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In TV ancora una rappresentazione distorta del rapporto tra adolescenti e social media

2 Aprile 2023 5 min lettura

In TV ancora una rappresentazione distorta del rapporto tra adolescenti e social media

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Sembra che la tregua indotta dalla pandemia e le indicazioni delle ricerche più recenti siano già cadute nell’oblio, vinte dalle spinte del passato.

"[...] in diverse revisioni, sia la salute mentale che il benessere sono stati usati come termini generici che sono rimasti indefiniti, il che a volte ha portato alla discussione di un pot-pourri di risultati cognitivi e affettivi che meritano ciascuno di essere indagati a pieno titolo. La nostra revisione ombrello ha confermato che tipi simili di SMU [uso dei social media] possono portare ad associazioni opposte con diversi outcome di salute mentale [17]. Sia la SMU che la salute mentale sono costrutti molto complessi.

Per arrivare a una vera comprensione degli effetti della SMU sulla salute mentale, la ricerca futura deve adottare misure che catturino le risposte degli adolescenti a specifici contenuti o qualità delle interazioni sui SM. (Valkenburg, Meyer, Beyens 2022)"

Sembra di essere tornati indietro di quasi cinque anni, a ottobre 2018, quando il protagonista del servizio televisivo era il telefonino che iniziava a distruggere il “nostro povero cervello” con tutte le capacità cognitive ma ‘nessuno ce lo raccontava’. A dispetto della rassicurazione espressa allora nel prologo di quella puntata, sembra sia proprio “un sentimento luddista” ad animare una buona parte del giornalismo “contro il progresso e l’innovazione e le macchine che lo rappresentano” (da “Iperconnessi”, puntata del 6 ottobre 2018 di Presa Diretta su Rai 3). Si tratta di un sentimento che si rinnova ciclicamente, sostenuto e amplificato da una serie di fasi e personaggi che entrano in scena. Questo sentimento ha la capacità di aggiornarsi, nutrendosi dei nuovi contenuti che le epoche portano. Difatti, assieme al pathos che sta caratterizzando l’attenzione pubblica per l’adolescenza e al sensazionalismo attorno alla declinazione popolare dei temi di salute mentale, lo stesso sentimento ha generato una nuova serie di servizi andati in onda nella puntata di Presa Diretta del 20 marzo, "La scatola nera", che ha avuto stavolta per protagonisti i social media.

Se si pensa che la critica a determinati servizi giornalistici sia rivolta a una redazione, a un programma o all’intero giornalismo si sta cadendo nella fallacia della generalizzazione indebita, smontata dal fatto che il numero di servizi considerati qui è troppo esiguo per giungere a una tale supponente conclusione, lontana dalle intenzioni di queste righe.

La resistenza di un sentimento avverso alle tecnologie è garantita dal ricorso più o meno inconsapevole a quelle scorciatoie del pensiero che sono rappresentate dalle fallacie logiche.

Difatti, le narrazioni apocalittiche sull’impatto che i prodotti dell’innovazione avrebbero nelle vite delle persone sono infarcite di errori argomentativi, come di solito accade con notizie e storie che trasmettono contenuti morali ed emotivi, e hanno la capacità di catturare maggiormente la nostra attenzione per poi facilitarne l’ulteriore condivisione e diffusione nelle nostre cerchie. Se le emozioni suscitate sono negative, la viralità delle notizie e delle storie è assicurata. Si tratta di un’infezione che colpisce anche la comunicazione scientifica.

Nella puntata di Presa Diretta dedicata ai ‘mostruosi’ social media si possono rintracciare dei veri e propri indicatori di contaminazioni pseudoscientifiche nell’informazione: la raccolta delle ciliegie o cherry picking (la selezione di dati che confermano la propria tesi, escludendo tutti i dati che la confutano), l’appello all'opinione popolare (l'ipotesi di danni derivanti dai social media è ritenuta corretta perché è sostenuta da tante famiglie e insegnanti), l’eccessivo affidamento a testimonianze e prove aneddotiche, la confusione della correlazione con la causalità, le correlazioni spurie tra fenomeni, l’appello alle emozioni attraverso le scelte linguistiche e iconografiche (l'ancoraggio alla nostra tendenza a farci guidare dalle emozioni per valutare la veridicità di un'affermazione) e così via.

