Da metà agosto in poi abbiamo visto salire il numero di positivi al nuovo coronavirus. Le cronache quotidiane hanno parlato di persone che hanno contratto il virus di ritorno dalle vacanze all’estero e che sono diventate a loro volta veicolo di contagio nelle cerchie di amici, parenti e contatti stretti. Il tracciamento dei contatti ha permesso di individuare un’alta quota di persone asintomatiche o che avevano sintomi lievi, tali da non accorgersi di avere la COVID-19, nel tentativo di identificare e spegnere il più presto possibile eventuali focolai. Tuttavia, le micce accese dai tanti cosiddetti “contagi da ritorno” (dalle vacanze) praticamente in tutte le regioni in un momento in cui, dopo i mesi di lockdown, il grande incendio epidemico sembrava quasi spento, evidenzia ancora una volta come la pandemia riguardi tutti i paesi e richieda risposte comuni. Fino a quando l’andamento dei contagi sarà disomogeneo tra i diversi paesi non potremo permetterci di tornare a viaggiare e a spostarci come un tempo. E quanto sta accadendo da un mese a questa parte ce lo sta mostrando impietosamente. Secondo gli esperti, si sarebbe potuto guadagnare tempo e limitare la diffusione del coronavirus se fossero stati fatti i test prima delle partenza o se fossero state adottate procedure di tracciamento transfrontaliere, tra un paese europeo e l’altro. Ma, al momento, gli strumenti utilizzati sono frammentati e non c’è condivisione di informazioni e strategie. In assenza di un meccanismo di tracciamento paneuropeo, il peso dell’attività di test, tracciamento e isolamento cade tutto sui contesti locali.