Cosa c’è dietro i colpi di Stato di questi giorni in diversi paesi africani
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I colpi di Stato non sono tutti uguali. Non lo sono le cause, le modalità, i protagonisti. E soprattutto, non lo sono i tempi. I tempi storici. Ecco perché interpretarli richiede uno sforzo di comprensione e uno sguardo meno rigido. Al susseguirsi di golpe in Africa degli ultimi anni non c’è una sola risposta. E quelle di oggi potrebbero non essere le stesse quando ci sarà stato modo di osservare il risultato di questi avvenimenti. L’unica cosa davvero certa è che il continente sub-sahariano sta vivendo una evoluzione. Nuova, in qualche modo imprevista (e in larga misura, imprevedibile). Sicuramente di portata storica. E i golpe a tale evoluzione sono funzionali, ne sono in qualche modo l’evidenza. Proprio perché non sono esattamente equiparabili a quelli – per esempio – dei primi anni dalle indipendenze.
Dal 1950 in Africa ci sono stati 214 colpi di Stato, di questi 106 riusciti. I numeri più alti, in assoluto, nel panorama globale. Su 54 paesi, 45 ne hanno fatto esperienza. Di almeno uno. O di 17, come il Sudan. E ognuno di questi ha visto svilupparsi schieramenti, aiuti, appoggi di vario genere da parte del mondo occidentale (e non solo).
Molti dei colpi di Stato nei primissimi anni dalle indipendenze sono stati “manovrati” dagli ex colonizzatori europei (soprattutto da Francia e Belgio) e dagli USA e questo vale anche per gli assassinii di leader carismatici e critici nei confronti di chi li aveva fino ad allora dominati e per questo ritenuti pericolosi (solo la Francia è ritenuta coinvolta in 22 casi di omicidi dal 1963), come Patrice Lumumba, primo ministro della neonata Repubblica Democratica del Congo (con la responsabilità di Bruxelles) e Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso che contestò la schiavitù economica a cui l’Occidente aveva sottoposto l’Africa e chiese l’annullamento del debito voluto dai colonizzatori, “una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata” disse. Oppure per il colpo di Stato che sostituì il presidente del Ghana, Kwame Nkrumah.
Troppo comunista per un presidente come Lyndon Johnson. “Il colpo di Stato in Ghana è un altro esempio di colpo di fortuna fortuito. Nkrumah stava facendo di più per indebolire i nostri interessi di qualunque altro africano nero. In reazione alle sue inclinazioni fortemente filo-comuniste, il nuovo regime militare è quasi pateticamente filo-occidentale”.
Così scriveva, in una lettera indirizzata al presidente degli Stati Uniti, il suo assistente agli Affari della sicurezza nazionale. “We face neither East nor West: we face forward” (non guardiamo né ad Est né ad Ovest: guardiamo al futuro), affermava quello che è stato il presidente del primo paese dell’Africa sub-sahariana a conquistare l’indipendenza (1957). Ma le idee (e le dichiarazioni) panafricaniste di Nkrumah non sono mai state apprezzate da chi voleva continuare a tenere il controllo su paesi che solo formalmente stava lasciando. Bisognava schierarsi e schierarsi “dalla parte giusta”. Quella parte che ha finito per tollerare (e continua a farlo) l’autoritarismo purché non venisse messo in discussione il proprio vantaggio strategico ed economico. Dopotutto, non solo i governi ma aziende e multinazionali (tranne quelle che commerciano in armi) hanno più vantaggio in un ambiente controllato, dove gli attori con cui gestire gli affari sono noti e tendono a rimanere gli stessi, che non in una situazione di caos.
In quest’ottica di “reciprocità” non occorre stupirsi se molti leader africani siano stati più vicini - anche per scelta e interesse - a Stati che li avevano precedente sottomessi che ai paesi africani con cui confinavano.
Lasciare l'Africa "indipendente" non è mai stato davvero nelle intenzioni dell'Occidente. Il muro di Berlino è caduto da un pezzo e così pure è finita da un pezzo la guerra fredda, ma l'Africa rimane lo scacchiere su cui giocarsi poteri e influenze. Oggi prive di ideali (o ideologie) ma pericolosamente improntate a una geopolitica fatta soprattutto di interessi commerciali e legata alle enormi risorse del continente. Sicuramente i golpe di oggi - e soprattutto quelli degli ultimi tre anni – hanno caratteristiche diverse anche se non va mai dimenticata l’impronta segnata dal passato anche sui governi africani attuali.
Le ingerenze esterne ai golpe rimangono forti ma si rischia di insistere troppo sull’importanza che le nazioni occidentali - a cui oggi va aggiunta la Russia, in qualche misura la Cina, ma anche tutti quei paesi che nel frattempo hanno stretto forti relazioni, non solo commerciali con l’Africa – hanno nei particolari contesti in cui i colpi di Stato si sono sviluppati. Si rischia così di continuare a considerare gli africani come manovrabili, privi di iniziative e senza coscienza politica.
