Crisi climatica e disboscamenti, l’Amazzonia vicina a un punto di svolta: da foresta pluviale a savana
6 min letturaSe non ridurremo le emissioni, continueremo con interventi di disboscamento e non rallenteremo il riscaldamento globale, le foreste pluviali del pianeta potrebbero trasformarsi in savana aperta con ripercussioni a cascata sull’innalzamento delle temperature e altri fenomeni legati al cambiamento climatico.
È quanto emerge da uno studio dello Stockholm Resilience Center pubblicato il 5 ottobre su Nature Communications. Secondo la ricerca, entro il 2100 fino al 40% dell’Amazzonia e parte delle foreste pluviali del Congo e dell’Australia potrebbero essere sul punto di perdere alberi e lasciare spazio a un mix di boschi e praterie. Le foreste pluviali sono molto sensibili ai cambiamenti delle precipitazioni e dei livelli di umidità e gli incendi e le siccità prolungate di questi ultimi anni potrebbero accelerare questa transizione che, una volta superato il suo punto di svolta, è difficile da fermare. Per quanto riguarda l’Amazzonia, si parlava da tempo di questa eventualità, ma si pensava che ci sarebbero voluti diversi decenni prima che diventasse uno scenario concreto.
«Le foreste pluviali hanno una grande influenza sulle precipitazioni. Le foglie emettono vapore acqueo che cade sotto forma di pioggia. La pioggia garantisce un minor numero di incendi e la crescita di ancora più foreste», ha spiegato al Guardian Arie Staal, autore principale della ricerca. «Le attuali condizioni più secche rendono più difficile la rigenerazione delle foreste e aumentano l'infiammabilità dell'ecosistema. Una volta che la foresta pluviale si è convertita in una savana, è improbabile che ritorni naturalmente al suo stato precedente».
I ricercatori hanno simulato al computer l’intero processo di riduzione del “riciclo dell’umidità atmosferica” in quelle aree dove ci si può aspettare che ci siano delle foreste nelle regioni tropicali del pianeta, e hanno esaminato anche cosa potrebbe accadere nel caso in cui le emissioni di gas serra continuino ad aumentare, giungendo alla conclusione che buona parte dell’Amazzonia potrebbe diventare irrimediabilmente una savana.
«Con i nostri studi siamo riusciti a capire che le foreste pluviali di tutti i continenti sono molto sensibili ai cambiamenti globali e possono perdere rapidamente la loro capacità di adattamento. E dato che le foreste pluviali ospitano la maggior parte di tutte le specie globali, tutto questo potrebbe andare perduto per sempre», ha commentato Ingo Fetzer, coautore dello studio.
L’Amazzonia: la scena di un crimine ecologico
Già, lo scorso anno, quando l’Amazzonia era stata colpita da quelli che erano stati definiti gli incendi più intensi dell’ultimo decennio, scienziati del clima, economisti e ambientalisti avevano ipotizzato che entro un paio di decenni la foresta pluviale si sarebbe depauperata e si sarebbe trasformata in savana. Gli incendi si sono ripetuti anche quest’anno, con un incremento del 60% rispetto al 2019.
Sotto accusa gli interessi di agricoltori, piccoli proprietari terrieri e disboscatori illegali che avevano appiccato il fuoco per ottenere terre da coltivare o dedicare al pascolo, sottraendole alle foreste, per far aumentare il valore dei terreni sequestrati o allontanare le popolazioni indigene che vivono nella foresta, e il Presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, il cui governo ha ridotto gli sforzi per combattere il disboscamento illegale, l’estrazione mineraria e l’allevamento su terre sottratte alla foresta.
Un’inchiesta di The Intercept aveva permesso di svelare un piano segreto del governo brasiliano di disboscamento della foresta per colonizzare l’Amazzonia attraverso la realizzazione di una centrale idroelettrica, la costruzione di un ponte sul Rio delle Amazzoni, l’estensione dell’autostrada BR-163 (che attraversa il Brasile dal Rio Grande do Sul fino allo Stato del Parà, a nord) fino al Suriname, lo spostamento di popolazioni non indigene di altre regioni del Brasile nell’entroterra settentrionale dell’Amazzonia, scarsamente popolato.
Il piano di Bolsonaro arrivava dopo 8 anni (tra il 2004 e il 2012) in cui la deforestazione era diminuita del 70% grazie alla creazione di nuove aree protette, al monitoraggio dei disboscamenti illegali, alla sottrazione di crediti governativi a quei produttori rurali colti in flagrante mentre davano fuoco a terreni dove non era permesso farlo, salvo risalire dopo la recessione del 2014 sotto i governi guidati da Dilma Rousseff e Michel Temer, quando il paese è diventato maggiormente dipendente dalle materie prime agricole che produce (carne bovina e soia, motori della deforestazione: l'80% della soia prodotta in Brasile è destinata al mangime per gli animali, il resto per combustibile e alimentazione umana).
