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Le mani della politica sui media: il caso AGI

1 Aprile 2024 11 min lettura

Le mani della politica sui media: il caso AGI

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Il 18 marzo scorso la redazione dell’AGI è entrata all’unanimità in stato di agitazione, a causa delle voci di cessione dell’agenzia stessa, attualmente di proprietà dell’ENI, al Gruppo Angelucci. A queste si aggiungono le incertezze sul futuro di AGI, su cui pendono possibili riduzioni di organico. Dopo aver indetto due giorni di sciopero, il 21 marzo, sono arrivati quelli indetti per mercoledì. Sabato 23 marzo, invece, è arrivato il ritiro delle firme dal sito.

Antonio Angelucci, imprenditore del settore immobiliare e dell’editoria, è proprietario del Tempo, del Gruppo Corriere di cui fanno pare varie testate locali, del Giornale e di Libero (attraverso la Fondazione San Raffaele). Angelucci dal 2008 è anche un parlamentare; alle scorse elezioni è stato eletto al Senato con la Lega. 

Mentre procede lo stato di agitazione, la notizia di un’offerta arrivata a ENI da parte del Gruppo Angelucci ha intanto prodotto interrogazioni parlamentari da parte di PD e M5S. L’ENI, martedì ha ammesso di essere in “fase di valutazione”, dopo aver smentito accordi su possibili vendite al Gruppo Angelucci. Secondo la Stampa, dal governo è arrivata persino la “benedizione” sulla vendita, con fonti di Fratelli d’Italia che confermano un incontro tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il senatore Angelucci. Intanto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha spiegato durante il question time alla Camera che il suo ministero, che ha una partecipazione in ENI, “non è l’autorità deputata a rispondere”.

Come riportato da ANSA, il portavoce della Commissione europea Christian Wigand, rispondendo a una domanda diretta sul possibile acquisto dell’AGI, ha fatto sapere che la questione va ancora esaminata, ma che comunque la Commissione controllerà che venga rispettato il Media freedom act (la legge sulla libertà dei media). Approvato nei giorni scorsi, la legge prevede maggiore trasparenza sulla proprietà dei media, ma è tutto da verificare come potrebbe mettersi in mezzo a una possibile cessione dell’AGI ad Angelucci. 

Come ricordava nel 2022 Vitalba Azzollini su Domani, analizzando la proposta di regolamento del Media freedom act, il provvedimento è stato pensato per “incidere soprattutto su alcuni paesi dell’est Europa, dove i limiti alla libertà di stampa sono palesi”. Il riferimento, tra i vari problemi posti all’esercizio della libertà di espressione, è all’abuso delle cosiddette SLAPP (azioni legali strategiche per ostacolare la partecipazione pubblica) o querele temerarie e alla concentrazione di monopoli. Alla base del Media freedom act c’è la necessità di contrastare un fenomeno che in Italia dovremmo aver imparato a conoscere: la forma di controllo politico dell’informazione chiamata “media capture”.

Quando la politica mette le mani sui media: la media capture

L’espressione “media capture” indica un problema sistemico nei rapporti tra politica e proprietari di media. Il rapporto tra questi due mondi è simbiotico e improntato alla corruzione che favorisce entrambi. In questo sistema, i media forniscono una copertura che sostiene i leader politici, e chi controlla i media ottiene un trattamento di favore verso le proprie aziende e i propri interessi. Questa pratica investe naturalmente altri aspetti del mondo dell’informazione, come il servizio pubblico e gli enti regolatori.

L’International Press Institute elenca i meccanismi centrali di questa pratica: il sistema pubblico radiotelevisivo viene trasformato in un megafono del governo; gli organi di regolamentazione dei media sono assimilati attraverso le nomine politiche; le risorse statali sono abusate per manipolare il mercato dei media in favore dei gruppi filogovernativi; viene creata una cerchia di oligarchi fedeli che gestiscono i media privati nell’interesse del governo.

Analoghi elementi sono individuati nel rapporto del 2019 del Media Development Investment Fund. Secondo definizioni più allargate, questa pratica rientra in forme di corruzione più estese, che portano alla “State capture”, ossia alla presa e al controllo dello Stato, e quindi degli organi legislativi, del governo, del sistema giudiziario e dei principali enti regolatori. I media non vengono catturati come pratica a sé, ma lungo la strada che porta alla dissoluzione di una democrazia liberale, verso derive cleptocratiche o autoritarie.

