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L’Arabia Saudita dall’omicidio Khashoggi all’attacco al fondatore di Amazon. Un intrigo internazionale tra spyware e propaganda online

26 Gennaio 2020 16 min lettura

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L’Arabia Saudita dall’omicidio Khashoggi all’attacco al fondatore di Amazon. Un intrigo internazionale tra spyware e propaganda online

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Il primo maggio 2018 Jeff Bezos, Ceo e fondatore di Amazon, l'uomo più ricco al mondo, a capo di una delle maggiori multinazionali americane e globali, riceve un video su Whatsapp. Un contenuto apparentemente scialbo e impersonale, sembra uno spot sulle telecomunicazioni, con una bandiera saudita e una svedese in primo piano. A mandarglielo è un suo recente contatto, niente meno che Mohammed bin Salman, o MBS come lo chiamano in molti, il principe ereditario dell'Arabia Saudita e leader de facto del paese. I due si erano conosciuti a una cena alcune settimane prima a Los Angeles, a un evento organizzato dal noto produttore cinematografico Brian Grazer (produttore, ad esempio, del film The Beautiful Mind), mentre il potente principe saudita era in uno smagliante tour americano, facendo lo slalom tra la conduttrice tv Oprah Winfrey, i big della Silicon Valley, il presidente Trump e il suo genero Jared Kushner. In particolare i rapporti fra MBS, Trump, i suoi collaboratori e soprattutto Kushner sembrano essere intensi, informali e molteplici e sono segnati dall’accusa di vari conflitti di interesse oltre che da preoccupazione di parte dell’intelligence americana.

A quel tempo, Amazon puntava a espandere il suo business di servizi cloud in Medio Oriente, inclusa l'Arabia Saudita, mentre MBS cercava di vendere all'estero la sua immagine di leader affidabile e moderno, malgrado i non pochi problemi interni al suo Paese, l'assenza di uno Stato di diritto e il controllo ferreo sulla dissidenza.

Il ruolo di Jamal Khashoggi e del Washington Post

Così i due uomini, non è chiaro su iniziale richiesta di chi, si scambiano i numeri di cellulare e iniziano a mandarsi un paio di messaggi. Più o meno in contemporanea, dalle colonne del Washington Post, di proprietà di Bezos, il giornalista e dissidente saudita Jamal Khashoggi, scriveva che "in Arabia Saudita, al momento, le persone non hanno semplicemente il coraggio di parlare. Il Paese ha visto la creazione di una lista nera con quelli che hanno osato alzare la voce, ha imprigionato figure intellettuali e religiose moderatamente critiche, e ha fatto un presunto giro di vite anticorruzione su membri reali e altri imprenditori (…). Rimpiazzare le vecchie tattiche di intolleranza con nuove forme di repressione non è la risposta".

Jamal Khashoggi era stato un giornalista influente nella politica saudita, con legami con varie figure di rilievo (ad esempio l'ambasciatore saudita in UK e Usa di cui era stato consulente) ma nel 2017 lascia il Paese e si trasferisce in Virginia (USA), dicendo di aver deciso di auto-esiliarsi per non essere arrestato. È il periodo, nei mesi seguenti, della maxi-retata anticorruzione che imprigiona senza accuse formali, sottoponendoli a vari abusi e ricatti, centinaia fra principi, funzionari statali e imprenditori all'hotel di lusso Carlton-Ritz di Riad, una manovra mirata a rafforzare il potere di MBS rispetto a fazioni rivali.

