La guerra in Ucraina rischia di scatenare una crisi alimentare e disordini politici in tutta l’Africa
8 min letturaÈ la fame una delle conseguenze delle guerre, soprattutto di conflitti prolungati e anche se tali conflitti si stanno svolgendo lontano da quei territori che pure ne pagheranno le conseguenze. L’Africa - i suoi leader, ma anche la gente comune che affida opinioni e timori ai social media - osserva con apprensione quanto sta accadendo in Ucraina. Tutti sanno che ne saranno in qualche modo toccati. A partire da quei paesi che hanno forti relazioni politiche, ma soprattutto commerciali, sia con il paese aggressore, la Russia, sia con quello che si è ritrovato in casa bombe e carri armati. Entrambi giocano un ruolo fondamentale nel mercato agricolo mondiale, a partire dalla produzione ed esportazione di cereali e grano, settore in cui - secondo gli ultimi dati - raggiungono le quote di produzione europee. Insieme detengono quasi un terzo delle quote di esportazione di grano e orzo.
Nel 2020 i due paesi - oggi più rivali che mai - hanno fornito quasi il 30% del grano a livello mondiale (18% la Russia, 8% l’Ucraina). E sempre nel 2020 i paesi africani hanno importato dalla Russia prodotti agricoli per un valore di 4 miliardi di dollari. Circa il 90% era, appunto, grano; il 6% olio di girasole. Tra i principali paesi importatori, l'Egitto, che acquista circa l’85% del suo grano da Russia e Ucraina, seguito da Sudan, Nigeria, Tanzania, Algeria, Kenya e Sudafrica. Nello stesso periodo l'Ucraina ha esportato in Africa prodotti agricoli per un valore di 2,9 miliardi di dollari. Circa il 48% dell’ammontare riguardava il grano. Entrambi i paesi sono anche importanti produttori di mais - le cui esportazioni nel 2020 hanno rappresentato il 14% dell’export globale - e di olio di girasole. Sempre nello stesso anno, le esportazioni di tale prodotto dall'Ucraina rappresentavano il 40% delle esportazioni globali, il 18% dalla Russia.
Ma è sul grano, appunto, che si gioca ora la partita difficile che investirà i mercati, i Governi africani, la società civile. In un momento già precario in cui si cerca di arginare al meglio la crisi - che sta già facendo sentire i suoi effetti - provocata da due anni di pandemia, di restrizione dei movimenti, di sacrifici richiesti alle popolazioni. Come ricorda il recentissimo report dell’UNCTAD - organismo delle Nazioni Unite sul Commercio e Sviluppo - sono 25 i paesi africani che dipendono dal grano russo ed ucraino. E alcuni di essi hanno già sperimentato situazioni serie di insicurezza alimentare e di forti proteste di piazza scaturite dall’aumento del prezzo del pane. Soprattutto in Nord Africa e soprattutto in paesi instabili come la Libia. A peggiorare le cose - afferma il report - la mancanza di stock per compensare la carenza di forniture e l'aumento dei costi per i fertilizzanti che costituisce un onere aggiuntivo per gli agricoltori.
Nel frattempo, l'aumento dei costi per la spedizione di cereali e altri alimenti base sta provocando velocemente l’incremento dei prezzi, cosa che naturalmente colpisce più duramente le classi più povere. Senza contare che circa la metà del grano che il Programma alimentare mondiale acquista per sfamare 125 milioni di persone in tutto il mondo proviene dall'Ucraina. E così, quello che sta accadendo potrebbe tradursi in "una catastrofe non solo in Ucraina, ma potenzialmente a livello globale", ha detto giorni fa David Beasley, direttore esecutivo del WFP. La guerra e il blocco delle esportazioni del grano, ha aggiunto,"avranno un impatto su milioni e milioni di persone, in particolare nei paesi più poveri del mondo".
L’insicurezza alimentare, insomma, è più che una semplice ipotesi. Anche il Fondo Monetario Internazionale ha già da tempo lanciato l’allarme su quelle che presto saranno le conseguenze della guerra in corso, e soprattutto l’impatto dell’aumento del prezzo di beni di prima necessità e il blocco della catena di approvvigionamento sulle popolazioni. Ed è quello che sta cominciando ad accadere. Centinaia di navi container, contenenti appunto tonnellate di grano e pronte a salpare dal Mar Nero, da quell’area nota come “il granaio del mondo”, sono state bloccate nei giorni scorsi dalle forze armate russe. Ma pare che anche i carichi russi siano fermi. Azioni di sabotaggio a cui si aggiunge l’impossibilità - che si farà sentire nel corso dei mesi - di compiere le normali attività agricole.