Il fenomeno della media capture non riguarda solo le autocrazie, ma si è fatto strada anche in Europa ed entro i confini dell’UE. Un modello lo fornisce l’Ungheria, che sotto Viktor Orbán ha conosciuto una lenta ma progressiva erosione delle basilari funzioni che regolano una democrazia. Nel 2023 Reporter Senza Frontiere assegnava all’Ungheria il 72esimo posto nella classifica sulla libertà della stampa (era 85esima nel 2022), scrivendo:

Da quando è tornato al potere nel 2010, Orbán ha attaccato senza sosta il pluralismo e l'indipendenza dei media. Dopo che il servizio pubblico è stato trasformato in un organo di propaganda, molte testate private sono state rilevate o messe a tacere. Il partito al potere, Fidesz, ha di fatto assunto il controllo dell'80% dei media del paese attraverso manovre politiche ed economiche, con l'acquisto di testate giornalistiche da parte di oligarchi amici. Un mese dopo le elezioni parlamentari del 2022, che per la quarta volta consecutiva hanno dato una maggioranza schiacciante a Fidesz, il rinomato settimanale 168 Óra è stato chiuso.

L’ONG Human Rights Watch, nel rapporto pubblicato lo scorso febbraio “I Can’t Do My Job as a Journalist”. The Systematic Undermining of Media Freedom in Hungary, cita tra i vari casi le acquisizioni dei siti di informazione Origo e Index, rispettivamente avvenute nel 2014 e nel 2020. 

Nel 2014, il direttore del sito indipendente Origo fu licenziato dopo la pubblicazione di una notizia su presunte irregolarità nella gestione dei fondi pubblici da parte del Segretario di Stato presso l’ufficio del Primo ministro. Il licenziamento scatenò una serie di dimissioni in segno di protesta, tra cui quella di Peter Gyorgy, fondatore del sito. Il licenziamento fu giustificato come frutto di una riorganizzazione interna, tuttavia la redazione denunciò le ingerenze della società che possedeva la testamta, Magyar Telekom. 

Le nuove assunzioni hanno poi portato a una nuova redazione e una linea editoriale filogoverantiva. Come già faceva notare il New York Time nel 2018, in un articolo dal titolo emblematico (“Il sito che mostra come muore la stampa libera”), Origo è diventato un fedele megafono del governo, pronto a lanciare attacchi contro George Soros e a demonizzare i migranti.

Nell’aprile 2020, invece, un imprenditore vicino a Orbán, Miklos Vaszily, ha acquistato una quota del 50% dell’azienda che controllava il sito di informazione Index. Vaszily era già stato responsabile nel 2014 nell’acquisizione del controllo proprio di Origo. A Index, dopo pochi mesi il cambio di proprietà ha portato al licenziamento del direttore Szabolcs Dull e alla sua rimozione dal consiglio di amministrazione, dopo che l’amministratore delegato si era dimesso per protesta contro il nuovo corso imposto al sito, con la decisione di esternalizzare la produzione dei contenuti. Anche in quel caso la redazione si è schierata con il direttore licenziato, e lo scontro con la proprietà ha portato a dimissioni a raffica in segno di protesta e a una nuova redazione allineata con il governo.

Anche la Serbia è un caso istruttivo di questa dinamiche disfunzionali nei rapporti tra politica e informazione, con la seconda che perde completamente la sua funzione. Il paese è 91esimo nella classifica di Reporter Senza Frontiere ed è quello che nel 2023 ha perso più posizione tra i paesi dell’Unione e dei Balcani (nel 2022 era 79esimo). 

Nel 2016, uno studio del Center for International Media Assistance sul controllo dei media nei Balcani evidenziava come nella regione dopo la crisi del 2008 si sia andati incontro a un progressivo deterioramento della libertà di espressione. Ciò ha portato a uno scenario in cui le autorità sfruttano le vulnerabilità economiche del settore. 

Così in paesi come la Serbia i giornalisti d’inchiesta più in vista, che rappresentano per certi versi il fulcro del lavoro giornalistico tradizionale, sono diventati il bersaglio di campagne diffamatorie da parte dei giornali fedeli al governo. E la stazione radiofonica B92, attraverso i cambi di proprietà, è passata da un profilo militante e umanitario, ricevendo premi per il lavoro svolto durante la guerra nella ex-Jugoslavia, al trasmettere solo musica.