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L’Amazzonia si sta configurando come la scena di un crimine ecologico, scrivono l’urbanista Bruno Carvalho e il climatologo Carlos Nobre.
Secondo uno studio pubblicato un paio di anni fa sulla rivista Science Advances, se i tassi di deforestazione sull’intero bacino supereranno il 20-25% dell’area forestale, il processo di savanizzazione sarà irreversibile. Attualmente, spiegano Carvalho e Nobre, circa il 17% delle foreste è stato già disboscato. Solo nell’Amazzonia brasiliana oltre 8mila chilometri quadrati di foresta saranno probabilmente distrutti entro la fine del 2020. Di questo passo, il punto di svolta potrebbe essere raggiunto entro 20-30 anni. Una stima in linea con la proiezione prefigurata dalla ricerca dello Stockholm Resilience Center.
Gli effetti non ricadrebbero solo sul bacino della foresta: la grande regione agricola a sud dell’Amazzonia vedrebbe le sue temperature alzarsi; l’aria umida che soffia verso sud verrebbe ridotta, influenzando le precipitazione nel bacino del fiume La Plata nel sud-est del Sud America; la savanizzazione indurrebbe una massiccia perdita di diverse specie di piante e animali con danni devastanti per le comunità indigene e comporterebbe le emissioni di oltre 200 miliardi di tonnellate di carbonio e, contemporaneamente, una drastica riduzione dell’assorbimento dell’anidride carbonica da parte della foresta.
Infine, l’alterazione dell’attuale equilibrio ecologico potrebbe generare lo spillover (salto di specie) di virus, batteri e parassiti, con rischi ancora maggiori di future pandemie.
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Una casa per l’uomo e la biodiversità
La strada per invertire la rotta è pensare un’economia centrata sulla foresta, che preservi la biodiversità e dia agli abitanti dell’Amazzonia i mezzi per potersi mantenere, coniugando strategie di sviluppo e di conservazione, spiegano Carvalho e Nobre.
Si tratta di una visione in netta controtendenza con l’approccio che tratta la foresta esclusivamente come produttrice di materie prime per industrie con sede altrove e l’utilizzo delle sue risorse naturali per l’agricoltura, l’energia e l’estrazione mineraria che provoca rapidi cicli di degrado, proseguono i due studiosi. L’intera regione amazzonica, invece, va pensata come una casa per l’uomo e la biodiversità.
Ciò significa investire in colture sostenibili, come le noci del Brasile, il cacao e le bacche di açai, invece della soia e dell’allevamento, e assicurarsi che i profitti restino nelle comunità locali, veri guardiani della foresta.
Alcuni processi di questo tipo sono già attivi. Le bacche di açai, ad esempio, generano oltre 1 miliardo di dollari all’anno (ndr, circa 850 milioni di euro) per l’economia amazzonica e hanno migliorato le condizioni di vita di oltre 300mila produttori della regione. A Belterra, nello Stato del Parà, in Brasile, è stato avviato un progetto che riunisce organizzazioni non governative, investitori, università pubbliche e Amabela, la locale Associazione femminile dei lavoratori rurali. L'idea è che questo gruppo produca cioccolatini artigianali utilizzando il cupuaçu, un frutto amazzonico. Il gruppo sta costruendo una "bio fabbrica" che prepari, lavori e confezioni i cioccolati, utilizzando anche stampanti tridimensionali per alimenti e cucine solari.
La tecnologia, inoltre, potrebbe correre in aiuto in altri modi. La Amazon Bank of Codes punta a utilizzare la tecnologia blockchain per mappare i genomi delle foreste da utilizzare nel settore farmaceutico e in altri settori assicurando così il pagamento delle royalty. Sebbene sia considerato l'ecosistema con maggiore biodiversità del pianeta, meno dell'1% del DNA della complessa vita nella giungla è stato completamente sequenziato dagli scienziati.
«Se potessimo mappare e sequenziare il 100% della vita complessa sul pianeta, sbloccheremo una quantità gigantesca di nuove innovazioni e industrie che neanche immaginiamo», spiegava lo scorso anno al Financial Times Juan Carlos Castilla-Rubio, presidente di “Space Time Ventures”, una società tecnologica, con sede in Brasile, che lavora su biomassa, energia e rischio idrico. «Finora abbiamo sequenziato solo lo 0,28% della vita complessa sul pianeta. Ma la conoscenza di quello 0,28% è stata la base per molteplici settori (prodotti farmaceutici, chimici, carburanti) - e ha portato a un giro di soldi di almeno 4 miliardi di dollari l’anno».
In questo modo, concludono Carvalho e Nobre, creando una bioeconomia basata su una foresta permanente, preservando la biodiversità e migliorando i mezzi di sussistenza per le generazioni a venire, si potrebbe impedire di trasformare la foresta amazzonica in una savana, evitando conseguenze disastrose per l'ecosistema globale: distruggere l’Amazzonia significherebbe con molta probabilità rendere la Terra inabitabile.
Immagine in anteprima via abcnews.go.com