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Cosa significa vivere nell’inferno del regime talebano: la testimonianza di un giornalista afghano

21 Ottobre 2024 9 min lettura

Cosa significa vivere nell’inferno del regime talebano: la testimonianza di un giornalista afghano

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Se da tre anni la vita è un inferno per le donne afghane – appena colpite nell’agosto scorso dalle ulteriori restrizioni imposte dalla nuova legge del governo talebano per ‘Promuovere la virtù e prevenire il vizio’ - , anche per molti uomini lo è. E questo è ancora più vero se sono di etnia hazara e di religione sciita, e ancora di più se fanno anche i giornalisti, tanto da rischiare il carcere proprio per questo. A raccontare questo inferno dalla parte degli uomini è Hossein Karimi (pseudonimo scelto a tutela della sua sicurezza), un giornalista della provincia di Herat sorpreso dal ritorno al potere dei talebani a Kabul, il 15 agosto 2021, mentre si trovava nella capitale, dove aveva compiuto i suoi studi universitari e trovato impiego in un quotidiano locale. 

“Quando i talebani sono arrivati ​​a Kabul – ricorda Hossein, 38 anni, parlando con Valigia Blu - ero nell’ufficio del giornale e stavo parlando con i miei colleghi di come continuare il lavoro da remoto. Alla notizia del loro arrivo in città siamo usciti: tutti tornavano a casa terrorizzati, molte donne piangevano. Il 15 agosto Kabul era ormai una città fantasma, nello sguardo della gente c’erano dolore, paura, disillusione. Ho chiamato i miei per rassicurarli sulle mie condizioni. Il terrore era penetrato anche nella provincia di Herat, e le persone non lasciavano le case per paura dei talebani. Soprattutto le ragazze non uscivano per timore di arresti, torture, stupri e rapimenti, già imprigionate in casa. Un panico mortale si era diffuso in tutto l'Afghanistan, soprattutto nella capitale: la gente si precipitava nei supermercati e nelle panetterie per fare scorte, mentre centinaia di migliaia di persone correvano all'aeroporto di Kabul per fuggire dal Paese”. Molti di questi, aggiunge, sono riusciti a lasciare l'Afghanistan anche senza documenti, per poi cominciare il difficile percorso dei rifugiati. “Sfortunatamente altre persone con documenti legali sono rimaste in Afghanistan, sotto minaccia e a rischio di tortura da parte dei talebani”. “La gente pensava la repressione, ma i talebani hanno annunciato un'amnistia generale. Tuttavia, un gran numero di appartenenti alle forze armate del governo repubblicano, giornalisti e attivisti per i diritti delle donne sono stati arrestati, torturati e anche uccisi”.

Hossein ha dovuto aspettare quattro mesi prima di fare ritorno nella sua zona di origine, dove da allora vive con la madre e tre sorelle. Il padre è morto alcuni anni fa. “Avevo provato anche io a espatriare dall'aeroporto di Kabul con l’aiuto di alcuni giornalisti stranieri – racconta - ma pensando che le mie sorelle e mia madre sarebbero rimaste sole non me la solo sentita. Loro non potevano raggiungermi a Kabul, perché i mezzi di trasporto erano fermi e gli aeroporti chiusi. Anch’io non potevo andare da loro, perché tutte le vetture venivano controllate”. 

Arrivare finalmente a casa non è stata però la fine dei problemi: alla questione della sua personale sicurezza si è aggiunta quella di come mantenere la famiglia. Le sorelle, che prima studiavano una all’università e le altre a scuola – “hanno tutte smesso con lo studio e le attività sociali e lavorative. Si sono limitate a studiare online, inglese, informatica e altre materie. Cerco di sostenerle perché possano realizzare i loro sogni, ma non è facile: per esempio, a volte non posso pagare la connessione internet. Inoltre, non hanno accesso al web di alta qualità, oltre che a laptop e smartphone avanzati”. E non è solo un problema di tecnologia. “Nonostante i miei sforzi, lottano con problemi di salute mentale e sono depresse. Come loro – e come me, milioni di ragazze afghane soffrono di questi problemi. Purtroppo le scarse risorse economiche limitano il nostro accesso ai servizi sanitari e a pasti nutrienti”. 

A tutto questo, si è aggiunto il tremendo terremoto del 7 ottobre 2023 che ha ucciso circa 2mila persone nella provincial di Herat, e ha danneggiato anche la casa di Hossein. In attesa di riparare i danni, lui e la sua famiglia hanno vissuto in una tenda da lui stesso improvvisata. “Mentre continuavo a lavorare sodo per la famiglia e dovevo affrontare problemi molto complessi, dovevo anche nascondermi per le minacce e da paura di essere arrestato dai talebani, cambiando domicilio diverse volte”. 

