Più ore a scuola per stipendi più alti: perché la proposta di Gavosto (Fondazione Agnelli) non ha senso
4 min letturaAd agosto in Italia si parla di scuola. No, non per chiarire come sarà possibile aprire l’anno scolastico con aule in cui dopo due anni di pandemia ancora sono stipati decine di alunni in classi pollaio senza adeguati sistemi di aerazione, o come ovviare al solito problema a reperire gli insegnanti perché ormai le graduatorie sono esaurite e i supplenti non si trovano.
Il problema dei problemi, a sentire Andrea Gavosto (Fondazione Agnelli) su Repubblica è che gli insegnanti lavorano poche ore. Se vogliono essere pagati di più, scrive, dovrebbero accettare di rimanere a scuola almeno 35 ore a settimana, come avviene negli altri paesi avanzati.
I nostri insegnanti dovrebbero ricevere salari europei e lavorare secondo orari europei: trascorrendo più ore a scuola (in spazi che vanno adeguati e resi più ospitali) a svolgere le attività che permetterebbero di migliorare la qualità degli apprendimenti […] Nel resto d'Europa, queste attività sono disciplinate da contratto e svolte in genere a scuola, con un impegno lavorativo settimanale di fatto a tempo pieno (35 ore in Francia, 38 in Spagna, 40 in Germania).
Non è chiaro a quali contratti europei faccia riferimento nello specifico.
In Germania, per esempio, gli insegnanti sono tenuti, a seconda del segmento di scuola, a fare dalle 28 alle 26 ore di lezione, ma si tratta di ore di 45 minuti (in Italia sono di 60) e quindi alla fine il computo orario generale è molto simile (per altro, in Germania molti insegnanti scelgono il part time, considerando troppo elevato il regime di ore). Le ore per la correzione dei compiti sono svolte a casa; obbligatorie, come in Italia, sono le ore di riunioni e consigli di classe o collegi.
Quindi le 35 ore di permanenza obbligatoria a scuola postulate da Gavosto non è chiaro da dove siano prese. In Italia, oltre tutto, oltre alle 18 di lezione settimanale (più una di ricevimento), gli insegnanti devono anche fare 80 ore cumulative per consigli di classe, collegi docenti o dipartimenti, che si vanno quindi a sommare alle altre.
Oltre a queste, che sono ore in presenza, ci sono tutte quelle che costituiscono il lavoro sommerso degli insegnanti, ovvero la correzione dei compiti (per chi ha sette/otto classi da gestire vuol dire centinaia di elaborati al mese) e la preparazione delle lezioni e del materiale, che, contrariamente a quanto alcuni pensano, non si creano da sé.
Resta alquanto oscuro anche l’accenno di Gavosto a usare le ore aggiuntive per “le attività che permetterebbero di migliorare la qualità degli apprendimenti”. Queste sono già svolte da moltissimi insegnanti, ma sono appunto pagate a parte, con fondi del FIS o con PON europei, perché costituiscono ore di straordinario in aggiunta alla normale attività didattica. Dal momento che chi vuole può già farle e farsi pagare, risulta scorretto dire che a scuola chi fa di più non sia differenziato o retribuito di più. Infatti, chi organizza corsi pomeridiani di potenziamento o recupero già ora riceve un compenso maggiore di chi fa soltanto 18 ore di lezione standard.
Semmai il problema è che lo stipendio base è così basso che oramai nemmeno eventuali integrazioni lo portano a essere appetibile. È anche difficile pensare, come dice Gavosto, che possa attrarre personale altamente specializzato, soprattutto nel settore STEM: se un giovane laureato in matematica o discipline scientifiche sa che in altri settori fin da subito prende più del doppio, perché dovrebbe insegnare a scuola?
Ma torniamo alle 35 ore a scuola. Gavosto propone che tutto questo lavoro nel preparare lezioni e correggere i compiti sia svolto a scuola. Il motivo non è chiaro: pare più per la necessità di controllo sul personale che non per una effettivo miglioramento della qualità. Agli alunni, infatti, credo che non interessi sapere se l’insegnante ha preparato una lezione efficace stando a scuola o seduto sul water a casa sua (è incredibile, ma nei lavori creativi come l’insegnamento le buone idee possono venire ovunque e in qualsiasi momento).
Per altro è curioso come in una società che loda il lavoro flessibile e si dice pronta a incentivare lo smart working come nuova frontiera, uno dei pochi lavori che già ha una serie di ore svolte in smart working da casa dal personale sia invece demonizzata. Insomma, mentre magari i dipendenti sono incentivati a lavorare da casa nelle grandi aziende, gli insegnanti, che già lo fanno, dovrebbero andare a farlo a scuola.
Al di là della bizzarria, Gavosto glissa su un particolare fondante: dove? Gavosto dice che le scuole e le strutture dovrebbero essere adeguate. Eh già, anche perché se si vuole che alcune centinaia di insegnanti, dopo il suono della campanella, restino a scuola a studiare e pianificare le lezioni del giorno successivo, bisognerà che si trovino per loro dei luoghi dove farlo. Degli uffici, tanto per cominciare, dotati di una postazione di lavoro con computer, stampante e connessione internet, biblioteche attrezzate (diverse da quelle scolastiche degli alunni, che già scarseggiano in molte scuole), una mensa per il personale (o per lo meno dei buoni pasto, finora non riconosciuti al personale scolastico).
Nelle scuole italiane tutto questo non c’è: le aule professori, quando ci sono, sono stanze che difficilmente riescono a ospitare più di una decina di persone tutte assieme. Il resto delle aule, quando i ragazzi escono, vengono pulite e devono rimanere chiuse fino alla mattina dopo, per motivi igienici. Altri luoghi a scuola non ci sono. Gli edifici scolastici sono già in gran parte fatiscenti, riammodernarli sarebbe costosissimo e spesso richiederebbe costruzione di nuovi uffici in scuole che sono situate o in centri storici o addirittura in palazzi pieni di vincoli architettonici, per cui impossibili da ampliare.
Quindi i docenti dove dovrebbero svolgere le loro ore aggiuntive? Accampati nei corridoi? Ospitati uno sopra l’altro nell’entrata? In macchina nel parcheggio?
A una più attenta disamina, dunque, non solo la permanenza a scuola degli insegnanti non garantirebbe alcun miglioramento certo della qualità dell’insegnamento (infatti restare a scuola ore in più non vieterebbe comunque di ciondolare o pensare banalmente ai fatti propri), ma richiederebbe allo Stato un enorme esborso di denaro: non in stipendi per i docenti, ma in interventi edilizi di adeguamento.
Il tutto solo per la soddisfazione di sapere che gli insegnanti restano sul post di lavoro 35 ore a settimana come altre categorie. Vuoi mettere?
Immagine in anteprima via quifinanza.it