Caso Alpini: servono nuovi modelli di maschilità nelle scuole e nei luoghi di aggregazione
10 min lettura“Mia figlia, tornata dal suo corso all’Accademia per parrucchieri di Rimini, mi ha raccontato un evento che l’ha molto traumatizzata. Le ragazze con le docenti erano in pausa pranzo e sono scese nei bar accanto all’arco di Augusto. C’era anche un gruppo di alpini ubriachi che facevano apprezzamenti. Una delle docenti le ha richiamate per farle tornare in classe, e si è scatenato l’inferno: gli alpini l’hanno afferrata, uno di loro l’ha fatta sedere sulle sue ginocchia e hanno iniziato a palparla. Un altro le ha dato un morso sulla gamba. Era presente anche una pattuglia della polizia, che non è intervenuta. La professoressa chiedeva aiuto, mia figlia urlava. Finalmente è riuscita a liberarsi e a scappare nella scuola, con le ragazze dietro. Gli alpini le hanno rincorse dentro, cercando la donna in tutte le aule. Per fortuna altri docenti li hanno cacciati”.
Molestie verbali, aggressioni fisiche, catcalling, apprezzamenti non richiesti: sono oltre 150 le donne che hanno testimoniato di aver subito abusi da parte di alcuni dei partecipanti alla 93° adunata nazionale degli alpini, che si è tenuta dal 5 all’8 maggio a Rimini e a San Marino. In coincidenza con il 150° anniversario di fondazione del corpo, in città sono arrivate oltre 75mila penne nere, per un totale di più di 400mila visitatori: un grande raduno di soldati, ex soldati, simpatizzanti e volontari. Con un indotto stimato in 168 milioni di euro. Nei quattro giorni si sono susseguiti vari momenti rituali: dall’alzabandiera alle deposizioni di corone ai caduti, dal lancio di paracadutisti alle sfilate e concerti di cori e fanfare, fino ad arrivare alla sfilata finale.
Contemporaneamente, dal primo giorno le attiviste di Non Una di Meno Rimini, Casa Madiba Network e del gruppo Pride Off hanno raccolto e pubblicato decine di testimonianze di donne che hanno subito molestie: “Ho subito catcalling davanti ai miei figli”, racconta una donna in una testimonianza pubblicata sulla pagina Instagram di Non Una di Meno Rimini. “Mentre spingevo il passeggino, un bel gruppetto con gli occhi allupati ha deciso di comunicarmi a gran voce: ‘Mmm tutti dovrebbero avere una mamma così!’ Tutto questo davanti ai miei bambini, che per fortuna non hanno capito”.
Anche ragazzine molto giovani hanno raccontato di essere state importunate dagli alpini: “Ero in centro a Rimini con una mia amica, abbiamo entrambe 14 anni. Era pieno di alpini ubriachi. Eravamo anche vestite normalmente, e un alpino mi ha tirato uno schiaffo fortissimo sul sedere. Si sono messi a ridere. Sono rimasta traumatizzata, mi sono messa a piangere”.
La sera, il clima diventava ancora più teso. Una ragazza ha lamentato di aver dovuto spendere i suoi soldi per prendere un taxi per tornare a casa: “Sono rientrata alle 23, ma non era possibile andare a piedi: ho ricevuto fischi, ho avuto paura e non mi sentivo sicura”. Mentre un’altra racconta: “Io non sono italiana quindi non capisco bene quando fanno catcalling, ma una sera stavo tornando da lavoro mangiando un gelato, c’erano tanti alpini e uno ha toccato il mio gelato. Il suo amico ha fatto un gesto disgustoso con la lingua, puntandola verso le mie parti intime”.
Tra le più colpite sono state le lavoratrici che in quei giorni prestavano servizio nei bar, negli stabilimenti balneari e nei ristoranti: “Sabato sono arrivata al lavoro sapendo che c’era l’adunata”, racconta una donna che nel weekend lavora in un bar in spiaggia a Rimini. “Da quasi ogni tavolo in cui sono andata a prendere un’ordinazione, a portare una bibita o un piatto, ho subìto ininterrottamente molestie, dal chiedermi cosa facessi quella sera al volere il mio numero, fino ad allusioni sessuali legate al cibo: ‘Dove inzuppi la tua piadina?’, oppure ‘Qui la piada la fanno grossa o sottile? Perché a me piace grossa’”.