“Da tre anni in Afghanistan non c’è possibilità di lavoro e io non posso lavorare negli uffici governativi o in quelli privati ​​vicini ai talebani. Ho tentato diverse volte di entrare clandestinamente in Iran, ma senza riuscirci”. L’Iran, che dal 1979 ha assistito all’arrivo di cinque ondate di afghani in cerca di rifugio dalle guerre nel loro paese, oggi ne ospiterebbe circa cinque milioni, se non di più. Benché la maggior parte sia irregolare, e negli ultimi tempi siano state adottate politiche più restrittive - con numerose espulsioni e la costruzione di un muro sul confine - gli afghani rispondono al bisogno di manodopera in settori poco attrattivi per gli iraniani, dall’edilizia all’agricoltura. Hossein ha dovuto comunque  adattarsi a lavori edili e molto faticosi in patria. “Fortunatamente a volte ho occasione di preparare un reportage per una testata europea e questo mi permette di respirare, anche se i miei problemi sono così tanti che non riesco a raddrizzare la schiena, sotto il loro peso”. 

Alla fine è arrivato l’arresto tanto temuto; durante un controllo, I talebani lo hanno trattenuto sia per la sua appartenenza sciita, rivelata dagli evidenti tratti somatici degli hazara, sia per le sue occasionali collaborazioni con la stampa straniera. “MI hanno arrestato per motivi legati a questioni religiose – dice - e per un reportage che avevo fatto per una tv spagnola. Sono rimasto in carcere per circa dieci giorni, che mi sono sembrati decine di anni. Ho subito tutti i tipi di tortura fisica e mentale, i talebani mi hanno torturato senza pietà”. 

Normalizzare i Talebani? Il dilemma del riconoscimento

In questi tre anni, “la presenza dei talebani a Kabul e in altre città è diventata normale e le persone continuano la loro vita, ma certo non è come durante il governo repubblicano - osserva Hossein, ricordando il ventennio tra il primo e il secondo governo dei talebani - quando eravamo liberi e sereni. Ora le preoccupazioni principali della gente, specialmente delle famiglie composte in maggior parte da donne, sono il pane, la sicurezza e il denaro. Purtroppo gran parte dell'Afghanistan ha dimenticato cosa siano l'istruzione, il lavoro e le attività sociali e politiche delle donne e delle ragazze, e l’unico pensiero degli afghani è trovare il pane. Spero che il paese venga liberato dalle grinfie di questi criminali professionisti e dai gruppi terroristici, in modo che le donne e tutto il popolo afghano possano respirare ed essere di nuovo liberi. Spero anche che i paesi del primo mondo (l’Occidente, ndr) non dimentichino il popolo afghano, in particolare le donne e le ragazze, e con il loro sostegno portino la luce nei loro cuori”. 

Ma come fare per aiutare la gente dell’Afghanistan? Continuare con la politica delle sanzioni USA e UE contro i Talebani, cosa che rende fra l’altro più difficile fornire aiuti alla popolazione più bisognosa ma anche sostenere l’economia del paese, oppure trovale formule per interloquire con il nuovo governo, ponendo come condizione il rispetto dei diritti delle donne e delle minoranze, per allontanare lo spettro della povertà per milioni di persone? 

Nell’agosto scorso il governo degli Emirati Arabi Uniti ha accolto le credenziali di un ambasciatore nominato dal governo talebano, come già aveva fatto Pechino, per “costruire ponti e ad aiutare gli afghani, anche attraverso progetti di sviluppo e ricostruzione”. Nel contempo, come informava la Reuters - nessun altro governo aveva riconosciuto ufficialmente le nuove autorità afghane, benché persone designate dai Talebani stiano  gestendo missioni diplomatiche in diversi paesi, fra i quali il Pakistan.

L'opportunità di andare a una qualche forma di riconoscimento è presente anche nel dibattito italiano, alla luce del fatto che – hanno di recente sottolineato alcune Ong presenti sul campo - 23,7 milioni di afgani, oltre metà della popolazione, hanno bisogno di aiuti umanitari per sopravvivere e oltre l’80% delle famiglie vive con meno di un dollaro al giorno. Inoltre, sono molto alti i tassi di malnutrizione materno-infantile come quelli delle morti per ordigni esplosivi o per parto, effetto di un sistema sanitario molto fragile. Vi è poi la questione delle riserve della Banca centrale afghana (DAB), congelate per la maggior parte negli USA, ma anche in Europa e negli Emirati: 9,5 miliardi di dollari in totale che in realtà appartengono non ai talebani ma ai cittadini, mentre la banca stessa, esclusa dai circuiti internazionali, è impossibilitata a svolgere la sua funzione per fare andare avanti l’economia.

Ma per Hossein non ci sono dubbi. “Il riconoscimento dei Talebani da parte della comunità internazionale – risponde - sarebbe un colpo fatale e pericoloso per l’Afghanistan e soprattutto per le donne e le ragazze”. I talebani sono un gruppo terroristico, sottolinea, e il loro riconoscimento, insieme alla revoca delle sanzioni contro di loro, metterebbe anche ulteriormente a rischio gli oppositori nel paese e all’estero. 

