La Rete è di tutti / Dignità per il lavoro con gli algoritmi
6 min letturaNel nuovo episodio di ‘La Rete è di tutti’, lo spazio di discussione di Valigia Blu sul nostro futuro con le nuove tecnologie e come renderlo a misura di uomo, diritti e democrazia, abbiamo affrontato la questione della governance degli algoritmi e delle forme di automazione, più o meno “intelligente”, che sempre più vediamo all’opera, nel mondo del lavoro, con Antonio Aloisi (Marie Skłodowska-Curie fellow e docente di diritto del lavoro alla IE Law School, IE University, Madrid) e Valerio De Stefano (professore di diritto del lavoro alla Osgoode Hall Law School della York University, a Toronto).
Sistemi a base di intelligenza artificiale (AI) che profilano automaticamente — e in profondità — i requisiti dei candidati a un posto di lavoro, valutando la loro “impiegabilità”. Sistemi che monitorano il lavoratore in ufficio o in fabbrica ma anche, come sempre più spesso accaduto durante la pandemia, a casa loro, in “smart working”. Software che ne misurano ogni gesto, movimento, abitudine, pausa, risposta per tradurli in “rating”, numeri che riassumono (spesso sbagliando o discriminando) persone — proseguendo così nell’assunto taylorista dello “scientific management” del lavoro e nell’"idea che le persone debbano essere costantemente osservate se si vuole che lavorino in modo efficiente”, come ha scritto Rachel Connolly sul Guardian.
Con una differenza: oggi il controllo si estende a ogni aspetto dell’esistenza, perché — tramite la profilazione e l’analisi intelligente delle nostre tracce in Rete — tutto ciò che facciamo nelle nostre vite quotidiane diventa pressoché sempre inestricabile da possibili conseguenze in ambito professionale.
Il “capitalismo della sorveglianza”, si potrebbe dire, è un capitalismo da cui non è possibile disconnetterci — se non, forse, per legge.
Ma ancora: governance algoritmica significa preoccuparsi dei rider e degli altri lavoratori delle piattaforme (della “gig economy” o dei “lavoretti”, come trasposto — ahinoi — in italiano) che, misurati, monitorati e insieme troppo spesso sfruttati, si vedono ancora negati tutele fondamentali.
C’è poi il livello, forse ancora più fondamentale, della contrattazione. Quale potere negoziale possono realmente avere i lavoratori e le loro rappresentanze sindacali nell’era di Big Tech, della gig economy e delle concentrazioni di potere in pochissime, enormi multinazionali private, le uniche dotate della tecnologia e dell’influenza per dettare davvero le regole del gioco? Come ci si sottrae all’idea, più ampia, che tutto debba essere automatizzato — e che dunque il lavoro, in qualche modo, forse magicamente, si adatterà comunque alla nuova “era dell’AI”? Davvero lavoreremo meno e meglio, con gli algoritmi, o saremo solo ancora più connessi, sempre lavoratori — e mai semplici, liberi, autonomi esseri umani?
Insomma, come conciliare l’irruzione di algoritmi, intelligenza artificiale e automazione nel mondo del lavoro con diritti e dignità dei lavoratori?
È la domanda di fondo che poniamo oggi ai nostri due ospiti.
Ed è, dopotutto, la stessa che loro stessi si pongono da tempo nei propri studi, discussi in tutto il mondo. Aloisi e De Stefano con le loro ricerche e pubblicazioni (tra cui il volume Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano, edito da Laterza nel 2020, ma presto anche in inglese) stanno infatti dando un contributo fondamentale al dibattito — europeo e non solo — sulla governance algoritmica nel mondo del lavoro, occupandosi di contrattazione dell’algoritmo, diritti e tutele dei rider della gig economy, ma anche di sorveglianza sul posto di lavoro, in presenza e da remoto, e già perfino degli aspetti connessi al lavoro del fantomatico e mirabolante ‘Metaverso’, l’insieme di mondi virtuali e immersivi che Mark Zuckerberg e altri CEO della Silicon Valley — e non solo — vorrebbero aggiungere al nostro, fisico, di lavoratori in carne e ossa.
Più nel dettaglio, ecco alcune delle questioni poste ai due studiosi:
– Il libro di Alosi e De Stefano, diventato un punto di riferimento per chiunque affronti la questione della governance algoritmica del lavoro, sostiene continuamente che non ci si debba arrendere ai fatalisti dell’innovazione, per cui non serve o non vale la pena o addirittura non è possibile regolare il cambiamento tecnologico, incluso quello che automatizza il lavoro e i lavoratori. Da un lato, come scrivono gli autori, l’uso della tecnologia come strumento magico con cui insieme realizzare (e distrarre da) progetti e politiche a detrimento dei lavoratori non nasce con Uber o Amazon, ma molto prima; dall’altro, e di conseguenza, nella storia si possono cercare anche tutele e norme tutt’altro che obsolete anche nel contesto della mirabolante “era degli algoritmi”. “Il punto – si legge nel libro – è sempre lo stesso. L’avanzata delle tecnologie digitali può e deve essere governata. Il processo dinamico dell’innovazione non avviene in un vuoto istituzionale, politico, socioeconomico e culturale” (p. 14). A dire: lo dice la storia, e lo dice il presente, l’innovazione si può e si deve regolare, rendere a misura di democrazia e diritti — con strumenti nuovi, certi, ma anche con quelli esistenti. Qual è la situazione, un anno e mezzo dopo l’uscita del testo? Il nostro capo è sempre più un algoritmo, e il lavoro sempre più disumano — o qualcosa è cambiato?
