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Debunking Africa: nuovi sguardi per conoscere il Continente

31 Marzo 2024 9 min lettura

Debunking Africa: nuovi sguardi per conoscere il Continente

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Quando si pensa all’Africa sono di solito le cose forti, drammatiche che prevalgono. E quelle tinte forti si ritrovano nel modo di raccontarla. Cose come conflitti e violenze, povertà che spesso fa rima con siccità e ambienti ostili (siano essi sociali o naturali). Cose come la corruzione e leader affamati di potere e a questo attaccati fino alla fine dei loro giorni (non prima di averne assicurato il passato alla discendenza, maschile ovviamente). Cose come una politica del saccheggio di beni e risorse – dall’esterno con la complicità di chi governa; dall’interno da parte di chi mette al primo posto l’arricchimento personale anziché la crescita del paese e la giustizia sociale. E cose come una natura meravigliosa, che ipnotizza e che ammala chi ne fa esperienza con il “mal d’Africa”. 

Tutto risaputo. Ormai esso stesso un discorso stereotipato. Proprio come quei cliché concentrati, con estrema sagacia e ironia, in How to write about Africa, del giornalista, scrittore e attivista LGBT, Binyavanga Wainaina. Nell'aprile 2014, la rivista Time lo segnalò come uno dei  Most Influential People in the World". È morto nel 2019. Ma ha fatto in tempo a lasciarci un Manifesto che mette in luce tutte le debolezze nell’approccio a questo continente. Mai un saggio così breve fu più eloquente. Ne citiamo una parte: 

L’Africa deve essere compatita, adorata o dominata. Qualunque sia la tua prospettiva, assicurati di lasciare la forte impressione che senza il tuo intervento e il tuo importante libro, l’Africa è condannata”. 

In poche parole la sintesi di quella che è stata definita la sindrome del white saviour. Atteggiamento che, non solo non salva nessuno, ma semmai accresce dipendenza e senso di inferiorità, alimenta l’industria del volontourism e persino frena o addirittura provoca danni allo sviluppo. E a proposito di volontariato: quando vedremo giovani africani dedicare un gap year in una scuola di un quartiere di periferia di una città europea? Se vi sembra un ossimoro allora il problema è centrato. 

Dunque, dicevamo, “cose forti e drammatiche” e quelle vie di intersezione che definiamo contrasti. Altro termine con cui cerchiamo di dare una lettura dell’Africa. Ma se cominciassimo a percorrere una via nuova? Una via nuova con una parola nuova: sfumature. Sono quelle che bisogna cercare e provare a capire. Sono le sfumature che permettono di raccontare anche le cose “forti e drammatiche” con un occhio diverso, evitando magari di cadere nella vittimizzazione di un’Africa che soffre o nell’esaltazione di un’Africa resiliente (altra parola troppo abusata). Sono le sfumature che permettono di riconoscere i cliché (che non sono falsi, badate bene, semplicemente sono incompleti e non sono l’unica verità, l’unica storiaChimamanda Ngozi Adichie) e andare oltre. 

E allora, come/dove trovarle queste sfumature? Quelle che permettono di guardare attraverso ed avere così nuove chiavi di lettura? Penso che la letteratura africana offra questa occasione, sia uno strumento essenziale per costruire percorsi di conoscenza meno inquinati da interpretazioni e più aderenti alla realtà e alle esperienze dirette. 

Intendiamoci, non è che intellettuali, scrittori, poeti africani abbiano l’attitudine a nascondere, sottovalutare o ridimensionare le criticità, le cose forti e drammatiche. Al contrario. Quello che fanno è mettere in ordine la storia, rappresentarla e rappresentarsi. È così che anche gli aspetti più critici trovano una dimensione più ampia e nello stesso tempo circostanziata, contestualizzata. 

L’Africa in realtà si è sempre raccontata, la letteratura precoloniale non era fatta solo di oralità e la forma scritta – nelle lingue locali – è una inestimabile fonte per approfondire le tradizioni, miti, leggende, forme di vita quotidiana di una Africa (quella a sud del Sahara) che però era destinata a profondi cambiamenti dovuti alla sempre più incisiva presenza dei colonizzatori, al capovolgimento delle strutture sociali, all’imposizione delle lingue europee. 

