociale e politico con un alto livello di tolleranza culturale verso chi commette questi crimini.

In Italia, a quel tempo si parlava poco di femminicidio, e anche il termine veniva contestato come impreciso e frutto di una visione parziale e “femminista” della realtà. Dal 2005, Casa delle donne ha aperto la riflessione sul tema attraverso il blog Femicidio, dove ha iniziato a raccogliere dati censendo ogni anno i femminicidi sulla base delle notizie pubblicate su siti e giornali: in tutto, l’elenco completo conta oggi 1.929 donne uccise. 

Nel nostro paese, qualcosa inizia a cambiare a partire dal 2007 con la Relazione del Parlamento europeo sui femminicidi in America centrale e in Messico, che cita il termine femminicidio sulla base della definizione giuridica della violenza contro le donne stabilita dalla Convenzione di Belém do Pará, testo normativo sopranazionale per la tutela del diritto delle donne a non subire violenza. All’articolo 1, la Convenzione stabilisce che “per violenza contro la donna si intende qualsiasi atto o comportamento basato sul genere che causi morte, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche alla donna, sia nell’ambito pubblico che in quello privato”.

“Da allora tanta strada è stata fatta, e oggi il termine ‘femminicidio’ è molto più utilizzato e accettato”, spiega Anna Pramstrahler. “Eppure, in Italia ancora non è stata trovata una definizione univoca: per un’istituzione, definire una donna uccisa in quanto donna è molto complesso, comporta riflessione e posizionamento. Per questo ancora non è stato fatto”. 

I dati come strumento di conoscenza e contrasto del fenomeno

Il problema della definizione comporta anche una difficoltà di raccogliere dati univoci: finché non si stabilirà cosa è femminicidio e cosa non lo è, sarà difficile realizzare statistiche condivise. Oggi le banche dati dell’Istat o del Ministero dell’interno non danno accesso a open data, pubblicando solo dati aggregati, che spesso non combaciano. “Per prevenire e contrastare la violenza sulle donne, c’è innanzitutto bisogno di conoscere il fenomeno: per farlo bisogna partire dai dati”, spiega Anna Pramstrahler. “È solo così che si potranno elaborare strategie di prevenzione veramente efficaci”. Per questo anche il gruppo Non una di meno ha aperto un suo Osservatorio nazionale dei femminicidi, lesbicidi e trans*cidi (FLT), che l’8 di ogni mese aggiorna i dati. L’archivio parte dal 2020 e mette insieme documenti, grafici, approfondimenti e riflessioni.

A parlare dell’importanza di raccogliere dati affidabili è anche la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, redatta dal Consiglio d’Europa nel 2011: all’articolo 11, il testo sottolinea la necessità di “raccogliere a intervalli regolari i dati statistici disaggregati pertinenti su questioni relative a qualsiasi forma di violenza sulle donne”. L’articolo 10 sollecita inoltre le istituzioni a istituire “uno o più organismi ufficiali responsabili del coordinamento, dell’attuazione, del monitoraggio e della valutazione delle politiche e delle misure destinate a prevenire e contrastare ogni forma di violenza”. 

Ma in Italia manca ancora un vero e proprio osservatorio nazionale sul femminicidio, come invece esiste in altri paesi tra cui il Canada, la Spagna, il Regno Unito e la Francia. “Vorremmo che i nostri politici potessero prendere spunto, per proporre anche in Italia la nascita di un vero e proprio osservatorio nazionale”, conclude Pramstrahler. “Considerando che negli ultimi anni gli omicidi maschili sono in costante diminuzione, mentre la percentuale di donne uccise rimane pressoché invariata, appare evidente la dimensione sistemica che il femminicidio assume anche nel nostro paese: per questo dobbiamo lavorare duramente per sradicare la cultura sessista e la violenza di genere che ne è alla base”.

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Aggiornamento 14 dicembre 2022: Abbiamo aggiornato l'articolo inserendo il riferimento all'Osservatorio nazionale dei femminicidi, lesbicidi e trans*cidi (FLT), a cura di Non Una di Meno, che l’8 di ogni mese aggiorna i dati. L’archivio parte dal 2020 e mette insieme documenti, grafici, approfondimenti e riflessioni.

Immagine in anteprima via iodonna.it

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