‘Com’era possibile che in questo luogo nascessero dei bambini?’ La Buenos Aires dei desaparecidos e l’Argentina di domani
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Di Helena Savoldelli (Redazione Gariwo)*
Siamo in quella che fu la Esma (Escuela de Mecánica de la Armada), complesso di 34 edifici per la formazione militare dove venne collocato uno dei maggiori centri di detenzione, tortura e sterminio che funzionarono in Argentina dal 1976 al 1983 per mano dei militari di Videla. Si trova nella zona nord della capitale Buenos Aires, tra palazzi signorili e grandi viali, e oggi è uno spazio di memoria ed educazione ai diritti umani dichiarato Patrimonio Unesco. Un riconoscimento, quello di Patrimonio dell’Umanità, che arriva alla vigilia delle elezioni generali del 22 ottobre 2023, a cui concorrono componenti di destra radicale che si dimostrano apertamente negazioniste rispetto ai crimini della dittatura militare (in Argentina non c’è al momento una legge sul negazionismo).
Al termine di una delle passerelle di legno che si percorrono trattenendo il respiro per entrare in quelle che furono le stanze della tortura dell’ESMA, ci si trova di fronte a un claustrofobico spazio in cui una scritta posta sul pavimento riporta la domanda: “Com’era possibile che in questo luogo nascessero dei bambini?”.
Qui, le detenute “terroriste” che al momento della cattura erano in stato di gravidanza partorivano su di un tavolo, bendate, tra percosse ed insulti, i bambini e le bambine che venivano sottratti loro poco dopo la nascita. Nella maggior parte dei casi, quei neonati erano l’unico motivo per cui le donne erano mantenute in vita fino a quel momento.
La pratica del “robo de niños” (furto di bambini) fu operata in modo sistematico alla ESMA e in altri centri clandestini di detenzione (CCD). “I bambini non hanno colpa”, si dicevano i perpetratori per giustificare quel disumano furto, “sarebbero stati cresciuti da gente per bene” (cioè ceduti a famiglie di militari o vicine al regime oppure venduti). Nel piano dei carnefici, i bambini non avrebbero mai conosciuto la propria identità di figli di genitori assassinati; le madri, infatti, venivano poi uccise con i “voli della morte”, sedate e gettate ancora vive nel Rio della Plata. I militari dell’ESMA chiamavano questa pratica di uccisione dei prigionieri (l’81% dei quali aveva tra i 16 e i 35 anni) traslado (trasferimento), un modo per nascondere, agli altri e probabilmente a loro stessi, uno dei più crudeli stermini che si possa immaginare.
“¿Qué ocurría realmente con la madre y el hijo? Desde que la embarazada llegaba, su destino estaba decidido. El de ambos. Para la madre el traslado, para el hijo la duda” (Che cosa succedeva davvero alla madre e al figlio? Da quando la ragazza incinta arrivava, il suo destino era segnato. Quello di entrambi. Per la madre il trasferimento, per il figlio il dubbio”).
Sara Solarz de Osatinsky, sequestrata dal 14 maggio del 1977 al 19 dicembre 1978. Testimonianza rilasciata durante il processo alla giunta (causa 13, 30/7/1985)
A centotrentatré di quei bambini è stata restituita la propria identità, non senza dolore, tramite il lavoro delle Abuelas (nonne) de Plaza de Mayo, madri di desaparecidos e nonne di nipoti rubati, definiti in spagnolo apropiados.
Le Abuelas, in particolare, hanno lavorato instancabilmente e di concerto con la comunità scientifica per creare la prima Banca nazionale di dati genetici, che ha permesso di determinare la filiazione di ragazze e ragazzi nati durante la dittatura, che hanno dubbi sulla propria identità. Lo hanno fatto usando l’índice de abuelidad (nonnità), tramite il proprio DNA, in assenza di quello dei figli scomparsi.
Quando si entra in un luogo come l’ex-ESMA - solo uno dei 700 edifici pubblici che furono utilizzati dalla giunta come centri clandestini di detenzione - si prova una sensazione di freddo, oppressione, difficile da descrivere. Ci sono la stanza del parto, i luoghi di detenzione, le foto di giovani poco più che bambini. Tra le tante domande che ci si fa di fronte a quei pannelli che illustrano la crudeltà umana, non si può non chiedersi anche con quale forza un gruppo di donne comuni, le Madres de Plaza de Mayo, abbiano potuto presentarsi di fronte al palazzo di quel potere assassino, la Casa Rosada, per chiedere direttamente ai responsabili dove fossero i loro figli. I desaparecidos sono 30mila si legge oggi nei murales di Buenos Aires.
Da quel primo giorno in cui si ritrovarono in Plaza de Mayo, il 30 aprile 1977, le madri non hanno mai smesso di portare avanti il loro movimento pacifico di resistenza, non solo per cercare i loro desaparecidos, o un luogo dove piangerli, ma anche per chiedere verità e giustizia e portare avanti progetti di aiuto agli ultimi della società argentina.
Di fronte alla Casa Rosada, c’è una piccola traccia di quegli incontri, che si svolgono ogni giovedì da 46 anni. La pavimentazione della piazza attorno alla Pirámide de Mayo disegna un cerchio di volti con indosso fazzoletti bianchi, simbolo delle Madres. Sono disposti in senso circolare perché è in quel modo che le madri cominciarono la loro protesta, tenendosi sotto braccio con sul capo i vecchi pannolini di tela dei loro figli.
Proprio con quel foulard bianco, con sopra scritto Franca Jarach, ci ha accolto nel suo appartamento di Buenos Aires, Vera Vigevani Jarach, una di queste madri straordinarie. È ormai anziana ma questo non impedisce di notare la somiglianza con il ritratto della figlia Franca che ripone di fianco a sé con infinita cura.
Chi sarebbe oggi Franca?
Vera su questo sembra non avere molti dubbi, ci spiega che, quando i militari la sequestrarono, Franca aveva solo diciotto anni ma era già convinta che la sua scelta sarebbe stata quella di dedicarsi agli altri. Stava studiando per diventare un’educatrice e voleva contribuire a costruire una società più giusta.
I suoi desideri, invece, sono rimasti lì, cristallizzati in un ricordo; e quella stessa foto che Vera ci mostra orgogliosa si trova su uno dei pannelli del percorso di memoria all’ex-ESMA, dove scomparve per sempre.
Vera ci racconta che non la convince che nel memoriale si trovi anche uno degli aerei che vennero usati per i “voli della morte” con cui i sequestrati venivano gettati nel Rio, non riesce a sopportare di vederlo.
Dice che lei e le altre Madres rimaste si incontrano spesso, insieme ai membri dell’associazione, e non sono sempre d’accordo su tutto, ma cercano di guardare all’Argentina di oggi, a chi ha più bisogno. Ammira molto anche il lavoro delle Abuelas, “sono state geniali”, dice.
Quello che accomuna tutte quelle donne, oltre alla tragedia che hanno vissuto, al coraggio che hanno dimostrato, alla solidarietà con cui si sono sostenute, è la volontà di guardare anche avanti.
Vera, che ha 95 anni, sembra avere la forza di mille persone quando dice che continua ad andare nelle scuole per spiegare i valori della democrazia e aggiunge che ha deciso solo ora di fare la pratica per la nazionalità argentina, non perché le serva ma perché ora che il suo Paese è di nuovo in pericolo - minacciato dal negazionismo nella politica, dal ritorno di parole violente - lei vuole esserci.
*Qui l'articolo originale su Gariwo
(Immagine in anteprima via Gariwo)