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Articolo 18 e dintorni: vademecum di sopravvivenza

15 Dicembre 2011 5 min lettura

Articolo 18 e dintorni: vademecum di sopravvivenza

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4 min lettura
di Paolo Sinigaglia 
@valigiablu - riproduzione consigliata
Cos’è l’Articolo 18? 

 

Lo spiega bene la voce di Wikipedia: si tratta di un articolo dello “statuto dei lavoratori”, ovvero la legge n. 300 del 20 maggio 1970, recante "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento". In sostanza si tratta di quella norma che ritiene un licenziamento individuale valido se avviene per giusta causa o giustificato motivo in imprese superiori ai 15 dipendenti.
Perché il tema è all’ordine del giorno? 
In un’intervista del Corriere della Sera, il ministro del Lavoro e della Previdenza sociale Elsa Fornero preannuncia una riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, invitando i sindacati “a fare discussioni intellettualmente oneste e aperte” poiché “non ci sono totem” come l’articolo 18.

I sidacati, uniti dopo molto tempo, si sono messi subito in rotta di collisione col Ministro: ritengono inaccettabile che sia “messa in discussione la tutela delle tutele” e hanno convocato uno sciopero del settore privato per la vigilia di Natale.

Eliminare l’articolo 18 cosa comporterebbe? 
Carlo Clericetti su Repubblica sostiene che l’eventuale abolizione non serve a riequilibrare il mercato del lavoro verso i giovani poco tutelati e anzi nasconderebbe il disegno delle aziende di liberarsi progressivamente dei lavoratori più anziani e meglio retribuiti.
Sandro Trento sul Fatto Quotidiano, invece, dice che l’articolo 18 non deve essere né un tabù né un totem, nel senso che non è il problema fondamentale del mercato del lavoro italiano (la tesi è sposata da molti, ad esempio da Pierluigi Bersani, Pippo Civati, Alessia Mosca). Questo per diversi motivi:
  • il 95 % delle imprese italiane ha meno di 10 dipendenti, e quindi per la gran parte dei lavoratori già ora non si applica l’articolo 18;
  • è facile in Italia licenziare in massa in caso di crisi economica grazie a strumenti come la cassa integrazione;
  • il numero di lavoratori reintegrati ogni mese dai giudici del lavoro è irrisorio: 40, 50 persone in totale
Cosa sono il “pacchetto Treu” e la “legge Biagi”? 
Con “pacchetto Treu” si intende una serie di modifiche legislative (legge 196/1997), presentate dal Ministro del lavoro Tiziano Treu (nei governi Dini e Prodi), che hanno introdotto nella legislazione italiana il lavoro interinale e i contratti a tempo determinato e hanno di fatto dato il via alla flessibilizzazione (precarizzazione) del mercato del lavoro. Nell’ottica del Ministro il pacchetto avrebbe dovuto essere la prima gamba del sistema ed essere affiancato da una seconda gamba, ovvero la riforma degli ammortizzatori sociali per andare incontro ad un modello di "flexicurity". La seconda parte del disegno non vide mai la luce: successivamente fu, anzi, rafforzata la prima parte dalla cosiddetta “legge Biagi”, o meglio “legge Maroni”, del governo Berlusconi (legge 30/2003) che introdusse una nuova serie di contratti flessibili nell’ordinamento italiano.
Proprio il tema degli ammortizzatori sociali è stato al centro di numerose discussioni durante la crisi 2008/2009 che il governo Berlusconi affrontò attraverso la cosiddetta cassa integrazione “in deroga”: da molte parti si chiedeva l’introduzione di strumenti “universali e automatici” (ad esempio FLI) per eliminare il grado di discrezionalità del potere politico.
Cos’è il “contratto unico”? 
Il ministro Fornero citava tra gli obiettivi della riforma “un contratto unico, che includa le persone oggi escluse e che però forse non tuteli più al 100% il solito segmento iperprotetto”.
Già perché ai circa 3.750.000 di precari l’articolo 18 non si applica: non hanno nemmeno le tutele garantite ad un lavoratore con contratto a tempo indeterminato nella piccola e media impresa.
L’idea è allora quella del “contratto unico” per tutte le nuove assunzioni, con tutele crescenti nel tempo. I primi a pensare ad una soluzione di questo tipo per eliminare “l’apartheid del mercato del lavoro” tra protetti e non protetti è stato il duo Tito Boeri – Pietro Garibaldi nel 2007, seguito successivamente da Pietro Ichino (del PD) che ha presentato al Senato un apposito disegno di legge (n° 1481 del 25 marzo 2009) che, oltre al contratto unico, intende portare il mercato del lavoro italiano verso un regime di “flexicurity”. Per chi volesse saperne di più qui una tabella comparativa tra le due proposte. Una terza proposta targata Della Vedova-Raisi è appoggiata anche dall’UDC.
Cos’è la “flexicurity”? 
Anche questa volta ci viene in soccorso Wikipedia: “la flexicurity può essere definita quale strategia integrata volta a promuovere contemporaneamente la flessibilità e la sicurezza sul mercato del lavoro.”
Questa strategia (detta anche flessicurezza da flessibilità + sicurezza) è stata applicata con successo nei paesi del nord Europa, soprattutto Olanda e Danimarca e comprende 4 componenti:
  • Forme contrattuali flessibili e affidabili, nell’ottica del datore di lavoro e del lavoratore, degli “insider” e degli “outsider”
  • Strategie integrate di apprendimento lungo tutto l’arco della vita per assicurare la continua adattabilità e occupabilità dei lavoratori, in particolare di quelli più vulnerabili;
  • Efficaci politiche attive del mercato del lavoro che riducano i periodi di disoccupazione e agevolino la transizione verso nuovi posti di lavoro;
  • Sistemi di sicurezza sociale che forniscano un adeguato supporto al reddito (ad esempio il reddito minimo in fase di disoccupazione) e incoraggino l’occupazione attraverso un’ampia copertura delle prestazioni sociali che aiutino la conciliazione casa-lavoro (per esempio la cura dei figli).
Proposte alternative alla riforma del mercato del lavoro
Una via alternativa alla riforma del mercato del lavoro è stata disegnata da alcuni esponenti di centrosinistra: da Stefano Fassina del PD e dall’IDV.
La proposta riguarda il mantenimento dell’attuale struttura con un “accompagnamento” graduale dei contratti a tempo determinato verso le tutele dei contratti a tempo indeterminato.
La combinazione passerebbe dalla riduzione del costo del lavoro stabile e l’aumento di quello flessibile, il disboscamento della giungla di contratti precari oggi possibili, a cui si abbinano gli altri assi della flexicurity, come il finanziamento del contratto di apprendistato, la riforma in senso universalistico del welfare, lo sviluppo delle politiche attive per il reinserimento al lavoro, la riorganizzazione della formazione per agevolare le transizioni professionali.
Quindi?
Dalle “Considerazioni sull'articolo 18” del blogger Nonuncosaseria:
“In definitiva, penso (…) che abbia ragione Elsa Fornero quando dice che la norma prevista dallo Statuto dei lavoratori non deve essere considerata un totem. E però anche il sindacato ha le sue ottime ragioni quando afferma che non può essere questo il punto di partenza se vogliamo affrontare la questione mercato del lavoro/sviluppo delle imprese italiane.
Mi piacerebbe che una volta tanto ci fosse un dibattito serio, in Italia, che accantonasse rigidità ideologiche a vantaggio del pragmatismo e della correttezza.”