– In Italia i sindacati sembrano avere preso molto sul serio, e da anni ormai, la questione dell’impatto dell’automazione e degli algoritmi sul lavoro e sui diritti dei lavoratori, organizzando eventi e manifestazioni, aggiornando la formazione dei propri iscritti, e collaborando con think tank e istituti di ricerca (Forum Disuguaglianze Diversità, Centro Riforme per lo Stato, etc) che si occupano della questione. Sono effettivamente pronti a “negoziare l’algoritmo”, come si dice? E in caso contrario, di cosa avrebbero bisogno per avere un reale potere contrattuale sulle piattaforme?
– E la politica? A che punto è, nella consapevolezza dei problemi che legano algoritmi e mondo del lavoro, il decisore politico? Il ministero del Lavoro, per esempio, ha creato un Working group di esperti (tra cui il sottoscritto) sulla governance algoritmica e il futuro del lavoro, con l’obiettivo di ipotizzare un insieme di regole per meglio garantire diritti dei lavoratori e trasparenza degli algoritmi usati. Concretamente, come giudicate parole e atti della politica su questi temi? Si sono fatti passi avanti per la dignità dei rider, concretamente?
– La pandemia ha ingrossato a dismisura la già forte tendenza al monitoraggio e alla sorveglianza dei lavoratori, sia sul posto di lavoro che da remoto. Nel rapporto finale del progetto su automazione e pandemia (da me guidato per la ONG tedesca AlgorithmWatch) chiamato ‘Tracing The Tracers’, scrivevo che il numero di datori di lavoro di grandi imprese che usano strumenti per controllari lavoratori è salito al 60% con la pandemia, e andrà secondo le stime di Gartner al 70% entro i prossimi tre anni, mentre i guadagni delle aziende che forniscono strumenti di sorveglianza del lavoro sono in vertiginosa crescita — nell’ordine del 500-600% da mese a mese, normalizzando questa sorta di taylorismo aumentato dall’AI e dagli algoritmi — quello che voi definite nel libro “una sua versione sotto anabolizzanti”.
Poco sembra importare che, come prevedibile, i lavoratori non ne siano affatto contenti (meno di tre lavoratori su dieci si sentono a loro agio con macchine che prendono decisioni su di loro, ha rivelato una survey TUC). Il controllo, che si realizza in almeno 50 diverse tecnologie, ha scritto Public Citizen, si spinge fino a “segnalare chi non passa abbastanza tempo davanti al lavandino per lavarsi adeguatamente le mani”, ha scritto France 24. Il tutto senza nemmeno essere certi che queste tecnologie funzionino, o servano davvero. Quali sono le forme di controllo “intelligente”/automatico dei lavoratori che andrebbero (meglio) regolate, come andrebbero regolate e cosa si sta facendo al riguardo, a partire dall’Europa?
– In che senso il Metaverso è una questione che riguarda il mondo del lavoro e la dignità dei lavoratori? In The Metaverse is a labour issue scrivete che sarà un luogo di lavoro per molti, pur se virtuale. Con due rischi: una ulteriore spinta alla sorveglianza digitale (in questo caso, totale) sul posto di lavoro, e a quello che chiamate ‘contractual distancing’, ovvero il reclutamento fisico nei luoghi con salari più bassi e diritti minori — tanto gli uffici sono virtuali! Il lavoro nel Metaverso seguirà dunque la traiettoria del lavoro sulle piattaforme, con bassi salari, tutele insufficienti, precarietà e sorveglianza assolute? Quali regole si applicano a un lavoro che si svolge essenzialmente nel Metaverso? E come si costruiscono solidarietà e azioni collettive in un contesto simile, quando colossi come Meta — cioè Facebook — già registrano centinaia di brevetti per mettere a frutto ogni nostro movimento oculare o corporeo, ogni dato biometrico (scrive il Financial Times)?
– Nel loro libro Aloisi e De Stefano scrivono: il punto è chiederci “non quanto, ma quale lavoro vogliamo” (p. 19). Cioè scegliere consapevolmente la traiettoria del nuovo mondo del lavoro, piuttosto che lasciare siano i deterministi tecnologici (e dunque i capitani d’industria di Big Tech) a deciderlo per noi. Nell’ultimo capitolo i due studiosi elencano alcune caratteristiche fondamentali per quello che chiamate — semplicemente e in modo efficace — “un lavoro fatto bene”, e vivere “felici e connessi”. Voi ricordate anche l’art. 36 della Costituzione, che menziona l’importanza che il lavoro non solo ci sia, ma sia tale da garantire “un’esistenza libera e dignitosa”. “Libera”, “dignitosa”: due obiettivi particolarmente ambiziosi nell’era della normalizzazione della sorveglianza pervasiva — del lavoro e non — e del precariato. È possibile disegnare un lavoro che sia quantomeno a misura di Costituzione, anche con gli algoritmi? E come?
Le risposte dei nostri ospiti nel nuovo podcast di ‘La Rete è di tutti’.
Immagine in anteprima via Agenda Digitale