Le armi italiane utilizzate per la repressione in Egitto: una minaccia per i diritti umani
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L’Egitto compra “Made in Italy per reprimere”. Non lascia spazio a interpretazioni il titolo scelto dai ricercatori dell’Iniziativa egiziana-italiana per i diritti umani e le libertà civili EgyptWide. L’associazione ha indagato il legame che corre tra il commercio delle nostre armi piccole e leggere e il deterioramento dei diritti e della sicurezza umana in Egitto.
Tra il 2013 e il 2021, rivela il rapporto presentato lo scorso 24 maggio alla Camera dei deputati, l’Italia ha incassato circa 19 milioni dalla vendita al Cairo di oltre 30mila revolver e pistole automatiche, più di 3.600 fucili, quasi 500 fucili d’assalto, più un numero imprecisato di carabine, mitragliatrici leggere e pesanti, fucili da caccia, tecnologia e software per uso militare, munizioni e componenti di ricambio. Per lo stesso periodo, ha autorizzato l’export di altre armi piccole e leggere per l’Egitto per un valore di oltre 62 milioni (al netto di munizioni e ricambi).
Quelle armi, mettono nero su bianco gli esperti all’esito dell’analisi di centinaia di materiali audiovisivi, sono state ripetutamente utilizzate da diversi attori statali per compiere inaccettabili violenze e violazioni nel regime ‘stabile’ del Medio Oriente.
I nostri Arx 160, per esempio, sono stati protagonisti di esecuzioni extragiudiziali nel Sinai settentrionale, e delle più piccole Benelli SuperNova Tactical e Beretta 92FS l’Egitto si è servito per intimidire e disperdere i civili nel corso di varie operazioni di sicurezza urbana.
I più famosi Beretta 70/90, poi, erano imbracciati dalle forze speciali durante i massacri di Al-Nahda e Rabaa Al-Adawiya che nel 2013, all’indomani del colpo di Stato che aprì la stagione politica più liberticida della storia moderna d’Egitto, lasciarono sul terreno quasi un migliaio di corpi.
Proprio quegli eventi avevano spinto il Consiglio d’Europa a decidere per lo stop alla fornitura all’Egitto “di ogni equipaggiamento che possa essere utilizzato per la repressione interna”, da parte di tutti i membri dell’Unione, Italia (teoricamente) compresa.
Tuttavia all’Italia è bastato un anno per riconsiderare la sua posizione in merito. Il 2014, anno che legittimò la presidenza del già leader de facto, il Generale Abdel Fattah al-Sisi, ha visto infatti accendersi una fase di intensa cooperazione bilaterale con l’Egitto.
Le relazioni politico-economiche di ‘buon vicinato’ tra due paesi cardine dell’architettura geopolitica regionale, quelle commerciali (principalmente legate ai big del fossile, oltre che all’industria bellica) e persino quelle militari (concentrate in area Difesa) non si sono che rafforzate da allora, a gettare basi solide per quella che gli autori della ricerca descrivono come “un’espansione esponenziale del volume del commercio d’armi e della cooperazione strategica, che rende oggi l’Italia uno dei partner principali dell’Egitto nella regione mediterranea”.
Neppure dopo il sequestro, la tortura e l’assassinio di Giulio Regeni, e le attività di depistaggio e ostruzionismo che la giustizia italiana ritiene siano intervenute da parte del Governo egiziano, abbiamo smesso di commerciare in armi con la Repubblica della controrivoluzione.
Se i rapporti politico-diplomatici avevano incassato una qualche battuta d’arresto con il breve periodo di ritiro dell’ambasciatore italiano in Egitto (quelle crepe appaiono oggi rinsaldate sui dossier chiave energia, migrazione e Libia), l’asse di ferro sulla vendita delle armi da fuoco non è mai nemmeno finito in discussione.
Nel 2019 il volume dei materiali d’armamento consegnati all’Egitto è cresciuto fino a fare del paese il primo acquirente al mondo di armi italiane, con il valore totale delle commesse autorizzate quell’anno per il centro del mondo arabo pari a quasi 900 milioni. E ancora in aumento, fino a sfiorare il miliardo, sono stati i numeri del 2020, lo stesso anno dell’arresto di Patrick Zaki e della risoluzione del Parlamento Europeo disseminata di “deplora ancora una volta e con la massima fermezza” a proposito della repressione dei diritti umani che non ha ancora cessato di farsi strumento di demolizione del dissenso sulle rive del Nilo.
Per il 2021 che ha segnato il record storico per il valore totale delle licenze per l’esportazione d’armi concesse dall’Italia, l’Egitto è crollato al 18esimo posto nella classifica dei destinatari dell’artiglieria nostrana ma ha comunque ottenuto licenze per quasi mezzo milione considerando solo le armi piccole e leggere. Mentre il 12 marzo anche il Consiglio Onu per i diritti umani condannava finalmente le diffuse violazioni commesse dalle autorità egiziane, e il Direttore del Cairo Institute for Human Rights Studies, Bahey Hassan, chiedeva a tutti i paesi di “continuare a chiarire al Governo egiziano che non avrà più carta bianca per imprigionare, torturare o violare arbitrariamente il diritto alla vita o uccidere illegalmente le persone”.
