Alcuni giorni fa il Los Angeles Times ha pubblicato un articolo in cui diceva sostanzialmente che secondo lo studio di un gruppo di ricercatori del Los Alamos National Laboratory negli Stati Uniti si sarebbe diffuso un ceppo del nuovo coronavirus mutato in Europa (e approdato negli USA) molto più contagioso di quello originario rilevato in Cina. Secondo lo studio, pubblicato in pre-print (e, dunque, ancora in attesa di peer-review) un nuovo ceppo di SARS-CoV-2 “ha iniziato a diffondersi in Europa all'inizio di febbraio”. Ogni volta che appariva in un nuovo posto, compresi gli Stati Uniti, prevaleva su altre sequenze del virus, probabilmente per una mutazione della proteina “spike” (il piccone che consente di agganciare le cellule umane, per poi penetrare all’interno). L’articolo del Los Angeles Times è diventato presto virale ma le conclusioni cui sono giunti i ricercatori non sono giustificate dai dati presentati nello studio e sono più una suggestione per ulteriori approfondimenti e ricerche, spiega Ed Yong su The Atlantic.
Ogni volta che un virus infetta un ospite, crea nuove copie di se stesso e si trasmette e riproduce duplicando i suoi geni. Durante la riproduzione si generano degli errori nelle sequenze genomiche. Questi errori sono chiamate mutazioni, l'equivalente genetico dei refusi. Mentre si diffondono, i virus accumulano naturalmente e gradualmente mutazioni. Man mano che un’epidemia progredisce, l'albero genealogico del virus fa crescere nuovi rami e ramoscelli, nuovi lignaggi che sono caratterizzati da diversi insiemi di mutazioni. Ma un nuovo lignaggio non corrisponde automaticamente a un nuovo ceppo. Si parla di nuovi ceppi solo quando ci si trova di fronte a un lignaggio che differisce dai suoi simili in modo molto significativo. Un virus potrebbe variare dai suoi simili per facilità di diffusione (trasmissibilità), per la sua capacità di causare malattie (virulenza), se viene riconosciuto dal sistema immunitario allo stesso modo (antigenicità) o per quanto è vulnerabile ai farmaci (resistenza). Alcune mutazioni influenzano queste proprietà ma non necessariamente portano a nuovi ceppi. È come per le razze canine, scrive Young. Un corgi è chiaramente diverso da un alano, ma un corgi dal pelo nero è simile non è di una razza diversa da uno con il pelo chiaro.
La confusione nasce perché ogni anno si parla di nuovi ceppi di influenza. Si tratta di virus che mutano rapidamente e cambiano la forma delle proteine sulla loro superficie rendendoli irriconoscibili ai nostri sistemi immunitari. Per questo motivo il vaccino antinfluenzale viene aggiornato ogni anno. Non è questo il caso dei coronavirus che appartengono a una famiglia completamente separata dai virus dell’influenza e mutano a un decimo della velocità. “SARS-CoV-2 è mutato tanto da quando c’è stato il salto di specie nell’uomo, ma non più di quanto gli scienziati avevano previsto. Sì, il suo albero genealogico si è ramificato in diversi lignaggi, ma nessuno sembra materialmente diverso dagli altri”, spiega Nathan Grubaugh (Yale University) È ancora un'epidemia così giovane che, dato il lento tasso di mutazione, sarebbe una sorpresa se vedessimo un nuovo ceppo così presto”, aggiunge Charlotte Houldcroft (Cambridge University).
Di che cosa parla, dunque, la ricerca del gruppo di Los Alamos? Come detto, il team guidato da Bette Korber ha scoperto una mutazione della proteina “spike” che aggancia le cellule ospiti. Il virus rilevato in Europa ha una mutazione, nota come D614G, rispetto a quello emerso per la prima volta a Wuhan in Cina. I virus con la mutazione G, relativamente rari a febbraio, da aprile sono diventati predominanti rispetto a quelli originari in gran parte dell’Europa, del Nord America e dell’Australia. Ma, spiegano i diversi studiosi sentiti da Young, questo non è sufficiente per parlare di nuovo ceppo né per sostenere che i virus con la mutazione siano più contagiosi. È anzi possibile che questa mutazione non sia rilevante e si sia trattato di una casualità. Man mano che si è diffuso il virus ha iniziato a mutare già in Cina. È molto probabile che le drastiche misure di distanziamento sociale applicate in Cina abbiamo tenuto molti altri lignaggi di coronavirus all’interno del paese asiatico impedendo di diffondersi ulteriormente, mentre il virus con la mutazione G sia riuscito ad arrivare in Europa e poi a diffondersi, sostiene Bill Hanage, esperto dell’evoluzione dei patogeni all’Università di Harvard.
Questo non vuol dire che lo studio di Los Alamos sia sbagliato. Significa soltanto che il suo studio non è definitivo e può essere uno spunto per ulteriori analisi. Per poter arrivare a una conclusione, si dovrebbero abbinare 2 gruppi di persone con i due lignaggi diversi, avere dati clinici affidabili, le sequenze virali di ognuno di queste persone e tanti dati da poter comparare di pari passo. Poi, andrebbero fatti test in laboratorio da gruppi di ricerca diversi. Un lavoro che richiede tanti dati e tanti mesi.
Ad esempio, nel 2016, due team indipendenti di scienziati avevano dimostrato che durante l'epidemia di Ebola nell'Africa occidentale, il virus aveva avuto una mutazione che lo rendeva più infettivo alle sperimentazioni in laboratorio. Tuttavia, per quanto i dati a disposizione fossero più robusti di quelli in mano al team di Los Alamos, i due gruppi di ricerca giunsero alla conclusione che quella mutazione non era stata rilevante rispetto al corso dell’epidemia. Lo stesso discorso va fatto per due studi fatti a Singapore e in Arizona, negli USA, secondo i quali ci sarebbero dei lignaggi del nuovo coronavirus meno pericolosi e che questo farebbe pensare a un indebolimento del virus.
Ci vorrà del tempo per stabilire se ci sono più ceppi di SARS-CoV-2, se, in tal caso, uno sarà più (o meno) pericoloso degli altri e se saranno in grado di determinare l’andamento della pandemia nel mondo. [Leggi l'articolo su The Atlantic]