Amazzonia, Siberia, Africa: un mondo in fiamme
9 min letturaGli incendi che stanno devastando l’Amazzonia hanno fatto notizia e scatenato una vera e propria crisi politica internazionale. Ma rappresentano solo una delle tante aree che stanno bruciando in tutto il mondo. In Africa centrale vaste distese di savana sono finite in fumo, le fiamme hanno consumato a ritmi mai osservati di recente le regioni artiche della Siberia.
Un articolo di Kendra Pierre-Louis sul New York Times mette a confronto i grandi incendi che hanno colpito il nostro pianeta negli ultimi mesi mostrando le diverse cause, caratteristiche e impatti ecologici e interrogandosi sulle conseguenze per il nostro pianeta: gli incendi possono avere effetto sul riscaldamento globale e il cambiamento climatico ha contribuito alla loro maggiore gravità, intensità e diffusione?
È un gatto che si morde la coda, spiega al New York Times John Abatzoglou, professore associato del dipartimento di Geografia dell’Università dell’Idaho. Il riscaldamento delle temperature può incrementare l’eventualità che ci siano incendi, “di grandi entità e inarrestabili su scala mondiale”. A loro volta, gli incendi contribuiscono ai cambiamenti climatici perché rilasciano anidride carbonica e possono distruggere alberi e vegetazione che producono ossigeno mentre immagazzinano le emissioni presenti nell’aria.
A destare l’attenzione degli studiosi sono soprattutto gli incendi che hanno bruciato le aree artiche. Per quanto l’Amazzonia sia comunemente ritenuta uno dei polmoni del pianeta, gli incendi artici sono particolarmente preoccupanti perché, oltre alla combustione di alberi e prati, va in fiamme anche la torba che quando brucia rilascia molta più anidride carbonica per ettaro rispetto agli alberi.
Da luglio, gli incendi hanno bruciato circa 2,5 milioni di ettari in Siberia, più di 1 milione di ettari di tundra e foreste innevate in Alaska. Tutto questo porta i ricercatori a pensare che la combinazione dei cambiamenti climatici e incendi possa alterare in modo permanente le foreste della regione. In passato incendi di torba erano rari per l’umidità delle aree del nord del mondo sempre minore da quando la regione sta diventando più calda e secca.
L’Artico – spiega ancora il professor Abatzoglou – si sta riscaldando due volte più velocemente del resto del pianeta e, man mano che le temperature salgono, “ci si aspetta che ci siano più fulmini che sono causa significativa di incendi”, innescando così un cortocircuito in cui gli incendi accelerano il cambiamento climatico con l’emissione nell’aria di quantità importanti di anidride carbonica.
In alcune aree del mondo, come l’Amazzonia e l’Indonesia, prosegue Abatzoglou, abbiamo incendi intenzionali, causati dall’azione dell’uomo che disbosca terreni boschivi per destinarli all’agricoltura o al pascolo. Poi ci sono gli incendi stagionali, come quelli che si verificano in Africa ogni due o tre anni, che quest’anno hanno destato l’attenzione dell’opinione pubblica. Infine, ci sono eventi rari e inaspettati come intensità, che non si sarebbero verificati con questa gravità in assenza di cambiamenti climatici. E questo è il caso della Siberia.
Amazzonia e Indonesia: gli incendi causati dall’azione umana
Le fiamme che hanno devastato parte della foresta amazzonica sono un chiaro esempio di incendi accesi deliberatamente dall’uomo. Nel caso del Brasile, come scrivevamo in questo articolo che ricostruiva cosa stava succedendo in Amazzonia tra deforestazione, resistenza degli indigeni e disinformazione, gli incendi sono stati guidati da una domanda globale di soia (per lo più per l’alimentazione degli animali) e bovini, richiesta soprattutto dal mercato cinese, scrive Kendra Pierre-Louis sul New York Times.