Anche i casi della Grecia, ultimo nella classifica di Reporter Senza Frontiere tra i paesi dell’Unione Europea, della Polonia, della Slovacchia e della Bulgaria andrebbero visti in dettaglio. E, una volta visti, andrebbe affrontata una domanda cruciale: quanto è esposta l’Italia al rischio di media capture?

Le vulnerabilità del sistema italiano

C’è un grande rimosso nel dibattito pubblico italiano: il conflitto di interessi. Questo rimosso, e la mancanza di una legislazione seria negli ultimi trent’anni ha naturalmente un nome e un cognome: Silvio Berlusconi. Il quale, a suo tempo, dopo la “discesa in campo” negli anni Novanta nella sua duplice veste di imprenditore monopolista e politico (poi Presidente del Consiglio) sdoganò due pratiche: l’uso ad personam della politica e la militarizzazione dei media per consenso politico. 

Di solito politica e industria dell’informazione dialogano o entrano in conflitto, ma non sono incarnate da una sola figura e da una classe dirigente al suo seguito. Da imprenditore, nel 1990, Berlusconi aveva lavorato perché la politica approvasse una legge sui media a lui favorevole, la cosiddetta Legge Mammì, che normalizzava di fatto il duopolio Rai-Mediaset. Da Presidente del Consiglio ha potuto portare in Parlamento i suoi avvocati perché portassero avanti leggi da usare nei processi che lo vedevano coinvolto.

Circa il secondo aspetto, ricordiamo per esempio la fuoriuscita di Montanelli dal Giornale, o gli imbarazzanti siparietti durante la campagna elettorale con i conduttori delle reti Mediaset impegnati in veri e propri spot elettorali. Ma anche la promessa di conseguenze poco piacevoli per chi sgarrava (“ti scateno contro le mie tivù”, secondo un famoso retroscena dell’epoca, rivolto all'alleato di governo Marco Follini), e quindi un sotteso effetto intimidatorio. 

A evitare una presa totale sui media, in quegli anni, è stata naturalmente la presenza di altri attori di peso nel panorama dei media. Ovvero gruppi privati che, disponendo di giornali o radio o piccole emittenti, garantivano nella difformità di interessi un certo grado di pluralismo; tra questi, anche i giornali di partito. Ma, a conti fatti, quel pluralismo era pur sempre la fotografia di un sistema disfunzionale, un equilibrio molto fragile in assenza di regole da democrazia matura. Tra i pilastri di quel surrogato di pluralismo c’è naturalmente il Gruppo Editoriale L’Espresso: sul piatto della bilancia, tra le voci in attivo, va messa la qualità del giornalismo d’inchiesta e le firme di peso che ha saputo esprimere. Ma attualmente pezzi fondamentali di quel gruppo vengono via via ceduti; dopo l’Espresso nel 2022, ultimo in ordine di tempo è Il Secolo XIX. La stessa Repubblica, nave ammiraglia della flotta mediatica che fu di Carlo De Benedetti, viagga tra voci di vendita almeno dal 2023, con relativi stati di agitazioni. Tra queste voci, a metà marzo Milano Finanza riportava ancora il nome di Angelucci.

Insomma, in tre decenni, parafrasando una celebre imitazione di Corrado Guzzanti, abbiamo tolto il conflitto e sono rimasti gli interessi, intanto che la torta dell’industria dell’informazione diventa sempre meno appetibile, mentre resta la fame di corretta informazione. Mutati i rapporti di forze, cambiati i vertici di alcune proprietà, chiuse o accorpate testate giornalistiche o emittenti, l’idea che la politica sia la coltivazione di interessi personali è diventata normalità. L’eccezione si è imposta come regola e modello di carriera. 

Così parlamentari considerati “di centro” o “liberali” come Matteo Renzi dirigono giornali (come già Veltoni all’Unità), entrano o escono in consigli di amministrazione, fanno conferenze per regimi incassando somme di molto superiori allo stipendio di un parlamentare. Ed è tutto legale. I conflitti di interesse della ministra Santanché, col balletto attorno alla delega per il turismo, vanno avanti dalla sua nomina e sono aggravati dalle inchieste, ma tuttavia non sembrano sufficienti a farla dimettere. 