Dopo il golpe del Sudan nell’ottobre 2021, il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, aveva parlato di “un’epidemia” di colpi di Stato” e aveva affermato che ciò era anche dovuto a un “ambiente in cui alcuni leader militari sentono di avere totale impunità e possono fare quello che vogliono perché non gli succederà nulla”. Non ha però citato, Guterres, un altro tipo di impunità a cui i cittadini di molti paesi africani si sono dovuti adattare, quella di leader che più che presidenti sono di fatto regnanti a vita.
Prendiamo il Gabon, protagonista dell’ultimo golpe. Il presidente deposto, Ali Bongo, era alla guida del paese dal 2009, quando era succeduto al padre, Omar Bongo che a sua volta era stato al potere 42 anni, fino alla sua morte. In questi anni una serie di riforme della Costituzione del paese ha trasformato il regime semipresidenziale del Gabon in un sistema presidenziale completo. Un modo per formalizzare - hanno sostenuto attenti osservatori - una “monarchia ereditaria”. E appena prima delle ultime elezioni – rese poi nulle dal golpe – Il Parlamento aveva approvato una seconda serie di riforme ripristinando, tra l’altro, il voto a turno unico.
Quella di modificare le Carte costituzionali per restare al potere a tempo illimitato è cosa diffusa. Lo fece Robert Mugabe in Zimbabwe, dove “regnò” dal 1980 al 2017 (primo ministro, poi presidente). Fu costretto a dimettersi, a 93 anni, e messo “sotto custodia” dell’esercito. Lo ha fatto Teodor Obiang, 81 anni, attuale presidente della Guinea Equatoriale. Ha assunto la presidenza nel 1979 togliendola con la forza allo zio. In pratica, dall’indipendenza dalla Spagna, il paese ha avuto solo due presidenti/dittatori. C’è poi José Eduardo dos Santos, che ha guidato l’Angola per 38 anni. Si è ritirato a cinque anni dalla morte lasciando il comando a João Manuel Gonçalves Lourenço dello stesso partito, il Movimento popolare di liberazione dell’Angola, nato appunto per guidare la liberazione del paese dal Portogallo. Altro presidente ancora al potere grazie alla modifica costituzionale che ha rimosso il limite del mandato, è il camerunense Paul Biya. Ha 90 anni e ricopre l’incarico dal 1982. Modifiche alla Costituzione per restare al potere le aveva volute Idriss Déby, che è stato presidente del Chad dal 1990 all’anno della sua morte, 2021. Déby aveva attuato un colpo di Stato contro il dittatore Hissène Habré. Ora al potere c’è un presidente di transizione, il figlio di Déby, Mahamat Idriss. Anche in Togo si è ricorsi alla modifica della Costituzione per consentire la continuazione della presidenza di Faure Gnassingbé, in carica dal 2005. Faure è subentrato al padre Eyadéma dittatore del paese (a seguito di due colpi di Stato) dal 1967 alla sua morte. E, spostandoci in Africa orientale, dobbiamo ricordare Yoweri Museveni, 78 anni, presidente dell’Uganda dal 1986. Dal 2005 la Costituzione del paese non prevede più limiti per il mandato presidenziale. O anche il Rwanda, dove attraverso un referendum si è “deciso” di garantire al presidente Paul Kagame, ormai in carica dal 2000, di restare al potere.
Partiti unici, dittature travestite da democrazia (che evidentemente non si basa in modo esclusivo sul rito delle elezioni, il cui risultato è spesso prevedibile), atteggiamenti minacciosi nei confronti degli oppositori, sono tutti motivi che hanno privato i giovani del diritto e della voglia di fare politica. In questi giorni abbiamo spesso assistito a manifestazioni di gioia per le strade, giovani che sostengono i militari che hanno rovesciato lo status quo. Sì, certo, alcuni sono strettamente legati ai presidenti spodestati. Come il caso del generale Brice Oligui Nguema, che ha appena prestato giuramento come presidente ad interim del Gabon. Nguema, leader dalle forze militari che hanno compiuto il golpe è cugino del presidente spodestato. Fatto è che praticamente tutti i governi africani, dai più dittatoriali ai più democratici, hanno (o hanno avuto) l’abitudine di circondarsi non solo di persone fidate, come farebbe chiunque, ma di membri della famiglia, del proprio gruppo etnico o clanico.