Gli effetti di lunga durata del blocco delle forniture e dell’aumento dei prezzi non saranno gli stessi per tutti e alcuni paesi si stanno già attrezzando per trovare soluzioni alternative, ma il confronto con eventi di poco più di un decennio fa possono aiutare a considerare i possibili rischi. La relazione tra l’aumento del prezzo del pane e l’instabilità politica è stata ampiamente analizzata a seguito dello shock sociale e politico degli eventi della Primavera araba. Ma già nel 2007-2008 una crisi globale dovuta a diversi fattori - climatici e restrizioni nell’import-export, per esempio - era stata la scintilla per rivolte popolari in Paesi come Haiti, Bangladesh e, in Africa, Mozambico, Egitto, Niger. Ed è stata la scarsità di cibo e l’incremento del prezzo del pane e di altri beni di prima necessità - ma anche la reazione a regimi brutali - l’elemento trainante delle successive rivolte, nel 2010, nei paesi del Maghreb e del Medio Oriente.
Molte furono all’epoca le analisi su quanto la dipendenza dall’estero avesse influito sull’impoverimento delle popolazioni, specie di quelle rurali. E sono propri i paesi del Maghreb - Egitto, Tunisia, Marocco, Libia e Algeria, che dipendono fortemente dal grano importato - che potrebbero essere i più colpiti dall'inasprimento delle forniture e dall'aumento dei prezzi. E allora, cosa aspettarsi nell’immediato futuro? Come il conflitto tra la Russia e l’Ucraina “colpirà” i Paesi africani?
Difficili le previsioni - come lo stesso report delle Nazioni Unite già citato, afferma. Ma di sicuro il conflitto e le sue certe conseguenze a livello globale potrebbero incidere profondamente sulle società africane - soprattutto quelle più instabili e con conflitti in corso - che negli ultimi due anni hanno già sperimentato costanti aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari. Ancora prima dello scoppio della guerra i cittadini kenyoti, per fare un esempio, avevano avviato una campagna sui social media, #lowerfoodprices, sollecitando il Governo ad azioni per calmierare i prezzi dei beni di maggior consumo. Richieste analoghe - insieme ad altre rimostranze - dal movimento #fixthecountry in Ghana. Incrementi, quelli dei beni alimentari, che secondo la FAO già a febbraio avevano raggiunto punte massime rispetto agli anni scorsi e possono rappresentare un alto rischio per le popolazioni più fragili e per i paesi dipendenti dalle importazioni.
La stessa Agenzia ha lanciato un chiaro allarme affermando che la continuazione del conflitto peggiorerà lo stato della sicurezza alimentare globale. Secondo gli economisti della FAO i prezzi del grano potrebbe aumentare dell'8,7% considerando uno “scenario moderato” e del 21,5% in caso di uno scenario più grave; quelli del mais potrebbero subire un incremento tra l'8,2% e il 19,5%. La guerra potrebbe dunque peggiorare il bisogno di cibo, aumentare la fame. Il rapporto dell’Organismo dell’ONU, infatti, stima che il numero di persone denutrite a livello globale potrebbe aumentare da 7,6 milioni a 13,1 milioni di persone, a seconda dello sviluppo degli eventi. Per non parlare dell’esorbitante aumento (e carenza) del prezzo del carburante, già in atto e che praticamente non sta risparmiando nessun paese sub-sahariano, neanche la Nigeria, principale esportatore africano di greggio, ma non in grado di raffinarlo.
Ma torniamo al cibo. Il rischio concreto, già tangibile nell’aumento dei prezzi, va a sommarsi con la grave crisi ambientale che sta investendo grandi aree del continente. Secondo le Nazioni Unite almeno 13 milioni di persone nel Corno d’Africa rischiano di morire di fame se non verranno raggiunte dagli aiuti umanitari - quegli aiuti che come dicevamo sono in forse a causa degli effetti del conflitto tra Russia e Ucraina. Per tre anni consecutivi in Somalia, Etiopia e Kenya è praticamente saltata la stagione delle piogge e questo ha decimato i raccolti e provocato la morte di decine e decine di capi di bestiame.