Dove non arriva il controllo diretto della stampa, ci pensano gli avvocati, tanto che le cosiddette SLAPP o querele temerarie sono una pratica piuttosto bipartisan. La stessa presidente del Consiglio ha presentato più volte cause per diffamazione contro giornalisti, scrittori e intellettuali, come se non avesse altri mezzi per far valere la sua voce. Del resto l'attuale sottosegretario alla Giustizia Alberto Delmastro, oltre che fedelissimo di Meloni, è stato avvocato della premier nelle querele presentate contro Domani e lo scrittore Roberto Saviano.

Che il conflitto di interesse non sia stato problematizzato a sufficienza, va detto, lo si deve anche a una classe politica e intellettuale che nel complesso non è stata all’altezza. Questo lo si è visto anche nella profonda discrepanza tra la copertura mediatica della morte di Berlusconi sui media stranieri e italiani. Dove in questi ultimi è prevalso un certo filone alla “siamo tutti figli di Berlusconi” o “non possiamo non dirci berlusconiani”; un filone che sa di terapeuti abbandonati troppo in fretta più che di matura elaborazione politica. Va tuttavia riconosciuto che in un quadro così anomalo, e proprio per il peso esercitato da media ed editoria, promuovere una legge sul conflitto di interesse è molto difficile. La componente simbolica di molto impegno civile e intellettuale di questi anni è anche prima di tutto il sintomo di una macanza di capacità d’azione. Un’impotenza che si consola con il clamore estetico della performance indignata.

Quanto al settore pubblico, siamo pur sempre il paese che fa fatica a spiegare in lingua inglese cosa sia la “lottizzazione”, pratica per cui esiste persino un manuale, il Cencelli. Lottizzazione che, per l’appunto, concepisce gli organi pubblici, enti regolatori e organizzazioni come qualcosa che va suddiviso in fette, e quindi occupato secondo criteri razionali. “Fuori i partiti dalla Rai” (slogan tra l’altro di una nostra vecchia campagna) è uno slogan che nessun partito con vocazione maggioritaria ha mai davvero fatto proprio. L’idea di riformare il servizio pubblico dovrebbe prima di tutto passare per un cambiamento culturale radicale nel mondo di intendere la geografia del potere che passa per viale Mazzini, Palazzo Montecitorio, Palazzo Madama e Palazzo Chigi. 

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Andrebbe poi aperto un capitolo a parte solo per la questione dei contributi per i giornali: a prescidere da come la si pensi, in mancanza di una salda cultura dell’informazione e della trasparenza la pratica presta il fianco al peggior clientelismo. Si fatica a concepire qualcosa di più parassitario di giornali con tirature minime che campano grazie ai fondi elargiti dalla politica, mentre tuonano un giorno sì e l’altro pure contro questo o quel “sussidio”.

Tornando al punto di partenza, ossia alla possibile acquisizione dell’AGI da parte del Gruppo Angelucci, comprendiamo come il senatore non sia tanto un problema, quanto il sintomo più evidente. Ma la malattia di cui si dovrebbe discutere è fin troppo spesso ignorata, o la discussione si perde in diatribe sterile. Di fronte all’ipotesi di un passaggio di proprietà da ENI al Gruppo Angelucci, qualcuno, anche solo come reazione di pancia, è portato a pensare: cosa cambia? ENI non porta avanti i suoi interessi, non ha mai querelato chi ha fatto inchieste sul suo conto, non è controllata dalla politica? A che titolo e nell’interese di chi si incontrano per discuterne un senatore e una Presidente del Consiglio?

Tuttavia la libertà di informazione andrebbe concepita e soprattutto vissuta come una scala, con delle gradazioni. Da un mese all’altro, col trascorrere degli anni, si può essere via via meno liberi, meno informati, pur nell’offerta di notizie. Le classifiche servono anche a questo, ad avere cognizione della fluidità dei diritti riconosciuti. Bisognerebbe perciò chiedersi cosa Angelucci può guadagnare dall’acquisto di AGI e cosa può guadagnare ENI. Chiedere più trasparenza possibile sui termini dell’accordo poiché, se l’industria dell’informazione può passare per mani private, la funzione che svolge è di essere lo sguardo dell’opinione pubblica. Dai paesi sottoposti a media capture non dovremmo assorbire paure o etichette da affibbiare; dovremmo piuttosto studiare i sintomi da riconoscere, i possibili anticorpi e vaccini da elaborare, la precisione degli allarmi da lanciare.

Immagine in anteprima: Il Fatto Quotidiano via YouTube

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