Ad ogni modo Khashoggi, nella sua nuova vita americana, diventa un editorialista del Washington Post, da dove non risparmia critiche all'Arabia Saudita e a MBS. Tanto da preoccupare sempre di più il principe saudita. Che già nel settembre 2017, secondo varie fonti riportate dalNew York Times, diceva a suoi consiglieri di voler usare una pallottola contro Khashoggi

Spyware contro dissidenti sauditi

Nel mentre, nello stesso periodo di quello scambio di messaggi tra Bezos e MBS, ovvero tra maggio e luglio del 2018, i telefoni di tre dissidenti ed espatriati sauditi, legati da amicizia con Khashoggi, sono violati con un software malevolo, uno spyware in grado di intercettare tutto quello che fanno, dalle conversazioni telefoniche ai messaggi delle app. Sono Yahya Assiri, Omar Abdulaziz e Ghanem al-Masarir Al-Dosari.

Abdulaziz, che stava in Canada, sarebbe stato infettato con uno spyware di nome Pegasus, prodotto dalla società israeliana NSO e gestito dall'Arabia Saudita, sostiene un report del Citizen Lab, noto centro canadese di ricercatori dediti all'analisi di malware governativi. E stessa sorte avrebbero incontrato Ghanem Almasarir e Yaha Assiri, che stavano a Londra, secondo altri ricercatori, come riporta Forbes. Nello stesso periodo riceveva uno spyware anche un dipendente di Amnesty International che lavorava in Arabia Saudita, sempre attraverso un link via Whatsapp che rimandava a un sito. Secondo i ricercatori di Amnesty, "cliccare sul link avrebbe fatto installare Pegasus".

L’uccisione di Khashoggi e l’accusa all’Arabia Saudita

Abdulaziz stava organizzando con Khashoggi un movimento giovanile e una sorta di "esercito elettronico", una “resistenza digitale” allo strapotere fatto di controllo, repressione e propaganda esercitati da MBS sui social media. Ad agosto 2018 però i due ritengono di essere stati probabilmente intercettati. “Che Dio ci aiuti”, scrive in quei giorni Khashoggi, secondo quanto riportato dallo stesso Abdulaziz.

Pochi mesi dopo, il 2 ottobre 2018, Jamal Khashoggi si reca al consolato saudita di Istanbul per ottenere i documenti per sposare la sua fidanzata turca, Hatice Cengiz, ma non ne esce più. Viene ucciso e smembrato nel consolato. Dopo una serie di tentati depistaggi, anche l'Arabia Saudita dovrà infine riconoscere l'assassinio di Khashoggi, scaricandone però la responsabilità su cinque figure di basso profilo, per cui chiederà la pena di morte. Ma già nel novembre 2018 la CIA accusa proprio il principe MBS di aver ordinato l'uccisione di Khashoggi. Tra le persone che si ritengono coinvolte, anche Maher Mutreb, uomo dei servizi sauditi, e Saud al-Qahtani, consigliere sul digitale del principe, specializzato nell’organizzazione della propaganda sui social: entrambi si erano pure occupati di acquisire servizi di intercettazione e di hacking dei dispositivi elettronici, contattando più di una azienda.

In seguito, nel giugno 2019, a quella della CIA si affiancherà l’accusa dell'Onu: la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, arbitrarie o sommarie, Agnès Callamard, pubblicherà un rapporto secondo cui il principe MBS (così come il suo braccio destro al-Qahtani) dovrebbe essere indagato per l'assassinio di Khashoggi e i suoi beni personali sottoposti a sanzioni.

La campagna social contro Bezos e i nuovi messaggi

Ma facciamo un passo indietro. E torniamo a Bezos, che in questa storia di regimi mediorientali, dissidenti spiati e diritti umani sembra un intruso. In realtà, malgrado quegli amichevoli messaggi scambiati tra il Ceo di Amazon e il leader saudita, nei giorni immediatamente successivi all'uccisione di Khashoggi inizia una campagna online proprio contro Bezos in quanto editore del Post - che continuerà imperterrito a pubblicare articoli sulla morte del proprio editorialista nei quali viene accusata l’Arabia Saudita. A novembre tra gli hashtag più diffusi da account Twitter sauditi c'è "Boycott Amazon". Ma ne seguono altri, che prendono di mira anche una azienda di Amazon che opera in Medio Oriente, Souq.com. Queste campagne sono state documentate da Iyad El-Baghdadi, noto scrittore e attivista arabo che vive a Oslo, che vedremo ricomparire in seguito in questa storia. E già nell’ottobre 2018 Twitter sospendeva una rete di bot, di account inautentici attribuiti al governo saudita e impegnati nella diffusione di propaganda pro-MBS.