In questo senso si colloca la “narrazione dei pionieri” e due sono le pietre miliari che raccontano di questi cambiamenti: uno è “Etiopia Unbound: Studies in Race Emancipation” (1911) l’altro è “Things fall apart” (1958). Il primo, del 1911 del ghanese J. E. Casely Hayford, è citato come il primo romanzo in inglese di uno scrittore africano. Tra fiction e advocacy politica questo testo fa parte della cosiddetta narrativa panafricana. L’altro testo, ormai celebre, dello scrittore nigeriano Chinua Achebe, è una critica lucida del colonialismo, responsabile di una frattura insanabile nella società nigeriana partendo dalle piccole comunità rurali. Ma è da qui che lo sguardo si capovolge, il punto di vista cambia. È quello che consente di osservare e criticare la cultura occidentale “arrogante ed etnocentrica”, che impone lingua, religione, educazione, leggi. Il nuovo sguardo era cominciato. E consisteva nel non stare più dalla parte di chi è scrutato e interpretato, ma da quella di chi osserva e giudica. 

Non a caso Things fall apart (Le cose crollano) fu uno dei testi maggiormente invisi e censurati. Fu anche il destino di altri libri coraggiosi. Come alcuni della sudafricana bianca Nadine Gordimer (premio Nobel per la letteratura – 1991) censurati nell’era dell’apartheid per la sua critica al sistema razziale imposto in Sudafrica. Tra i più noti Burger’s Daughter e July’s People. Del resto è stato calcolato che in quel paese nel periodo compreso tra il 1950 e il 1990 furono vietati 26.000 libri (ovviamente non solo di autori africani). 

Altra riprova dell’attenzione che gli intellettuali africani hanno sempre prestato alle loro leadership è il caso dell’opera teatrale I Will Marry When I Want, scritta in lingua Gikuyu (Ngaahika Ndeenda) da Ngũgĩ wa Mirii e dal celebre autore Ngũgĩ wa Thiong'o. Presentata per la prima volta in Kenya nel 1977, fu bandita dopo poche settimane. Gli scrittori furono prima arrestati, poi mandati in esilio. A non piacere al governo dell’epoca erano i riferimenti a una maniera ritenuta ipocrita di gestire l’indipendenza, alla corruzione, al ruolo giocato dalla religione e agli influssi del capitalismo. Quella stessa opera oggi rientra spesso nei cartelloni del Kenya National Theatre. 

E a sfidare i luoghi comuni sulle donne africane, sul loro ruolo e posizione nella società, sono le donne stesse. Quelle che hanno usato la letteratura per interrogarsi e per affrancarsi dalla società maschilista. E non è certo bastato vietare la vendita e la lettura di La Bastarda (2016) di Trifonia Melibea Obono nel suo paese, la Guinea Equatoriale. Non solo perché l’opera è stata comunque tradotta e diffusa all’estero, ma anche perché temi come l’omosessualità e la sessualità, considerati tabù sono stati ampiamente sdoganati. Compresa una sessualità aperta e “senza confini” come quella raccontata dalla ghanese Nana Darkoa Sekyiamah nel suo The sex life of african women (2021). Non a caso citata tra le più influenti femministe africane della nuova generazione. 

Donne che devono molto a quelle che le hanno precedute. E i cui temi includono la lotta al patriarcato, l’affermazione della propria autonomia, la rivelazione delle proprie identità soffocate dalle politiche maschili, e quindi dalla misoginia derivate dal colonialismo e fatte proprie, anzi esasperate, dai governi post-coloniali. Lo racconta molto bene la zimbabwese Tsitsi Dangarembga in Black and Female (2022) lavoro di interpretazione della società dello Zimbabwe, percorso iniziato venti anni prima con Nervous Conditions. 

Ma come faremmo a conoscere – davvero e senza filtri – le storie delle donne africane (e di qualunque condizione sociale) senza aver letto Efuru di Flora Nwapa che fece la storia quando uscì per la prima volta nel 1966: primo romanzo pubblicato da una donna africana nera a livello internazionale; oppure la meravigliosa Yvonne Vera (Zimbabwe) che senza autocensure ha toccato temi tenuti di solito nascosti: l’ineguaglianza tra i sessi, l’incesto, la violenza sessuale, l’aborto, il suicidio. 

O ancora, quei primi romanzi che cominciavano a raccontare le difficoltà dell’emigrazione per una donna africana:  come Second Class Citizen (1974) della nigeriana Buchi Emecheta e Our Sister Killjoy (1977) della ghanese Ama Ata Aidoo. E quelli che affrontavano la posizione della donna nelle società poligamiche. Un capolavoro in questo senso (per i messaggi che veicola) è Une si longue lettre (1979) della senegalese Mariama Bâ. Tema affrontato ma non completamente risolto – anche se una maggiore scolarizzazione, consapevolezza e autonomia economica stanno facendo molto di più di quanto riescano a fare le leggi (quando ci sono). La poligamia, una delle facce del patriarcato, è ancora diffusa e non solo nei paesi a maggioranza islamica, come ci ha ricordato la scrittrice mozambicana Paulina Chiziane nel suo Niketche (2001). 