Come ha spiegato a Reuters Alberto Setzer, ricercatore dell’INPE, il Centro di ricerca spaziale brasiliano, l’alto numero di incendi non è dovuto all’inizio della stagione secca ma sono frutto di un’azione dell’uomo: «La stagione secca crea le condizioni favorevoli per l’uso e la diffusione del fuoco, ma per dare il via a un incendio serve il contributo umano, che sia deliberato o accidentale».
In altre parole, dietro gli incendi che sono divampati nelle ultime settimane c’è l’iniziativa di agricoltori che approfittano delle minori piogge e appiccano il fuoco per ottenere terre da coltivare o da dedicare al pascolo, sottraendole alla foreste, di piccoli proprietari terrieri che bruciano le stoppie dopo il raccolto, di chi compie disboscamenti illegali, dando fuoco agli alberi in modo tale che aumenti il valore dei terreni sequestrati o per far allontanare le popolazioni indigene che vivono nella foresta.
Secondo l’Amazon Environmental Research Institute (Ipam) il recente aumento del numero di incendi in Amazzonia è direttamente correlato alla deforestazione. Per quanto l’esatta dimensione del fenomeno sarà certa solo a fine anno, i primi dati preliminari suggeriscono un aumento significativo. Secondo i dati raccolti dall’INPE, a luglio 2019 la deforestazione ha avuto un incremento del 278% rispetto allo stesso mese dello scorso anno.
Tra il 2004 e il 2012 la deforestazione era diminuita del 70% grazie a politiche ambientali all’avanguardia. In quegli 8 anni il Brasile aveva creato nuove aree protette, aumentato il monitoraggio sui disboscamenti illegali, sottratto crediti governativi a quei produttori rurali colti nel dare fuoco a terreni situati in aree protette.
Ma, ricostruisce il New York Times, dopo la recessione del 2014, quando il paese è diventato maggiormente dipendente dalle materie prime agricole che produce (carne bovina e soia, motori della deforestazione: l'80% della soia prodotta in Brasile è destinata al mangime per gli animali, il resto per combustibile e alimentazione umana), il disboscamento, in gran parte illegale, è tornato a salire. La deforestazione è cresciuta negli ultimi cinque anni sotto i governi guidati da Dilma Rousseff e Michel Temer e ha avuto un’ulteriore accelerazione dopo l’elezione di Jair Bolsonaro. Il suo governo ha ridotto gli sforzi per combattere il disboscamento illegale, l’estrazione mineraria e l’allevamento su terre sottratte alla foresta. La parte brasiliana dell'Amazzonia ha perso quasi 3.500 km² di foresta nella prima metà del 2019, con un aumento del 39% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, secondo l'agenzia governativa che monitora la deforestazione.
Le comunità indigene in Amazzonia hanno usato il fuoco nelle foreste pluviali per generazioni, sebbene tendano a coltivare aree molto più piccole, piantare un numero relativamente diverso di colture e spostarsi su un nuovo appezzamento di terra dopo alcuni anni, permettendo alla foresta di ricrescere.
Quanto sta accadendo ora in Amazzonia è diverso. Gli agricoltori spesso liberano un campo per un nuovo raccolto bruciando la stoppia del raccolto precedente, e questo spiega molti degli incendi attuali.
Un modello simile si sta verificando nel sud-est asiatico, dove il 71% delle foreste di torba sono state perse tra Sumatra, Borneo e Malesia tra il 1990 e il 2015. In molti casi le foreste sono state sostituite da aziende agricole che producono olio di palma, utilizzato per qualsiasi prodotto, dal cibo fino ai profumi.
Nel 2015, lo smog e i fumi provocati dagli incendi di torba potrebbero aver portato alla morte prematura di 100mila persone, secondo uno studio pubblicato nel 2016.