È proprio nel mezzo di queste campagne, nel novembre 2018, che MBS invia a Bezos, via Whatsapp, una immagine bizzarra. La foto di una ragazza, con una didascalia sarcastica: "Litigare con una donna è come leggere i contratti di licenza software. Alla fine ignori tutto e clicchi d'accordo". Banale umorismo sessista fra due uomini di potere? In realtà c'è chi sostiene che la donna in foto assomigli a Lauren Sanchez, una giornalista con cui Bezos aveva una relazione extraconiugale che però all'epoca non era nota. Era un messaggio in codice? Una sorta di implicito ricatto?

Lo “scoop” del National Enquirer

Due mesi dopo, a gennaio, è lo stesso Bezos a rivelare di stare divorziando dalla moglie MacKenzie, con cui stava insieme da 25 anni. Sembra un’uscita per bruciare sul tempo qualcuno. Infatti subito dopo il tabloid scandalistico National Enquirer spiattella il fatto che Bezos avrebbe una relazione segreta con la giornalista Sanchez. Il National Enquirer è edito da AMI, società che non solo ha coltivato rapporti molto amichevoli con la corona saudita, ma che è guidata da David Pecker, amico di lunga data di Trump, il quale come noto è in rotta con il fondatore di Amazon. Che quel giornale attacchi Bezos non stupisce. Ma quello che insospettisce è che faccia trapelare di essere in possesso di messaggi privati e foto scambiati nella coppia. Da dove arrivano questi contenuti? Bezos fa partire una indagine sulla faccenda, scrive il 30 gennaio The Daily Beast. La notizia manda in fibrillazione qualcuno ad AMI che pensa di poterlo convincere a retrocedere dalle indagini. Solo che la mossa si trasforma in autogol.

La reazione pubblica di Bezos

Infatti il 7 febbraio Bezos pubblica un post esplosivo su Medium. In sostanza accusa la AMI e Pecker di “estorsione e ricatto”. Che AMI avrebbe minacciato di rilasciare foto intime sue e di Sanchez se lui non fermava l'indagine su questo stesso “leak” e non smetteva di affermare che dietro ci fosse una ragione politica. L’editore del Post pubblica anche le email inviate dal direttore dei contenuti di AMI al proprio avvocato, che descrivono in dettaglio i materiali che ancora potrebbero essere pubblicati, tra cui quello che sembra di capire sia considerato il pezzo forte: “un selfie (di Bezos, ndr) sotto la cinta" (ne avevo scritto qua).

Per gli avversari del Ceo è una debacle mediatica. Lui invece ne esce bene. Indimenticabile il suo attacco, nel senso di incipit, nel post su Medium: “Ieri mi è successo qualcosa di insolito. Veramente, per me non era solo insolito - è stata una prima volta assoluta. Ho ricevuto un’offerta che non potevo rifiutare”. Ovviamente l'offerta non solo l'ha rifiutata, l'ha sbattuta in faccia ai suoi interlocutori.

Il mistero dei messaggi e le prime accuse ai sauditi

Ma resta un mistero importante. Come sono usciti quei messaggi? Il team di Bezos ritiene possibile che una “entità governativa” abbia avuto accesso agli stessi, scrive già in quei primi giorni il Washington Post. Ma quale entità? E in che modo li avrebbe ottenuti? Le ipotesi si sprecano, e inizialmente tendono a considerare che sia stato il telefono della donna a venire compromesso. O che addirittura c’entri il fratello di lei (teniamo a mente questo dettaglio perché sbucherà di nuovo fuori).