Dove sono le nuove generazioni in tutto questo? Sono davvero così sciocchi dal non capire che finiscono per cadere dalla padella alla brace? Una risposta la dà Farida Bemba Nabourema. L’attivista e scrittrice togolese che ha fondato il movimento "Faure must go” con riferimento, appunto alla dinastia Gnassingbé al potere in Togo da 56 anni. “Ci vuole un’estrema mancanza di empatia per non comprendere la rabbia che hanno i giovani e il sollievo che provano quando i soldati cacciano i loro oppressori”, scrive l’attivista a proposito di una grande domanda che sta circolando questi giorni, cioé quanto sia reale (e perché) il sostegno dei giovani africani (in Mali, Guinea, Niger, Burkina Faso, Gabon) ai militari che si sono resi protagonisti dei golpe degli ultimi mesi. Nabourema mette in guardia contro chi credendo “che solo i leader portati al potere attraverso i processi elettorali meritino di governare – percepiscono i giovani di oggi come scarsamente istruiti, inclini alla manipolazione e vittime di populismo”. Una gioventù, quella africana che rappresenta oltre il 70% della popolazione, e che per quanto poco spazio venga loro concesso, non va sottovalutata.
I parametri con cui stiamo interpretando questi golpe – il peso dell’influenza dei paesi occidentali o dei mercenari russi, il sentimento antifrancese, il rischio che alla fine nulla cambi perché, come in Gabon, appunto, sarà sempre la stessa famiglia a detenere il potere, il timore di quanto una situazione incerta possa danneggiarci, come nel caso del Niger, la principale rotta migratoria dall’Africa sub-sahariana verso il Mediterraneo – sono tutti giusti ma non definitivi. E soprattutto, si fermano a considerare spesso solo gli effetti e non le cause.
I giovani africani vogliono andare in un’altra direzione. Anche passando per un golpe. Ed è per questo che quella del Sudan è forse la situazione più drammatica. Lì a tentare la rivoluzione e a consentire la caduta di una dittatura trentennale sono stati i giovani, traditi poi dalla sete di potere di due forze militari contrapposte che hanno portato il paese nel caos.
A credere nell’impulso – e nel nuovo carattere degli ultimi colpi di Stato – è lo scrittore congolese Alain Mabanckou, che parla addirittura di una Primavera africana, un Risveglio, dice, che può in qualche modo ricordare i fatti del 2011 in Nord Africa e Medio Oriente. Lo scrittore parla di “aspirazione alla libertà dei popoli contro regimi monolitici” e dice anche: “Non importa chi è il liberatore, questa è una questione successiva”. L’ex potenza coloniale – che spesso dimostra di non essere così tanto superata – continua a pensare “di avere a che fare con popolazioni che non sanno decidere da sole, che hanno bisogno di tutela”.
Ma a dimostrazione di quanto i punti di vista siano diversi, anche tra gli intellettuali e osservatori africani, citiamo Tafi Mhaka, esperto di politica, che su Al Jazeera dice praticamente il contrario.
“Ciò a cui stiamo assistendo in Mali, Niger, Burkina Faso e altrove non è l’inizio di una ‘rivoluzione africana’, non è una rivoluzione anti-coloniale. (…) Ciò a cui stiamo assistendo è che solo poche élite militari approfittano della genuina sofferenza e frustrazione del loro popolo per promuovere i propri interessi. Stanno impiegando la retorica antimperialista per ottenere il sostegno delle strade, ma stanno facendo ben poco per favorire effettivamente l’indipendenza dell’Africa e liberarla dalle grinfie delle potenze esterne”.
È chiaro, dunque, che effetto domino o meno, è in atto un mutamento ancora difficile da analizzare, da capire in tutti i suoi aspetti. Il ricercatore ghanese Nana Kwasi Amoateng, parafrasando Clausewitz, afferma: “I colpi di Stato in Africa sono la continuazione della politica con altri mezzi”. E, soprattutto, accade “nell’Africa occidentale dove i sistemi politici favoriscono solo la classe politica a scapito delle masse”.
Alti livelli di povertà (che, sottolineiamo, anni di aiuto e cooperazione non sono riusciti a risolvere), cattiva governance, eccessiva influenza di paesi stranieri, società civile inefficace: sono queste, secondo gli osservatori occidentali, le principali cause che generano malcontento nelle popolazioni. Quelle popolazioni che oggi sembrano sostenere i golpisti. Ma, come si diceva all’inizio, e come sottolinea Chidi Anselm Odinkalu, attivista, avvocato, professore alla Fletcher School, i golpe in Africa non sono tutti uguali e fa una differenza tra quelli militari e quelli civili. Quelli cioè adottati con referendum pilotati o fatti di minacce e paure, oppure con riforme costituzionali. “Gran parte della risposta ai colpi di Stato militari in Africa - scrive - è acritica e superficiale e lascia ai cittadini del continente la scelta tra un governo civile illegittimo o un malgoverno militare messianico”. Odinkalu avverte: “I civili che sfruttano le elezioni per mantenere il potere in modo illegittimo possono essere più pericolosi dei soldati che eseguono colpi di Stato”. E conclude: “Se il mondo imparasse a trattare i colpi di Stato civili in Africa con lo stesso senso di allarme che riserva ai colpi di potere militari, probabilmente avrà maggiore successo nel porre fine ad entrambi”.
Immagine in anteprima: Un gruppo di alti ufficiali militari del Gabon mentre annuncia di aver preso il potere alla televisione nazionale – frame video Al Jazeera via YouTube