L'Artico: una nuova polveriera
Anche in Artico brucia la torba, ma rispetto all’Indonesia la causa delle fiamme è diversa e a destare preoccupazione è l’eccezionalità del fenomeno. Gli incendi scoppiati quest’estate tra Alaska, Groenlandia e Siberia sono avvenuti infatti in aree che generalmente non vanno in fiamme. Secondo uno studio recente, non ci sono precedenti negli ultimi 10mila anni ed è difficile stabilire le conseguenze ecologiche.
I numeri dall'inizio dell'estate sono impressionanti. Solo tra giugno e luglio – riporta National Geographic – sono andati in fumo 700mila ettari di foreste boreali in Alaska, 150mila ettari in Alberta, poco più di 45mila ettari in Canada, almeno 3 milioni di ettari in Siberia, secondo le stime ufficiali. A fine luglio erano stati registrati più di 100 incendi nell’Artico, con il coinvolgimento di 11 delle 49 regioni russe.
Gli incendi sono stati facilitati dall'aumento delle temperature che hanno seccato le piante rendendole più facilmente infiammabili. Quest'estate alcune parti dell'Alaska hanno raggiunto temperature record: Anchorage ha toccato un massimo di 90 gradi fahrenheit (oltre 32 gradi celsius) il 4 luglio quando la media in quel periodo è di 75 gradi fahrenheit (quasi 24 gradi celsius). Solo in Groenlandia, secondo Time l'ondata di calore di luglio ha provocato lo scioglimento di 197 miliardi di tonnellate di ghiaccio.
Gli effetti degli incendi possono essere devastanti. "Le regioni artiche e boreali – spiega Elizabeth Hoy, ricercatrice esperta di incendi nell’area boreale presso il Goddard Space Flight Center della NASA a Greenbelt, nel Maryland – hanno suoli molto spessi con un sacco di materiale organico. Per il fatto che il terreno è ghiacciato, il suo contenuto non si decompone molto". Lo spesso strato di terreno, ricco di carbonio, delle foreste boreali e della tundra funge da isolante per il permafrost, lo strato di terreno perennemente congelato sotto il tappeto organico di superficie. "Quando bruci il terreno in cima è come se avessi un dispositivo di raffreddamento e hai aperto il coperchio: il permafrost sottostante si scongela e stai permettendo al terreno di decomporsi e decadere, quindi rilasci ancora più carbonio nell'atmosfera", aggiunge Hoy.
Con la diffusione degli incendi c’è stato un incremento anche delle emissioni di anidride carbonica che hanno raggiunto i livelli più alti da quando è iniziata la registrazione dei dati satellitari nel 2003. A fine luglio, Mark Parrington, scienziato senior presso il Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine, aveva affermato che la quantità di anidride carbonica emessa dagli incendi artici tra l’1 giugno e il 21 luglio si stava avvicinando all'intera emissione di Co2 da combustibili fossili del Belgio del 2017 .
I think it's fair to say July Arctic Circle #wildfires are now at unprecedented levels having surpassed previous highest #Copernicus GFAS estimated July total CO2 emission (2004/2005), & last month's 50 megatonnes (https://t.co/pGPoLaz2Q0
), and still increasing @DrTELS pic.twitter.com/c1usbimzG7— Mark Parrington (@m_parrington) July 22, 2019
Solo nei primi 18 giorni di agosto, gli incendi nell'Artico hanno provocato l’emissione di 42 megatonnellate di anidride carbonica, arrivando a oltre 180 megatonnellate dall’inizio di giugno, circa tre volte e mezzo in più delle emissioni della Svezia in un anno.
Wildfires in the Arctic often burn far away from population centers, but impacts are felt around the globe. "What we’re seeing is an accelerated fire cycle: we are getting more frequent & severe fires and larger burned areas,” says a @NASAEarth researcher: https://t.co/ThW4Zp3x6e pic.twitter.com/eDtCRZ2ISJ
— NASA (@NASA) August 17, 2019
La combustione della torba può avere effetti su un ulteriore aumento del riscaldamento globale. Quando la fuliggine prodotta dagli incendi di torba, ricca di carbonio, si deposita sui ghiacciai vicini, il ghiaccio assorbe l'energia del sole invece di rifletterla, accelerando il suo scioglimento.