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13 Comments
  1. Luca Fonsdituri

    ciao Paolo molto utile il tuo post, alcune note: nelle aziende fino a 15 dipendenti non si applica l'articolo 18, ma il datore di lavoro può licenziare anche in questo caso solo per giusta causa o giustificato motivo; l'art.18 applicato all...e aziende con più di 15 dipendenti in genere non è utilizzato per reiserire il lavoratore in azienda (i dati che tu citi credo siano corretti), ma come deterrente al licenziamento (e per eventualmente alzare la "penale" in caso la controversia si componga in commissione prima di adire al Giudice del Lavoro), questo perché lo stesso lavoratore ha remore (comprensibili) ad essere reinserito in un'azienda dalla quale è stato licenziato senza motivo

  2. Luca Fonsdituri

    ovviamente i datori di lavoro possono licenziare anche non individualmente attraverso i percorsi di riduzione del personale per crisi aziendale, in tal caso la mobilità (copertura da 1 a 3 anni, dipendente dall'età del lavoratore / lavoratr...ice) può essere usufruita solo dai dipendenti delle aziende con più di 15 dipendenti... qui si dovrebbe operare per una riforma degli ammortizzatori sociali che porti ad una copertura per tutti (cosa che si è verificata ad esempio nella crisi con l'introduzione di una mobilità in deroga, ridotta per i lavoratori delle aziende senza mobilità normale; stesso discorso per cassa integrazione ordinaria e straordianaria)

  3. matteo pascoletti

    Grazie per le precisazioni, Luca.