A guidare l’indagine privata di Bezos è il suo responsabile della sicurezza, un lungo curriculum nella protezione di personaggi famosi, Gavin de Becker, secondo il quale il leak sarebbe stato “politicamente motivato”. Ma bisogna aspettare ancora un mese, a fine marzo 2019, per avere qualche informazione in più. È allora che de Becker scrive un articolo su The Daily Beast, accusando direttamente l'Arabia Saudita (ne avevo scritto qua).

Entra in scena il messaggio di MBS

Benché l'accusa fosse formidabile, i dettagli del come erano però ancora inesistenti. Fino agli scorsi giorni, quando il Guardian ha anticipato una tesi clamorosa. Secondo gli esperti che hanno analizzato il telefono di Bezos, sarebbe stato uno spyware a rubare quei contenuti privati, insieme a molto altro. E a inviare lo spyware con un messaggio Whatsapp sarebbe stato addirittura MBS. Si tratterebbe proprio di quell'anodino video inviato a Bezos dal principe il primo maggio, di cui abbiamo parlato all'inizio. Una simile accusa, se dovesse trovare riscontro, sarebbe una prima assoluta, quasi inconcepibile. Un leader di fatto di uno Stato che infetta direttamente, con un messaggio amichevole, il telefono del Ceo di una delle maggiori aziende di un altro Stato.

I risultati dell’analisi sul telefono di Bezos

Come sono giunti a questa conclusione? In pratica Bezos e de Becker si sono rivolti a una società di sicurezza americana, FTI Consulting, guidata da Anthony Ferrante, un passato a capo della divisione di cyber indagini dell'FBI. Che ha svolto un'analisi forense del telefono di Bezos (il cui report è poi stato pubblicato da Vice).

Il rapporto sostiene di aver trovato un file sospetto, quello inviato da MBS il primo maggio, ovvero un video trasmesso via WhatsApp. Nel report si parla di un downloader, ovvero del file conservato cifrato sui server WhatsApp e consegnato al ricevente. Ma su tale file nessun attività di analisi sarebbe stata effettuata in quanto non era accessibile a causa della cifratura end-to-end.
Sebbene non sia stato trovato malware, software malevolo, sul telefono, gli investigatori hanno notato che subito dopo averlo ricevuto il telefono di Bezos avrebbe iniziato a trasmettere grandi quantità di dati, in pratica sarebbe iniziata “una massiccia e non autorizzata esfiltrazione di dati dal telefono di Bezos, continuata e aumentata per mesi”.

“I risultati dell’analisi forense, combinati con una più ampia indagine, interviste, ricerche e informazioni di intelligence, ha portato FTI a ritenere che il telefono di Bezos sia stato compromesso (ovvero violato, ndr), possibilmente attraverso degli strumenti procurati da Saud al-Qahtani”, che avrebbe “diretto i programmi cyber e di hacking del regime saudita”, scrive il rapporto, ricordando il ruolo di al-Qahtani nella propaganda online, incluse le campagne contro Bezos, e il suo presunto coinvolgimento nell’uccisione di Khashoggi.

Gli strumenti citati, dice il rapporto, potrebbero essere simili a quelli prodotti a fini di indagine dall’azienda israeliana NSO o da quella italiana Hacking Team (che realizzano spyware per governi) ma nessuna delle due viene indicata come sospettata. NSO ha poi smentito con un comunicato di essere coinvolta, dicendosi “scioccata” e scagliandosi contro questo genere di abusi. Anche Hacking Team, attraverso un post su LinkedIn di Memento Labs (la società che l’ha rilevata), non solo esclude categoricamente qualsiasi coinvolgimento ma dice anche di non aver mai nemmeno avuto quel tipo di attacco così come descritto nel report. E anche un esperto con conoscenza diretta degli strumenti Hacking Team, sentito da Valigia Blu e che preferisce non essere nominato, esclude che potessero essere usati per un attacco con quelle caratteristiche tecniche. Di sicuro le due aziende citate nel report forense non sono gli unici soggetti che fanno spyware per i governi.