“Nonostante le ripetute pressioni da parte della comunità internazionale e dei governi, i Talebani non hanno dato seguito alle richieste delle donne e degli oppositori politici e, se anche venissero riconosciuti, non negozierebbero mai con loro. Purtroppo i Talebani non rispettano le minoranze etniche e religiose né i diritti umani. La pressione della comunità internazionale e dei paesi asiatici sui talebani è l'unico modo per costringere questo gruppo a farlo”.  

Nel frattempo quattro Stati - Canada, Paesi Bassi, Australia e Germania – si sono dichiarati pronti ad avviare procedimenti legali contro i Talebani per violazione della Convenzione ONU sulle donne firmata anche dall’Afghanistan nel 2003, iniziando un iter che potrebbe portare la questione al Tribunale internazionale dell'Aja. L’iniziativa è sostenuta da una ventina di altri paesi. 

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Centinaia di giornalisti in esilio e ancora in cerca di un futuro

La storia di Hussein non è purtroppo un caso isolato. Come ricorda il Committee to Protect Journalism (CPJ), solo nell’ultimo anno i Talebani hanno imprigionato almeno 16 giornalisti afghani e stranieri, chiuso quattro emittenti tra radio e tv, vietato ogni contatto con Afghanistan International (testata basata a Londra), sospeso le licenze di 14 media afghani, bandito le voci femminili dai media locali e annunciato un piano di restrizioni dell’accesso a Facebook nel paese. Tutto questo dopo che già all’indomani del loro ritorno a Kabul circa 200 organi di informazione avevano dovuto chiudere, e oltre 6mila giornalisti avevano perso le loro funzioni. Di questi, l’80% è disoccupato e di questi quattro su cinque sono donne. Inoltre, la nuova legge per la ‘Diffusione della virtù e la prevenzione del vizio’ garantisce alla polizia morale talebana ampi poteri per restringere ulteriormente la già decimata comunità dei giornalisti afghani, impedendo loro di pubblicare contenuti ritenuti lesivi dell’Islam o dei musulmani. E i provvedimenti contro la libertà di stampa si moltiplicano. Nel frattempo sono centinaia, sempre secondo il CPJ, i giornalisti che sono stati costretti a fuggire all’estero, e molti sono ancora bloccati nel limbo di un incerto status legale nel paese ospitante, privi di un permesso di lavoro e di prospettive chiare per la loro permanenza.

Per quanto riguarda l’Italia, dopo i circa 5mila afghani evacuati nell’agosto 2021 dal ministero della Difesa con l’operazione “Aquila omnia”, per accogliere quanti si erano provvisoriamente stanziati in Iran e Pakistan sono stati creati i corridoi umanitari promossi da Conferenza Episcopale Italiana, Comunità di Sant’Egidio, Chiese protestanti italiane e Arci, d’intesa con i ministeri dell’Interno e degli Esteri. I corridoi hanno alla fine interessato circa 2mila persone – arrivate a gruppi e scaglioni, anche dopo lunghe attese, nei mesi e anni successivi, con l’ultimo arrivo di circa 200 afghani il 21 giugno scorso da Islamabad. A questi si sono aggiunte altre persone singole o famiglie su invito nominativo di alcuni privati e ONG che facevano da sponsor: visti comunque rilasciati in misura inferiore alle attese di che le considera persone sicuramente meritevoli di protezione internazionale – è di questi giorni, fra l’altro, una sentenza della Corte di Giustizia Europea secondo la quale tutte le donne afghane hanno diritto  di asilo negli Stati membri senza necessità di accertamenti o controlli. Tra le maglie troppo strette delle politiche migratorie italiane ed europee non è riuscita in particolare a entrare Torpekai Amarkhel, la giornalista afghana di 42 anni annegata, con il marito e due figli piccoli, nel naufragio di Cutro del 26 febbraio scorso. Chi ce l’ha fatta a venire in Italia, invece, si è scontrato con le ben note carenze del nostro sistema di accoglienza e integrazione: nonostante l'alto livello delle loro competenze professionali, i profughi afghani si sono dovuti spesso confrontare con il mancato riconoscimento dei titolo di studio, con scarse possibilità di trovare lavoro, con le difficoltà nell’inserimento scolastico dei figli, tanto che molti – come segnalato di recente da Avvenire – hanno finito per ripartire. D’altronde, nel 2023 l’Italia non figurava tra i primi dieci paesi nella graduatoria dell’UNHCR per accoglienza di rifugiati afghani: il secondo dopo l’Iran era il Pakistan (con oltre 2 milioni secondo i dati della stessa organizzazione dell’Onu), seguito da, fra gli altri, Germania, Turchia e Francia.

Immagine in anteprima: frame video PBS NewsHour via YouTube

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