  4. Federico Pancaldi

    Aggiungerei anche io una precisazione. Il 'Pacchetto Treu' non è responsabile della legge sul contratto a tempo determinato, un istituto approvato nel 1962 e riformato a partire dal 2001 dal governo Berlusconi. Su sollecitazione dell'autore, il pacchetto Treu del 1997 non è nemmeno responsabile dell'introduzione dei 'famigerati' co.co.co, che esistevano nel codice di procedura civile (art. 409) dagli anni '70 come forma di lavoro autonomo. Durante gli anni '90, in particolare dopo l'istituzione della Gestione Separata per le pensioni, si ebbero per la prima volta dati concreti intorno ai numeri di un fenomeno dei cui contorni nemmeno i sindacati erano a conoscenza. Da qui, il senatore DS Smuraglia propose nel 1999 una legislazione sul lavoro parasubordinato fortemente restrittiva, molto appoggiata dal nascente Nidil CGIL e avversata da tutti gli altri. Difatti non se ne fece niente nella legislatura 1996-2001, e fu la legge 30 del 2003 a introdurre il contratto a progetto, il quale tendeva in verità a dare delle regole precise - quindi a limitare, o secondo altre interpretazioni a legalizzare - le vecchie collaborazioni continuative, che rimasero tuttavia vigenti per la P.A (da qui i famosi precari dell'istruzione, tanto per dire). Il discorso è complesso, anche alla luce di una discussione non avvelenata sulla regolazione del mercato del lavoro in Italia. In ogni caso, a me pare eccessivo, se non proprio sbagliato, collegare una legge con un fenomeno complesso come la precarietà, a maggior ragione in un Paese in cui lavora il 57% della popolazione attiva, e con una storica abbondanza di manodopera non qualificata che fino agli anni '50 abbiamo fatto emigrare in giro per il mondo. Come si fa a dare occupazione a tutti e nel contempo avere delle imprese che sopravvivano nei mercati globali? Chi riesce a dare una risposta non ideologica, concretamente fattibile a questo fondamentale interrogativo può legittimamente bypassare ogni discorso sull'articolo 18 e alzare il tiro del dibattito politico. Altrimenti, rimane invischiato in un'inutile polemica che appesta l'Italia da più di 15 anni senza aver mai contribuito a creare un singolo posto di lavoro in più

  5. Andrea Imperia

    Alcuni commenti: 1) Non è vero che l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sia la "norma che ritiene un licenziamento individuale valido se avviene per giusta causa o giustificato motivo in imprese superiori ai 15 dipendenti" Nel nostro ordinamento (salvo i casi ormai residuali di licenziamento ad nutum) un lavoratore dipendente, quale che sia il numero di lavoratori occupati dall'impresa, non può essere licenziato se non in presenza di giusta causa o giustificato motivo (soggettivo o oggettivo). Ciò che stabilisce l'articolo 18 è la cosiddetta "tutela reale", cioè la reintegrazione da parte del giudice del lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo, e il diritto del lavoratore al risarcimento del danno. 2) Non è vero che siccome "il 95 % delle imprese italiane ha meno di 10 dipendenti ... per la gran parte dei lavoratori già ora non si applica l’articolo 18". Secondo la CGIA di Mestre quasi due terzi dei dipendenti è tutelato dall'articolo 18 (vedi http://www.cgiamestre.com/2011/12/quasi-dueterzi-dei-lavoratori-dipendenti-sono-tutelati-dall%E2%80%99articolo-18/) Vorrei infine commentare le conclusioni. L'eliminazione della "tutela reale" (ad eccezione dei casi di licenziamento discriminatorio, come nella proposta di Pietro Ichino) o la sua sospensione per il primo triennio (come nella proposta Boeri-Garibaldi e nel ddl n. 2000/2010 del senatore del PD Paolo Nerozzi), mirano in realtà all'eliminazione del controllo giudiziale della legittimità del licenziamento e alla sua sostituzione con un'indennità crescente con l'anzianità di servizio. Ciò avrebbe conseguenze potenzialmente distruttive per l' esercizio di tutti gli altri diritti. In assenza del controllo giudiziale di legittimità il lavoratore che intendesse far valere un diritto (ferie, malattia, maternità, partecipazione alle attività sindacali) si troverebbe esposto al ricatto del licenziamento, uno strumento che il datore di lavoro potrebbe facilmente utilizzare al riparo dell'insindacabilitàdei motivi posti a sua giustificazione. Per essere ancora pià espliciti: per poter licenziare in modo legittimo il datore di lavoro dovrebbe solo aver cura di non mettere per iscritto che intende licenziare il lavoratore per un motivo discriminatorio (sesso, razza, lingua, credo politico, fede religiosa, appartenenza ad un sindacato o partecipazione alle sue attività). Ciò posto, potrebbe liberarsi di un lavoratore sgradito (ad esempio perché determinato ad esercitare i propri diritti) sostenendo un costo assai modesto, di gran lunga inferiore a quello attuale. Non mi sembra che si sia in presenza di un "totem".

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