La mercificazione della città
La violenza di genere si inserisce all’interno di una più ampia gestione politico-amministrativa della città, che passa attraverso quella che le attiviste riminesi dei gruppi femministi definiscono una mercificazione degli spazi: “Eventi di tale portata schiacciano tutte le valutazioni sul mero parametro del profitto economico”, spiega a Valigia Blu Federica Montebelli di Casa Madiba Network, collettivo riminese che gestisce uno spazio sociale con un network di mutualismo solidale, e che è stato uno dei primi a denunciare l’accaduto. “In quei giorni sono stati fatti grandissimi guadagni, ma queste entrate restano nelle mani di pochi: l’altro lato della medaglia è che i lavoratori e le lavoratrici sono stati obbligati a turni massacranti, oltre a essere importunati dai clienti”.
Rimini è un comune di 150mila abitanti: nei giorni dell’adunata le persone presenti in città sono quasi quadruplicate. A livello di viabilità sono stati riscontrati disagi, e diverse organizzazioni hanno denunciato un’impreparazione da parte delle forze di polizia rispetto alla gestione dell’ordine pubblico. “Dovremmo chiederci: come si può costruire una città di tutti e tutte?”, continua Montebelli. “Una città in cui si esce la sera sicuri di non venire aggrediti, che sia a misura degli abitanti, dove i bisogni dei cittadini sono al primo posto, prima di quelli dei visitatori”.
Cappelli veri o cappelli “taroccati”?
Il presidente Sebastiano Favero dell’Associazione nazionale alpini (ANA), che organizza le adunate, in un’intervista al Corriere della Sera si è scusato con le vittime, affermando: “Faremo di tutto, insieme alle forze dell’ordine, per individuare i responsabili. E se sono appartenenti alla nostra associazione, prenderemo provvedimenti molto forti”.
L’ANA aveva inizialmente commentato le accuse prendendo le distanze “dai comportamenti incivili segnalati, che certo non appartengono a tradizioni e valori che da sempre l’associazione custodisce e porta avanti”, e ipotizzando che le molestie possano essere state compiute da uomini che hanno comprato un cappello e che si sono finti alpini: “Ci sono centinaia, se non migliaia, di giovani che, pur non essendo alpini, approfittano della situazione: a costoro, per mescolarsi alla grande festa, basta infatti comperare un cappello alpino, per quanto non originale, su qualunque bancarella. Un occhio esperto riconosce subito un cappello ‘taroccato’, ma la tendenza è nella maggior parte dei casi a generalizzare”.
L’associazione spiegava poi che “la grandissima maggioranza dei soci dell’ANA, a causa della sospensione della leva nel 2004, oggi ha almeno 38 anni: quindi persone molto più giovani difficilmente sono autentici alpini”. Sembrava quindi che l’associazione imputasse la colpa delle molestie a ragazzi giovani, mentre molte delle testimonianze delle donne parlano esplicitamente di uomini di una certa età. Il comunicato concludeva che sia “ingeneroso e ingiustificato veicolare un messaggio che associa la figura dell’alpino a quegli episodi di maleducazione. Gli alpini in congedo sono quelli che hanno scritto e continuano a scrivere pagine intense di sacrificio, amore e solidarietà”.
Nonostante questo, nel decalogo dell’adunata pubblicato dallo stesso sito dell’ANA, alcune regole sembrano sottintendere che gli alpini non sempre si comportino seguendo i valori che dovrebbero contraddistinguerli. Al punto 5 si legge: “I comportamenti violenti non devono in alcun modo entrare nella nostra associazione. Portare il cappello alpino non autorizza alcuno a sentirsi superiore agli altri, anzi!”. Oppure, al punto 6: “Uno degli spettacoli più rivoltanti è offerto da quanti alzano il gomito. L’ubriachezza è uno dei vizi peggiori dell’uomo: degrada e svilisce l’individuo compromettendone la dignità personale. Occorre condurre un’assidua campagna per convincere i riottosi che il bere in eccesso non ha mai reso l’alpino più alpino”. Al punto 8 si parla del rispetto per il sonno altrui: “Non si capisce perché le notti, soprattutto di sabato, molti si sentano autorizzati a infastidire il prossimo con urla, canti sguaiati, trombette e rombi di motore fino alle prime luci dell’alba. Sono manifestazioni di pura stupidità, non di alpinità”. E infine, al punto 9, si sancisce il rispetto per “il gentil sesso”: “Il comportarsi male con loro, unito a sguaiataggini varie, trasforma l’adunata in un baccanale”. Insomma, ubriachezza, schiamazzi e molestie sembrano essere noti anche agli organizzatori dell’evento.