Tornando al rapporto, in sostanza questo conclude con un “medio-elevato livello di fiducia” che l’iPhone X di Bezos sia stato violato con un malware inviato dall’account Whatsapp di MBS. L’analisi inquadra anche con sospetto i messaggi successivi inviati da MBS. Quello del novembre 2018, con la foto della donna ritenuta somigliante a Sanchez, di cui allora nessuno doveva sapere. E quello del febbraio 2019 in cui MBS mandava un messaggio in cui diceva a Bezos di non credere a tutto quello che sentiva, che Riad non ce l’aveva con lui. Questo avveniva poco dopo che il Ceo di Amazon era stato allertato, via telefono, di una campagna online saudita ostile.

Analisi tecnica debole

Il quadro indiziario complessivo, che emerge dall’analisi degli eventi, dal tempismo e dai contenuti di quegli strani messaggi, dal fatto che negli stessi mesi dissidenti sauditi venivano attaccati con spyware, e da altre fonti citate su diversi media, sembra abbastanza solido. Ad esempio, il Wall Street Journal autonomamente scrive che funzionari sauditi vicini alla corona erano a conoscenza di un piano per “hackerare” Bezos. E che il suo consigliere per il digitale Saud al-Qahtani era coinvolto, come parte di una più ampia campagna di intimidazione contro Khashoggi, che scriveva sul Washington Post.

A essere debole, almeno secondo diversi esperti di analisi forense, è invece il report tecnico. Esprime in modo semplice il senso delle critiche (alcune vanno molto addentro nei dettagli) Alex Stamos, ex capo della sicurezza Facebook oggi all'università di Stanford: "Il report forense di FTI non è molto forte. Ci sono molte prove indiziarie, di sicuro, ma non c'è la pistola fumante", scrive su Twitter. E ancora: "La cosa buffa è che sembra che FTI abbia potenzialmente l'arma del delitto che sta proprio lì, ma non ha capito come esaminarla (...) Le prove indiziarie sono ragionevolmente convincenti, ma poiché è una questione di sicurezza nazionale ora bisogna che ci siano più occhi sulle prove". Stamos suggerisce di rivolgersi anche a Whatsapp e ad Apple, dal momento che "ci sarebbero almeno una vulnerabilità iOS e una Whatsapp coinvolte" (ma se siete tecnici nel thread di Stamos ci sono dettagli più precisi. Così come nel post di un ricercatore di Citizen Lab in cui sono dati dei suggerimenti su come migliorare l’analisi).

Ricapitolando, il principale problema tecnico del report è che è incompleto rispetto all’incisività delle sue conclusioni. Lo spiega a Valigia Blu Mattia Epifani, noto consulente di informatica forense. “Loro hanno analizzato il telefono estraendo i dati con Cellebrite UFED, un dispositivo che però nel caso di un iPhone X e nella versione disponibile nel maggio 2019 permette una estrazione parziale, cioè estrae solo una parte del file system, di tutti i file presenti nel dispositivo. Questo perché per farla completa in un iPhone devi fare una operazione di jailbreaking, con cui aggiri il suo sistema di sicurezza. In tal modo ottieni non solo i dati del telefono ma anche anche eventuali eseguibili scaricati, i file di log, cioè il comportamento del sistema operativo, cosa è cambiato a livello di configurazione, la presenza di processi o applicazioni nascoste ecc. È questo che permette di fare una completa analisi forense del telefono e di individuare le tracce di uno spyware. La scelta di non fare il jailbreaking potrebbe essere dovuta alla paura di compromettere i dati del telefono, e non è sbagliato aver iniziato in modo meno invasivo, come hanno fatto. Ma poi, se vuoi trovare il software malevolo, a quel punto devi fare il jailbreak, cosa che anche loro dicono di dover fare alla fine del report, come passo successivo”.