"Le aree bruciate – ha spiegato a National Geographic Italia Antonello Provenzale, direttore dell'Istituto di Geoscienze e Georisorse del CNR – possono indurre grandi cambiamenti nell'ecosistema, nella vulnerabilità all'erosione e in generale nell'idrologia, cambiamenti che possono innescare effetti a catena difficili da prevedere e contrastare, specialmente quando l'area bruciata è immensa come in Siberia quest'anno".
Gli incendi in Africa subsahariana: il ciclo stagionale della combustione
Recentemente l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale è stata attirata dagli incendi in Africa. A fine agosto la Nasa ha detto che si registrano più incendi in alcune zone dell’Africa che in tutto il Brasile destando l’attenzione di gran parte dell’opinione pubblica mondiale che ha chiesto di dare voce a quei roghi di cui nessuno parla.
Una mappa satellitare della NASA mostra l'Africa centrale come una fitta macchia infuocata, dal colore molto più intenso dell’Amazzonia. Tra le regioni a rischio c'è la foresta del bacino del Congo, la seconda più grande foresta pluviale tropicale, dopo l'Amazzonia, in gran parte all’interno della Repubblica Democratica del Congo.
Tuttavia, come ha spiegato su The Conversation Colin Beale, professore associato di Ecologia all’Università di York, che per più di dieci anni ha studiato gli incendi in Africa Orientale, più che dalla loro estensione o dal numero dei focolai, l’impatto ecologico dei roghi dipende da dove scaturiscono e cosa brucia.
Innanzitutto, quelli raffigurati nella mappa della NASA rappresentano incendi distinti in una grande regione geografica e non una grande conflagrazione. Inoltre, non si tratta di incendi inaspettati. Come ha detto il professor Abatzoglou al New York Times, la regione che sta bruciando (ndr, la savana a nord e sud della foresta pluviale tropicale dell’Africa) è “l’ecosistema più soggetto agli incendi a livello globale”. Aree che, prosegue il docente, bruciano prevedibilmente ogni due o tre anni perché “abbastanza umide da accumulare nell’aria energia a sufficienza e abbastanza asciutte da poi poter bruciare. In queste zone si scaricano un sacco di fulmini”.
La maggior parte degli incendi africani attivi al momento sta bruciando nelle praterie proprio in quelle zone dove ci si aspetta che ci siano incendi in questo preciso periodo dell’anno. Si tratta di roghi accesi di solito dagli allevatori di bestiame. Alcuni incendi, spiega ancora Beale su The Conversation (ndr, qui nella traduzione in italiano di Luciana Buttini su Voci Globali), “vengono appiccati per stimolare la ricrescita dell’erba verde di queste zone, fonte di nutrimento per gli animali, altri invece sono usati per controllare il numero di zecche parassite o per ridurre la crescita degli arbusti spinosi. Senza gli incendi, molte savane (insieme agli animali che ci vivono) non esisterebbero. Così il fatto di bruciarle risulta un’attività fondamentale di gestione di molte aree protette simbolo dell’Africa”.
Beale fa l’esempio del Serengeti in Tanzania, conosciuto in tutto il mondo per la presenza di ampie specie animali e di mandrie di gnu: ogni anno metà delle sue praterie va in fiamme.
Il vero problema, conclude il professore di Ecologia, restano dunque gli incendi nelle foreste, che siano in Africa o in Amazzonia. “Le foreste tropicali sono di solito delle zone calde e umide, senza erba secca per far ardere il fuoco ed è per questo che molto spesso non bruciano. Però, se per qualsiasi motivo, il terreno si secca, o per via di una siccità o per causa della deforestazione, si creano zone aride che incontrando i venti secchi causano incendi catastrofici”. E di questi dovremmo preoccuparci.
Immagine in anteprima via NASA