Mentre organizzazioni e organismi per i diritti umani continuano a denunciare il processo di progressiva soppressione delle libertà fondamentali, la crescente criminalizzazione del dissenso che colpisce anche la disobbedienza civile nonviolenta, e il sistema di impunità attorno agli abusi degli apparati di sicurezza dello Stato che da un decennio reggono il Governo Al-Sisi, prosegue così indisturbato l’export militare italiano verso il paese. Stiamo vendendo armi a un regime autoritario militare. E lo stiamo facendo, lo ribadisce più volte EgyptWide, in aperta violazione della Legge italiana sul commercio di armi, del quadro normativo europeo sull'esportazione di armi, nonché delle disposizioni del Trattato delle Nazioni Unite sul commercio d’armi di cui l’Italia sarebbe parte dal 2014.
Alice Franchini, ricercatrice dell’Iniziativa, ha così dichiarato all’agenzia Dire:
“Le violazioni dei diritti umani compiute con armi italiane e di importazione, comprese le violazioni documentate in questo rapporto, non erano inevitabili, e nemmeno imprevedibili. La normativa vigente in materia di commerci d’arma contiene disposizioni specifiche proprio per prevenire abusi come questi. La scelta di trasgredire a tali disposizioni è stata e rimane una scelta politica, quella di mettere i profitti dell’industria bellica davanti ai diritti umani e alla sicurezza, con le conseguenze che vediamo”.
Il documento non manca di segnalare le sfide strutturali poste dalle lacune nelle previsioni che disciplinano il commercio internazionale d’armi, che “sollevano gli Stati esportatori dalle responsabilità derivanti dai propri obblighi legali in materia di non proliferazione e difesa della pace e della sicurezza umana”.
Non manca soprattutto di accusare a chiare lettere una certa “opacità che caratterizza il commercio d’armi”, capace di incoraggiare gli affari - nonostante tutti i nonostante - soprattutto sulle armi piccole e leggere, per dimensioni più difficili da rintracciare e più facili da nascondere.
È questa aggravata opacità, scrivono i ricercatori, che “ha fatto sì che la loro [delle armi piccole e leggere] esportazione restasse per lo più al di fuori dei radar dei media, dell’opinione pubblica e della società civile”, mentre sulle armi pesanti e i veicoli militari all’Egitto la copertura mediatica è stata importante e capace di muovere l’indignazione della coscienza pubblica italiana.
Un aspetto, quest'ultimo, che richiede una spiegazione. Benché la categoria “armi piccole e leggere” (di cui siamo tra i maggiori esportatori al mondo – secondi solo agli USA lo scorso anno) possa far pensare a congegni con un peso bellico trascurabile, in realtà parliamo di armi responsabili del 90% delle morti in tutti i conflitti moderni. Si contano almeno un miliardo di pezzi in giro per il mondo - prodotti in larga parte in Occidente e inviati a uccidere soprattutto civili nelle aree più instabili di questo Pianeta. Come disse, quasi vent’anni fa, l’allora Segretario generale Onu, Kofi Annan:
il bilancio delle vittime delle armi leggere supera quello di tutti gli altri sistemi d’arma, e nella maggior parte degli anni supera di gran lunga il bilancio delle bombe atomiche che hanno devastato Hiroshima e Nagasaki. In termini della carneficina che provocano, le armi leggere potrebbero benissimo essere descritte come armi di distruzione di massa.
Tornando all’Egitto, come evidenziato dal rapporto c’è un’analisi dettagliata che mostra armi leggere di fabbricazione italiana "impiegate su larga scala in processi più ampi di securitizzazione e militarizzazione dello spazio pubblico, che finiscono per limitare la libertà di movimento e di riunione pacifica”. Dati e numeri alla mano, non si può ulteriormente rimandare una seria discussione nel merito in seno alle Istituzioni italiane ed europee, raccomanda EgyptWide che chiede, tra l'altro, l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta e - nelle sue more - la sospensione di ogni ulteriore trasferimento d'armi all'Egitto.
Intanto, il ‘caso Regeni’ arriva fino in Consulta con l’obiettivo di rimediare a quella che nelle parole fissate tra le pagine della sentenza dello scorso 31 maggio dal Gip del Tribunale di Roma, Roberto Ranazzi, è “un’inammissibile zona franca di impunità” per i cittadini-funzionari egiziani sotto accusa, determinata da “una scelta antidemocratica e autoritaria” di mancata cooperazione con le autorità italiane da parte del Governo egiziano.
Come se ciò non bastasse, a questo quadro bisogna aggiungere l'annuncio del Consiglio dei Ministri circa la caduta delle limitazioni alle esportazioni militari per l’Arabia Saudita. Sembra, così si legge sul comunicato di Palazzo Chigi, che sia ormai attenuato il rischio che Riad faccia “uso improprio di bombe d’aereo e missili, in particolare contro obiettivi civili” nella “mutata situazione del conflitto” in Yemen.
Sarebbero dunque “venute meno” le ragioni dello stop all’export delle armi made in Italy (la decisione è stata ufficializzata nel contesto della riunione di Governo che si occupata delle disposizioni per valorizzarlo) in Arabia, in linea con il dietrofront che un mese fa aveva ristabilito le relazioni nel commercio d’armi anche con gli Emirati Arabi Uniti.
Il provvedimento, arrivato mentre in Yemen non è ancora stato siglato alcun trattato di pace e i negoziati versano in una fase di stallo altamente critica, abbraccia ancora una volta un paese dalle politiche non certo meno discutibili di quelle egiziane in fatto di diritti umani.
Immagine in anteprima: Un manifestante viene arrestato dalla polizia a Nasr City, il Cairo, 25 gennaio 2014 – via Egyptwide,“Made in Italy per reprimere”.