In pratica, la perplessità di vari esperti è la seguente: perché questo passo successivo non è stato fatto prima della pubblicazione del report? Era possibile farlo? “Per farlo avrebbero dovuto rivolgersi ad alcuni servizi specifici offerti da due aziende, Cellebrite o Grayshift, che sono forniti però solo alle forze dell’ordine. L’altra strada poteva essere quella di fare il jailbreak in autonomia - un’operazione un po’ più rischiosa. Considerando la data di identificazione dell'incidente (febbraio 2019), un jailbreak per la versione di iOS disponibile in tale data è uscito nel luglio 2019 ”, prosegue Epifani.

A spiegare ulteriormente la complessità di simili indagini è Claudio Guarnieri, ricercatore di sicurezza che ha lavorato su molti casi di spyware, oggi a capo del laboratorio di sicurezza di Amnesty International. “Capisco la difficoltà di trovare lo spyware nel dispositivo dato che dal 2016 in poi è diventato sempre più difficile rinvenire il malware”, spiega a Valigia Blu Guarnieri. “Chi li produce è diventato più abile, per cui più che il file bisogna cercarne le tracce, e per farlo serve avere anche una certa conoscenza ed esperienza di come operano gli attaccanti. Tuttavia il report avrebbe dovuto essere più specifico e dettagliato su molti aspetti: ad esempio, nel rilevare il picco di traffico in uscita, avrebbe potuto specificare quali app erano coinvolte”.

Il ruolo del fratello della Sanchez

Sulle decisioni prese dal responsabile della sicurezza di Bezos e dalla società che ha fatto l’analisi, e su come sono state soppesate, al momento possiamo solo fare speculazioni. Ma certo la debolezza del report non aiuta. Tanto più che, secondo rivelazioni successive del WSJ, per gli investigatori di New York – che hanno aperto due indagini, una sul presunto ricatto del National Enquirer e una sulla presunta violazione informatica del telefono di Bezos – sarebbe stata la Sanchez a condividere con suo fratello alcuni dei messaggi privati poi pubblicati dall’Enquirer (a cui sarebbero stati venduti dal fratello). Quindi almeno per quanto riguarda quel leak la fonte non sarebbe uno spyware. Si tratta di due vicende diverse che si sono intrecciate e sovrapposte? A questo punto diventa dirimente trovare in qualche modo il malware o le sue tracce, come hanno sottolineati gli esperti di sicurezza.

Le accuse dei due rappresentanti ONU

A rinforzare le accuse di Bezos e dei suoi collaboratori a MBS era invece arrivata una dichiarazione di Agnes Callamard, la già citata relatrice ONU sulle esecuzioni extragiudiziali, e David Kaye, relatore speciale ONU sulla libertà di espressione. “Le informazioni che abbiamo ricevuto suggeriscono un possibile coinvolgimento del principe ereditario nella sorveglianza di Bezos, nello sforzo di influenzare o mettere a tacere l’attività giornalistica del Washington Post sull’Arabia Saudita. Le accuse rinforzano altre segnalazioni che indicano uno schema ricorrente di sorveglianza mirata su chi è percepito come un oppositore e su chi abbia una più ampia importanza strategica per le autorità saudite, inclusi connazionali e stranieri”. I due rappresentanti chiedono dunque una indagine sulla faccenda e ricordano come questo caso mostri la necessità di una moratoria (già chiesta in passato da Kaye) sulla vendita globale di tecnologie di sorveglianza.

Il ruolo di el-Baghdadi

I documenti collegati alla loro dichiarazione danno anche una informazione ulteriore. Dicono che anche il già citato attivista Iyad el Baghdadi, che sta ad Oslo e aveva mappato la propaganda online saudita, sarebbe stato preso di mira da uno spyware nel 2019. Addirittura, sarebbe anche stato avvisato dall’intelligence norvegese (allertata dalla CIA) di essere in pericolo, al punto da cambiare casa. E una delle ragioni sarebbe stata la partecipazione all’indagine sul telefono di Bezos.