Eppure, questa stessa situazione: il rischio, la paura, l’incertezza del futuro, potrebbe, secondo alcuni analisti, rappresentare un’occasione per il Continente. Sono molte oggi le nazioni africane che nel tempo hanno costruito - e stanno costruendo - stretti rapporti commerciali e “di amicizia” con la Russia. Tra queste il Sudafrica - che come la Russia fa parte del BRICS - ma anche l’Egitto, la Nigeria, la Libia e l’Angola. E poi ci sono le relazioni strette con Mosca dai regimi militari: Guinea, Mali, Burkina Faso, Sudan. E gli aiuti militari, in armi, training, forze speciali e i famigerati mercenari della Wagner - pensiamo tra gli altri alla Libia, alla Repubblica Centrafricana, al Mozambico. Alcuni di questi, non a caso si sono astenuti nel voto all’ONU per la risoluzione di condanna dell’aggressione all’Ucraina da parte della Russia.
Ma torniamo ai possibili “benefici” che il Continente potrebbe addirittura trarre dalla difficile situazione in corso. Secondo alcuni analisti il conflitto potrebbe rappresentare il momento opportuno per i paesi africani - in particolare Nigeria e Angola, ma anche Repubblica Democratica del Congo e Algeria - per presentarsi all’Europa come produttori alternativi di petrolio e gas. Si tratterebbe quindi di aumentare la produzione e le esportazioni. Ma anche come area privilegiata per operare quella transizione all’energia verde di cui da molto tempo si parla.
Quel che è certo è che lo scenario cambierà, come sta già cambiando la geopolitica. Anche quella africana dove l’Europa da tempo non è più l’interlocutore privilegiato - basti pensare alla presenza consolidata della Cina, ma anche della Turchia e della stessa Russia. Ma a cui il Vecchio Continente dovrà continuare a rivolgersi tenendo conto dei mutati contesti politico-sociali che nel frattempo si sono formati. Una geopolitica che ormai non risponde più a criteri esclusivamente territoriali e che addirittura passerà anche dall’aumento del prezzo del pane e da come Governi e cittadini reagiranno.
Intanto i paesi che rischiano di più cercano di prendere provvedimenti. L’Egitto, ad esempio, a cui rimangono 5 milioni di tonnellate di grano in stoccaggio, che basteranno per nove mesi circa, sta valutando accordi commerciali con altri paesi, anche se - ha affermato giorni fa un portavoce del Governo – i costi sono più alti di quelli applicati da Russia e Ucraina. Le bread riots del 1977 sono un ricordo ancora vivo nella classe dirigente e nella popolazione egiziana. E - dopo quelle del 2011 - è l’ultima cosa che il Governo attuale vorrebbe rivivere. Altra soluzione è quella di riprendere in mano progetti e idee riguardo l’aumento di produzione sostenibile di grano e altri cereali in piccola e media scala per fare fronte alla domanda regionale.
Nel settembre 2021 l’Institute for Security Studies sottolineava quanto la situazione del momento fosse pericolosamente simile a quella che aveva provocato le proteste popolari del 2007-2008 che coinvolsero oltre 30 paesi di cui 14 in Africa. Il conflitto russo-ucraino era ancora lontano (ma prevedibile, come sappiamo). Un’analisi, quella dell’Istituto di ricerca, che appunto sostiene l’equazione ovvia e pericolosa tra aumento dei prezzi dei beni di prima necessità e il rischio di rivolte. “Le statistiche - si legge - indicano che tra il 2007 e il 2008 l'indice dei prezzi alimentari secondo la FAO era aumentato del 25%. Questo è notevolmente inferiore all'aumento del 33% che si è avuto tra agosto 2020 e agosto 2021”. Ed è notevolmente diverso - aggiungiamo - dalla situazione attuale, con un conflitto in atto. Prevedere le food riots non è un esercizio così complesso. Basta leggere cifre ed eventi. Prevenirle è quello che conta.
Immagine in anteprima: Kate Holt/AusAID, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons