La crisi della cura dell’infanzia e gli asili nido che non ci sono
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Con la fine di febbraio si è chiuso il bando per l'assegnazione dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) destinati al potenziamento dei servizi per la prima infanzia. Dei circa 3 miliardi di euro in ballo 2,4 riguardavano, in particolare, la costruzione di nuovi asili nido. Era compito dei singoli Comuni elaborare i progetti che, una volta presentati al Governo, avrebbero attivato l'erogazione dei fondi, ma il 28 febbraio – ultimo giorno utile per la presentazione della domanda – il valore dei progetti recapitati ammontava ad appena 1,2 miliardi di euro, la metà delle risorse disponibili. Il Ministero dell'Istruzione ha quindi deciso di riaprire i termini del bando, prorogandone la scadenza al 31 marzo 2022. È interessante notare, però, come non solo una partecipazione così scarsa abbia riguardato esclusivamente i servizi di cura dei più piccoli – e non, per esempio, i fondi destinati alla costruzione di mense o palestre – ma, paradossalmente, il dato peggiore provenga proprio dalle aree del paese che ne avrebbero più bisogno.
Per tentare di colmare le disuguaglianze territoriali e favorire una distribuzione più omogenea dei servizi, il piano prevedeva che ogni regione avesse a disposizione somme diverse, con oltre il 55% delle risorse totali destinate al Sud. Dei quasi 300 milioni di euro stanziati per la Sicilia, tuttavia, il valore delle richieste totali non ha superato i 71 e un dato simile ha riguardato anche Campania – con progetti da 119 milioni su 328 disponibili – e Calabria. Si tratta delle Regioni in cui il numero di bambini e bambine che frequentano un asilo nido raggiunge i livelli più bassi – rispettivamente il 5,5%, il 3,2% e il 2,2% degli appartenenti alla fascia 0-3 anni. Al termine del periodo di proroga del bando le candidature presentate hanno poi registrato un aumento del 76% a livello nazionale, con Campania e Calabria tra le Regioni che, nell’ultimo mese, hanno presentato più richieste. Per Basilicata, Molise e Sicilia, le cui candidature sono invece rimaste ben al di sotto della soglia disponibile, il Governo ha previsto un ulteriore dilatazione dei tempi, fissando la nuova scadenza al 31 maggio. È evidente, tuttavia, che le difficoltà di queste Regioni sono ben più profonde e radicate rispetto a quello che potrebbe apparire come semplice disinteresse o come il prodotto di campagne di comunicazione inefficaci.
Nel centro-nord la situazione appare meno drammatica ma, nella maggior parte dei Comuni, la capacità di accoglienza dei servizi educativi per la prima infanzia rimane comunque inferiore alla soglia obbligatoria dei Livelli essenziali di prestazione (LEP), fissata al 33%. Neppure il lieve aumento dei posti disponibili riscontrato negli ultimi anni può considerarsi incoraggiante: secondo l'Istat, infatti, si tratterebbe più di una conseguenza del calo delle nascite che di un reale incremento dell'offerta. A causa della rimodulazione degli spazi imposta dalla pandemia, inoltre, negli ultimi due anni la capacità di molte strutture è ulteriormente diminuita – con il conseguente aumento del numero di richiedenti rimasti esclusi dalle graduatorie – mentre i costi delle strutture private hanno raggiunto livelli proibitivi, con picchi di 620 euro al mese. Così, nella stragrande maggioranza delle famiglie italiane, a prendersi cura di bambini e bambine nei loro primi anni di vita sono i genitori – quasi sempre le madri –, i nonni – sempre che abitino vicino e siano fisicamente ed emotivamente disposti a farlo – o, nei casi più privilegiati, un servizio di baby-sitting.
I Comuni presentano pochi progetti in parte perché temono di non riuscire a provvedere ai costi di funzionamento delle eventuali nuove strutture: nonostante il Governo abbia garantito l'erogazione di una quota annuale da dedicare alle spese di gestione dei nuovi asili, infatti, la distribuzione dei fondi rimane problematica. Come spiegano Andrea Bernardoni, responsabile dell’area ricerche presso Legacoopsociali Nazionale e Carlo Borzaga, professore di politica economica presso l’Università di Trento, in molti casi “gli spazi per ospitare nuovi asili nido già ci sono, possono essere recuperati immobili pubblici o privati inutilizzati. [...] Sarebbe necessario, quindi, non tanto investire nella costruzione fisica di nuovi asili, ma destinare adeguate risorse pubbliche per finanziare la gestione corrente dei nidi”.
A questo si aggiunge la carenza, in molti Comuni, delle risorse umane necessarie per l'elaborazione dei progetti e la gestione della burocrazia. Negli ultimi anni, d'altronde, a provvedere alla gestione delle strutture educative per l'infanzia sono stati soprattutto il terzo settore – enti privati che il PNRR non prende nemmeno in considerazione – e mondo cattolico, in un processo che ha progressivamente ridimensionato il ruolo del settore pubblico in materia di cura collettiva. Nel complesso, il bando non tiene conto delle difficoltà specifiche delle singole aree del paese e, limitandosi ad aumentare i soldi a disposizione del Sud senza prestare attenzione alle effettive necessità di queste Regioni, rischia di ampliare i divari territoriali anziché colmarli e, non ultimo, di sprecare oltre un miliardo di euro dei fondi europei.
Le difficoltà organizzative alla base delle poche richieste di finanziamento sono innegabili; è altrettanto vero, però, che il sostegno delle famiglie tramite il potenziamento dei servizi per l'infanzia continua a non essere considerato una priorità. Nell'opinione comune – compresa quella della classe politica – a prendersi cura dei figli devono essere le madri, anche a costo di sacrificare le proprie ambizioni lavorative o, in alcuni casi, il proprio benessere mentale. Negli ultimi anni, si legge in un rapporto di ActionAid, a fronte del crollo della natalità e della disoccupazione femminile crescente, invece di correggere i difetti di un sistema ancora oggi fondato sul lavoro domestico femminile non retribuito, si è preferito optare per soluzioni a breve termine, come assegni familiari e “bonus bebè” – strumenti non solo temporalmente limitati ma che, spesso, vengono calcolati in modo da escludere buona parte delle famiglie a rischio di povertà, privilegiando quelle di fascia media e contribuendo, di nuovo, al mantenimento delle disuguaglianze.
Secondo l'Istat, in Italia, nel 2020 il numero medio di figli per donna era pari a 1,24 – il più basso dal 2003, in calo in quasi tutte le Regioni – e il 2021 sembra non aver invertito la tendenza. A guardarsi intorno ci si accorge, tuttavia, di quanto sia la narrazione stessa del fenomeno a essere fuorviante. Esempio emblematico di questo tipo di rappresentazione riguarda la campagna diffusa dal Ministero della Salute in occasione del “Fertility Day” del 2016, giornata fortemente voluta dall'ex Ministra della Salute Beatrice Lorenzin per “Informare la popolazione su come proteggere la propria fertilità, evitando comportamenti che possono metterla a rischio”. Sensibilizzare le persone circa i rischi associati all'abuso di alcol o sostanze non ha, di per sé, nulla di sbagliato, ma il messaggio trasmesso dall'immagine di una giovane donna con una clessidra in mano – accompagnata dallo slogan “La bellezza non ha età. La fertilità sì” – o da inviti a “Darsi una mossa, senza aspettare la cicogna” – come se la scelta di fare figli in giovane età dipendesse esclusivamente dalla volontà individuale e fosse sufficiente, da sola, a risolvere il calo demografico – va ben oltre l'intento dichiarato.
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Sulla stessa lunghezza d'onda anche alcuni passaggi contenuti nel “Piano nazionale per la fertilità”, pubblicato dallo stesso Ministero nel 2015, un anno prima della campagna. Nel documento, la decisione di rimandare sempre di più la prima gravidanza viene ricondotta alla crescita del livello di istruzione delle donne, al loro “maggiore impegno in campo lavorativo”, al desiderio di raggiungere un'autonomia economica e all'ambizione di realizzarsi non solo come madri, ma anche come persone – un desiderio, questo, che “si pensa possa essere ostacolato dalla cura dei figli”. Nessun accenno al ruolo dei padri nella crescita dei figli, alle responsabilità di un sistema lavorativo in cui essere madre pregiudica a priori la propria carriera e, non ultimo, al ruolo del settore pubblico nel supporto delle famiglie, a partire dalla promozione di una rete di asili nido economicamente accessibili ed equamente diffusi in tutto il territorio. Una volta superati questi impedimenti, anche la classe politica si accorgerebbe che il calo delle nascite non si deve all'egoismo delle donne, né a una società che “ha sospinto le donne verso ruoli maschili, che hanno comportato un allontanamento dal desiderio stesso di maternità”, come si legge nel piano, ma a un impianto economico e sociale legato all'immagine della donna come angelo del focolare.
La quasi totale assenza di politiche al servizio della famiglia si traduce, infine, non solo nella scelta forzata di avere meno figli da parte delle donne che lavorano, ma anche nella perdita della propria occupazione – o, quando va bene, in stipendi inferiori rispetto ai colleghi uomini – per coloro che scelgono di averne, con conseguenze tutt'altro che trascurabili per l'economia dell'intero paese. Secondo il rapporto WeWorld “Mai più invisibili: donne, bambine e bambini ai tempi del Covid-19 in Italia”, per esempio, il crollo dell'occupazione femminile registrato nel 2020 ha causato una perdita del 20/22% del PIL nazionale, pari a circa 8 miliardi di euro. I dati peggiori sono stati registrati, di nuovo, in regioni quali Sicilia, Campania e Calabria – le stesse in cui i servizi pubblici di cura rimangono perlopiù assenti. Nel caso delle donne con figli piccoli, anche solo cercare un nuovo impiego rappresenta quindi una missione quasi impossibile, con conseguenze drammatiche per il benessere loro, delle loro famiglie e di tutta la comunità.
Un sistema economico strutturato sulla distinzione dei ruoli di genere e sulla "genderizzazione" del lavoro – quello produttivo, di competenza maschile, e quello domestico e gratuito, riservato alla categoria femminile – non solo impedisce a oltre metà della popolazione di accedere ai diritti che le spetterebbero, ma è anche controproducente in termini di sviluppo socio-economico collettivo. Alla formazione delle famiglie non concorrono solo le donne – semplicemente, le donne ne subiscono maggiormente il peso: potenziare i servizi di accoglienza, educazione e cura per l’infanzia, in linea con le necessità dei singoli territori, è essenziale per fermare questa tendenza.
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