E si deve ancora alla letteratura africana femminile la capacità di accompagnarci nella storia di alcuni paesi. Ne citiamo tre: Kintu (2014), dell’ugandese Jennifer Nansubuga Makumbi. Una vera e propria epopea di 450 pagine che attraversa tre secoli di vita di una famiglia ugandese ma anche tre secoli di storia e di eventi attraverso le generazioni, l’impero buganda con i suoi miti e mitologie, il colonialismo britannico. Impossibile dimenticarlo. L’altro è Beneath the lion’s gaze (2010) di Maaza Mengiste che racconta una parte assai rilevante della storia dell’Etiopia, la caduta dell’imperatore Hailé Selassié, l’instaurazione del regime comunista del Derg e gli orrori che ne seguirono. Vale la pena ricordare che l’Etiopia – a parte i cinque brutali anni di occupazione dell’Italia fascista – non fu mai colonizzata. Infine, Homegoing (2016), della ghanese Yaa Gyasi. Due sorelle, due storie che cominciano in Ghana nell’epoca della tratta. Storie che prendono strade diverse fino a coprire otto generazioni passando per le fortezze dove venivano rinchiusi gli schiavi prima di essere spediti nelle Americhe, le piantagioni del Mississippi, la guerra civile americana, l’età del jazz ad Harlem… 

Anche sulle migrazioni e i terribili viaggi in mare l’Africa non ha aspettato di essere raccontata da altri. Come non ricordare Mbëkë mi. A l’assaut des vagues de l’Atantique (2009) romanzo di Abasse Ndione, uno dei massimi esponenti della cultura senegalese, scomparso recentemente. Un viaggio in piroga di 45 uomini e una donna verso l’Europa. Ne venne tratto, nel 2012, il film documentario "La pirogue" del regista Moussa Touré. Toccante, drammatico, maledettamente realistico. Come il libro. 

Insomma, cambiare la narrazione sull’Africa equivale a conoscerla e a farsela raccontare da chi ci sta dentro. E capire come stanno evolvendo le società al suo interno, come si stanno organizzando i rapporti tra questa e l’Europa, quali sono le sfide per la classe politica del futuro, quale sarà il ruolo dell’Africa nel sistema di pensiero filosofico contemporaneo. I saggi di Achille Mbembe - uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo – e il suo pensiero critico elaborano tutto questo e ancora di più: un tesoro tutto da scoprire.  E a proposito del ruolo della letteratura, il filosofo camerunense afferma: 

“Ero molto interessato alla questione dell’identità, che ho scoperto attraverso la letteratura africana. In particolare attraverso la poesia nera trasmessa dal movimento della Negritudine (Sédar Senghor, Césaire, Damas e gli altri…). Una letteratura che si sforza di restituire all’Africa il suo volto, il suo stesso volto. E il suo posto nella storia del mondo.” 

L’Africa cresce e continua a crescere, non solo dal punto di vista demografico – entro il 2025 un bambino su 3 sarà africano e ci saranno al mondo più africani che cinesi – ma nel contesto delle relazioni internazionali. Lo sta dimostrando ormai da tempo la competizione tra i vari attori: Russia, Usa, Turchia, Europa - per citarne qualcuno – compresa la nostra Italia con il Piano Mattei che appare più un tentativo di non perdere un posto al sole che altro. 

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Ma con o senza interventi esterni l’Africa sarà sempre più centrale e protagonista. Anche nel campo dell’informazione. Le fonti, a cui dovrà rivolgersi chi vuole scrivere o raccontare il Continente, saranno sempre più africane – giornalisti africani, testate africane, piattaforme e canali social africani, libri africani -. E persino la poesia, esercitata dai giovani soprattutto nelle forme della spoken word e dello slam poetry come atto politico, di denuncia, ribellione. E questo non solo perché si investe poco in corrispondenti e inviati (soprattutto in Italia) ma perché è sempre più ovvio che i cliché non bastano più, che la conoscenza di un territorio e degli eventi è cosa indispensabile per capire e poi raccontare. Perché sono le sfumature ad aprire degli squarci e a permettere sguardi diversi. 

Debunking Africa, nuovi sguardi per conoscere il Continente

Il panel debunking africa con Chiara Piaggio e Antonella Sinopoli

Nell'ambito dell'iniziativa Valigia Blu Live, Chiara Piaggio (antropologa) e Antonella Sinopoli (giornalista, fondatrice di AfroWoman Poetry) interverranno il 18 aprile al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia nel panel Debunking Africa, nuovi sguardi per conoscere il Continente.

Immagine in anteprima via Georgetown University

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