Giustizia è non morire sul lavoro
3 min lettura«Giustizia è non morire sul lavoro, è non morire né veder morire i propri colleghi. Senza dover morire “a norma di legge”. È lavorare senza essere sfruttati. È non dovere veder riconosciuto solo da morto quello che è un diritto da vivo». Così scrive Alberto Prunetti nella parte finale di Amianto (Agenzia X), commentando la sentenza con cui si riconosce al padre Renato - nel frattempo morto di tumore - i danni da esposizione alle polveri d'amianto; [tweetable]di fronte al tribunale della coscienza non esistono «morti bianche», ma solo «omicidi bianchi».[/tweetable]
Amianto è «storia operaia» incentrata su un padre, tubista e saldatore, e un figlio che si è trovato in mano resti da raccontare, affinché la memoria restituisse ciò che la fabbrica aveva annientato:
Renato Prunetti, operaio tubista e saldatore, era fiero della sua professione e della sua bravura. Solo che doveva coprirsi
d’amianto per svolgere il lavoro. L’amianto uccideva lentamente, e lui non lo sapeva. Quando fu noto, il padronato cercò di tenere nascosto il più possibile il male compiuto, poi di ritardare le misure riparatorie. Scegliere altre forme di protezione avrebbe compromesso un ciclo collaudato, e obbligato a spese senza rientri sul piano del profitto. Sostituire un lavoratore che muore costava (e costa) sempre meno che introdurre modifiche nel processo lavorativo. Direi anzi che oggi costa meno ancora.
C'è la volontà di trasmettere, oltre alle vicende, un mondo che è stato dissolto dall'erosione dei diritti; dove l'uomo, pur nella fatica e nel logorio della fabbrica, resiste non ancora schiacciato sulla dimensione dell'ingranaggio che deve girare per garantire indici di produzione e statistiche confortanti a beneficio dei padroni. Un mondo da trasmettere in tutta la sofferta solidità che lo contraddistingue:
è la realtà che ha bussato alle porte di queste pagine. L’immaginazione ha riempito i buchi come uno stucco di poco pregio e ha ridisegnato certi episodi per meglio riprodurre la vicenda di una vita e di una morte. Di una biografia operaia. Il racconto dovrebbe tenere come un raccordo di tanti tubi diversi. Lui lo diceva sempre: mettici il canapone, regge più del teflon. Stai solo attento a rispettare il senso della filettatura e lega il tutto con un dito sporco di mastice verde. Poi stringi con forza, ma senza cattiveria.
Quella di Renato, operaio pendolare, è una storia che percorre il tempo (dagli anni Settanta fino ai giorni nostri) e lo spazio (i vari luoghi della siderurgia italiana), e delinea la progressiva precarizzazione della classe operaia, la sua atomizzazione in unità produttiva. Dove si arriva all'eresia del tubista con partita Iva, che fa lo stesso lavoro di quando era sotto padrone, però da imprenditore di sé stesso. Che, come scriveva Sanguineti, significa «sfruttatore di sé stessi», uno sfruttamento imposto dalla necessità di lavorare, più che da ignoranza o ingenuità, poiché quella dell'operaio non è certo lotta ad armi pari, anzi. Si trova a lottare contro una lingua istituzionale che gli è estranea, che in busta paga trasforma la voce «disagio cantiere» in «premio», e si trova naturalmente a lottare con il «killer silenzioso»:
Se fosse un noir, sarebbe uno di quelli in cui si capisce subito il nome dell’assassino. Una storia di “omicidi bianchi”, con un colpevole circondato da indizi e tanti complici che negano ogni responsabilità. Senza lieto fine: la minaccia è ancora attorno a noi, libera, un killer silenzioso protetto da una legione di medici, ingegneri, consulenti, industriali.
L'autore si muove tra memoria personale - nel confronto col proprio vissuto - e ricostruzione attraverso documenti e testimonianze. Ciò lo porta a oscillare tra il passato remoto e il presente storico; quest'ultimo è usato soprattutto per il padre, affidato alla rievocazione, all'emozione che marchia la pagina e poi lascia fluire il racconto, rimanendo sempre pronta a balzar fuori con quel tono caustico e fulminante che nei toscani è sintomo di saggezza popolare di lungo corso. Scrivere è un'esperienza, e lo stile evocativo rivela al lettore la profondità del viaggio compiuto, il suo essere rivolta. Anche se si ha di fronte il mostro fabbrica, «un drago sbuffante di tubi e raccordi, un groviglio di cisterne, ciminiere e torrette» che ha inghiottito i propri cari. Anche se si fa parte della generazione del lavoro intellettuale completamente privo di garanzie che costringe anzi alla deriva tra le onde della «società liquida». Anche se la società che si riunisce attorno ai premi letterari, a quanto pare, preferisce celebrare i morti e non vuole troppe seccature dai vivi, come ci ricordano lo stesso Prunetti e Massimiliano Santarossa a proposito del Campiello e del «realismo operaio» tenuto fuori dalla cinquina finale.
«La memoria per me è una cosa viva che si preserva passando la smerigliatrice sulla ruggine del tempo» scrive Prunetti, e la lingua di Amianto trova nei toscanismi un antiruggine congeniale. Come in Voi, onesti farabutti di Simone Ghelli, la lingua è memoria e resistenza, anche se qui si preferisce l'inflessione schietta - persino volgare - invece della ricerca di lirismo («Dottore, da noi si chiamano scuregge», «andate in culo, ma di cuore»). È una scelta calibrata da mano esperta, che sa condurre il lettore in un mondo di sconfitti dove la parola non consola, ma al massimo può modulare l'intensità di un grido rabbioso.