Le reazioni della politica
Mentre il sindaco di Rimini Jamil Sadegholvaad si è detto pronto a ospitare nuovamente e il prima possibile l’adunata degli alpini, che definisce “festa di civiltà”, la vicesindaca di Rimini, Chiara Bellini, è intervenuta su Facebook dicendo che non si deve mai “accusare un gruppo o una categoria di persone solo perché fanno parte di essi alcuni poco di buono, delinquenti o molestatori”.
Anche le Donne democratiche di Rimini si dissociano “da toni accusatori, tesi a incrementare un clima di polemica generalista e qualunquista, che getta un inaccettabile discredito verso un corpo dal valore riconosciuto e indiscusso del nostro esercito”. Lo scrivono in una nota, diffusa sulla pagina Facebook della portavoce Sonia Alvisi, che è consigliera regionale di parità, in cui si invitano le donne a querelare ricordando che “la responsabilità penale è individuale” e stigmatizzando l’uso dei social “troppo spesso veicolo di informazioni approssimative e fuorvianti. Rivolgersi all’autorità è l’unico strumento valido, vero ed efficace, oltre che un diritto”. Alvisi è stata in seguito costretta a dimettersi dal Coordinamento donne del PD di Rimini.
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Il dibattito è acceso, mentre il ministro della difesa Guerini ha definito i fatti “gravissimi”, e la ministra per le pari opportunità Elena Bonetti ha parlato di una “sub-cultura di prevaricazione del maschile nei confronti del femminile”. Ad oggi, comunque, non risulta che il problema sia stato affrontato in modo più strutturato, né dal corpo degli alpini né dai decisori politici.
Il 10 maggio, intanto, è arrivata la prima denuncia formale di una ragazza di 26 anni molestata verbalmente e fisicamente da tre uomini. “Bisogna chiedersi: perché finora solo una donna ha denunciato?”, dice Federica Montebelli di Casa Madiba Network. “C’è un diffuso clima di sfiducia nei confronti delle forze dell’ordine e delle istituzioni: le donne spesso non vengono credute e sono considerate pazze o isteriche. Per violenza si intende solo l’atto fisico, le altre forme di abuso vengono prese sotto gamba. Figuriamoci quando dall’altra parte ci sono membri dell’esercito”.
Per questo, le associazioni di donne attraverso la propria rete stanno offrendo supporto legale alle donne che scelgono di sporgere denuncia: “Non consideriamo necessario che ci siano le denunce per credere alla verità delle molestie, sappiamo che sono accadute, molte più di quelle che sono arrivate a noi”, continua Montebelli. “In questo caso però le denunce possono essere uno strumento in più perché le molestie che si ripetono a ogni adunata non possano essere ignorate come in passato”.
Attraverso la sua pagina Facebook, Non Una di Meno Rimini e le altre associazioni hanno condiviso anche delle linee guida per denunciare in autonomia. Una sorta di vademecum, con una serie di consigli pratici: il primo passo da compiere è preparare una memoria scritta al computer con i propri dati anagrafici e indicazioni sul luogo in cui sarebbe avvenuto il fatto, importante per verificare l’eventuale presenza di telecamere. Quindi va fatta una descrizione della persona con cui si è entrate in contatto: aspetto fisico, simboli identificativi, colori della maglietta o della camicia, età percepita. Vanno poi precisate data e ora del fatto e i dati anagrafici di eventuali testimoni presenti, il tutto completato da eventuali foto, video, messaggi o chiamate di WhatsApp, storie di Instagram, post di Facebook.
Diverse adunate, stessi problemi
Non è la prima volta che durante l’adunata degli alpini si raccolgono segnalazioni di comportamenti inappropriati e molestie verbali e fisiche, compiute da uomini in gruppo e ampiamente tollerate. A Trento nel 2018 la polemica si era allargata al punto che gli alpini avevano chiesto ufficialmente scusa alle donne che avevano subito provocazioni. Ma quello era stato solo il caso più eclatante di una lunga serie.
“Vengo da Bassano del Grappa, sono passati diversi anni dall’ultima adunata, ma lo schifo lo ricordo distintamente”, racconta oggi una donna a Casa Madiba Network, dopo gli avvenimenti di Rimini. “In quei giorni ho lavorato in un bar, ero studentessa, e ricordo le smanacciate e la gente che mi infilava numeri di telefono nelle tasche dei pantaloni”. Era il 2008, poi nel 2015 è stata la volta dell’Aquila. “Avevo 16 anni, non potevo girare per strada senza subire catcalling, all’epoca non sapevo cosa fosse”, scrive una ragazza in una testimonianza pubblicata su Instagram da Non Una di Meno Rimini. “Ero con una mia amica a bere, si avvicinano alcuni alpini di una sessantina d’anni chiedendo se potessero ‘leccarmi la figa’ in un vicolo lì vicino perché non resistevano più. Quello che è accaduto a Rimini mi sta facendo tornare in mente scene disgustose”.
Ma quello delle adunate è solo uno dei momenti nei quali gli alpini si riuniscono. “Io abito in Piemonte, qui gli alpini sono letteralmente ovunque, anche fuori dalle adunate”, racconta un’altra donna. “È difficile immaginare di andare in caserma, dove trovi sicuramente il figlio o il fratello dell’alpino, a sporgere denuncia, e questo mette a nudo un altro grosso problema: non ci sono sedi protette dove le donne possano essere accolte per denunciare molestie e violenza di genere lontano dalle caserme, accolte da personale formato a riguardo. Se io subissi una molestia non saprei dove denunciare, avrei paura perché questi corpi sono molto cari qua al nord, e ti metti tutta la comunità contro”.
Per decostruire la mascolinità tossica serve educazione
Dopo i fatti di Rimini, una studentessa del corso magistrale in sviluppo locale globale dell’università di Bologna, Micol Schiavon, ha lanciato una petizione per chiedere la sospensione dei raduni degli Alpini. L’edizione del 2023, la 94esima, dovrebbe svolgersi a Udine: il vicegovernatore della regione, Riccardo Riccardi, ha dichiarato che “è con onore e orgoglio che il Friuli Venezia Giulia si prepara a ricevere l'invasione pacifica degli alpini il prossimo anno”.
Ma come fare affinché la storia non si ripeta? Regole più ferree, un servizio d’ordine più organizzato e controlli capillari non bastano: a cambiare deve essere la mentalità. “Il raduno degli alpini è uno di quegli spazi tendenzialmente omosociali, come sono quasi sempre quelli militari, dove viene ancora espresso il modello tradizionale e patriarcale di maschilità”, spiega a Valigia Blu Giuseppe Burgio, pedagogista dell’università di Enna Kore e autore di Fuori binario. Bisessualità maschile e identità. “Nessun uomo è costantemente desiderante 24 ore su 24, e peraltro queste modalità di abbordaggio sono inefficaci: gli uomini sanno benissimo che non è così che si entra in relazione con una donna. L’obiettivo non è quello: si tratta invece di una performance pubblica di maschilità tradizionale. Questo si verifica spesso nella fase dell’adolescenza, ma in alcuni casi si protrae anche dopo, e si rafforza negli spazi omogeneamente maschile, come gli spogliatoi, i club della caccia, i bar dei paesi, e anche manifestazioni come questa”.
Come scardinare allora questo meccanismo? “È fondamentale educare i giovani a nuovi modelli di maschilità, al plurale, ed è importante farlo in primis nelle scuole e nei luoghi di aggregazione”, conclude Burgio. “Dobbiamo entrare nell’ottica che non esiste un unico modo di essere uomo, che oggi corrisponde al maschio forte, spavaldo, che non ha paura di niente e che non deve chiedere mai. Per sostituire il modello patriarcale tossico, dobbiamo dare spazio a nuove maschilità, che vanno costruite innanzitutto per via educativa”.