Ora lui ha raccontato su Twitter come sarebbe stato coinvolto. Scrive che nell’agosto del 2018 voleva iniziare un progetto di mappatura della disinformazione saudita insieme al suo amico Jamal Khashoggi, anzi l’idea sarebbe stata proprio del giornalista. Il progetto, con la morte di Khashoggi, viene ridimensionato. Nondimeno, come abbiamo visto anche prima, el-Baghdadi ha poi effettivamente tracciato le campagne social pro-MBS, e soprattutto quelle anti-Bezos. Dopo lo scontro tra Bezos e il National Enquirer, e la pubblicazione da parte di el-Baghdadi dei risultati del suo monitoraggio, il team addetto alla sicurezza del Ceo di Amazon lo avrebbe contattato e avrebbero iniziato a lavorare insieme.

Vittime e aziende tech in tribunale

La vicenda specifica di Bezos e del suo telefono ha bisogno ancora di molti chiarimenti, e l’aspetto tecnico – la necessità di trovare delle prove di quel malware, al di là degli indizi – è diventata una questione centrale, anche alla luce di una spiegazione diversa per il leak del National Enquirer. Resta il fatto che in Medio Oriente troppi attivisti e dissidenti sono colpiti da strumenti di sorveglianza comprati dai governi. “Ormai ci sono anni di abusi documentati, con zero conseguenze per i clienti. Si è parlato soprattutto di alcuni Paesi, perché sono quelli che ne fanno un impiego massiccio. Ma sono molti gli Stati che ne fanno uso tra Africa, Asia centrale e America Latina. Nel frattempo alcuni di questi strumenti sono diventati più sofisticati”, commenta Guarnieri.

Ora stanno arrivando anche delle azioni legali. Ad esempio, il già citato Omar Abdulaziz ha fatto causa a NSO. Anche Facebook/Whatsapp ha avviato un’azione legale, perché, secondo l’azienda americana, lo spyware di NSO avrebbe sfruttato una vulnerabilità della funzione di video-chiamata della propria app di messaggistica (per inciso, non sarebbe la stessa vulnerabilità usata nell’attacco a Bezos). Mentre Ghanem Almasarir ha sporto denuncia contro il governo dell’Arabia Saudita. E poi c’è Amnesty International. “Abbiamo avviato un’azione legale contro il ministero della Difesa israeliano per chiedere la revoca della licenza di esportazione a NSO, portando a fondamento della richiesta il caso del nostro collega, e altri episodi”, spiega ancora Guarnieri.

Un contesto ramificato

Sullo sfondo, ci sono almeno altre due vicende di contesto da ricordare. Qualche mese fa, a novembre, il Dipartimento di Giustizia Usa ha incriminato un americano e due sauditi perché avrebbero passato all’intelligence di Riad dati su migliaia di utenti Twitter (due degli incriminati erano stati dipendenti della società americana, e avrebbero appunto abusato della propria posizione per accedere a informazioni riservate, come avevo raccontato qua). Tra gli individui spiati c’era ancora una volta Omar Abdulaziz (che ha sporto denuncia anche contro Twitter sostenendo di non aver ricevuto una notifica tempestiva e accurata sull’intrusione nel suo account).

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Infine, va ricordato che pochi giorni fa Amazon ha avviato una azione legale per bloccare un mega-contratto del Pentagono da 10 miliardi di dollari (JEDI) che è stato vinto da Microsoft. Che c’entra con tutta questa storia? L’azienda di Bezos sostiene di non aver vinto il bando a causa dell’interferenza politica di Trump. Ovviamente Microsoft ha replicato di aver vinto per propri meriti.
Intanto, nei giorni scorsi, l’unico commento pubblico di Bezos ai recenti avvenimenti è stato questo tweet: una sua foto a una commemorazione di Khashoggi.

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Immagine in anteprima via euronews

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