La lunga narrazione in prima serata ha mostrato:

  • Una selezione del tutto parziale e autoconfermativa dei dati e delle persone intervistate, escludendo la letteratura più rigorosa sull’argomento secondo la quale “la maggior parte delle prove scientifiche sull'impatto dei social media e di altre attività online sulla salute mentale degli adolescenti è inconsistente” (Orben e Blakemore 2023).
  • Una lettura acritica della rappresentatività di dati parziali su fenomeni diversi associati tra loro per rafforzare una catena di conseguenze, senza alcun nesso provato di causa (dispositivi o social media) - effetto (declino psicofisico delle nuove generazioni).
  • Il tono apocalittico del racconto che indugiava su espressioni come "mostruoso", "pazzesco", "ha ucciso" (questa espressione è stata tanto scioccante quanto improvvida per l’allusione a una diretta causalità in un suicidio, non emersa neppure in un tribunale), "terribile".
  • La trattazione sensazionalistica dei temi di salute mentale e dei disturbi psichiatrici, contravvenendo alle raccomandazioni internazionali per una comunicazione responsabile, rese necessarie dalle conseguenze sulla salute pubblica – queste accertate – di un’informazione imprudente.
  • La riduzione dei disturbi psicopatologici a un unico fattore causale, cioè i social media e i dispositivi digitali, senza tenere conto dei gradi di rappresentatività dei dati esposti e della pericolosità delle conseguenze. Da un lato questa semplificazione trascura di informare sulla complessità dei fattori di rischio (individuali, familiari, sociali, scolastici) alla base dei disturbi psichiatrici e dei disturbi emotivi comuni, e, spostando l’attenzione su uno strumento (i social media o i dispositivi), ne impedisce il riconoscimento all’interno dei contesti di vita; dall’altro porta a dedurre che un divieto o un periodo di detox siano sufficienti a prevenire o a curare ogni disturbo o disagio, senza dover intraprendere percorsi specialistici.

Si tratta di un messaggio estremamente dannoso per la salute pubblica. Tale messaggio potrebbe innescare azioni scellerate di genitori e insegnanti come quelle di sequestrare lo smartphone o staccare il collegamento ad internet, recidendo di fatto quello che per alcune ragazze e alcuni ragazzi rappresenta l’unico canale di comunicazione e di connessione sociale. Le conseguenze della disconnessione forzata possono essere particolarmente gravi nei gruppi vulnerabili e nei ceti socioeconomici medio-bassi che non hanno accesso a opportunità alternative per chiedere e dare ascolto, per studiare, per mantenere relazioni e per trascorrere il tempo libero.

Insomma, la confusione tra allarmi e notizie, tra ipotesi e conclusioni, tra aneddoti e prove scientifiche replicate, tra controllo e educazione, tra emotività e dati di realtà può realmente nuocere all’informazione e alla stessa salute pubblica. Il meccanismo è lo stesso, quello che cambia è l’oggetto protagonista, rimpiazzato di volta in volta dalla successiva innovazione e “terribile” minaccia per le giovani generazioni.

Un ciclo che si ripete, mentre l’alfabetizzazione digitale procede, conformandosi alle disuguali opportunità offerte dal contesto educativo e socioculturale in cui si vive: si passa da articolati progetti didattici a attività laboratoriali, da pratiche collaborative a modalità nascoste e non autorizzate.

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«Dobbiamo reagire al panico dei media su tecnologie come le reti sociali digitali sottolineando quanto sia diverso e vario l'uso del digitale. Utilizziamo le nuove tecnologie quotidianamente per molte cose diverse e in molte situazioni diverse», aveva detto a Valigia Blu Amy Orben

Promuovere l’universalità dell’accesso ai dispositivi e l’alfabetizzazione digitale, diffondere le risorse e i contenuti che rendono più sicuro l’ambiente online, agire affinché le piattaforme garantiscano trasparenza, equità e responsabilità a utenti sono le tre azioni in cui chi fa ricerca e chi fa informazione potrebbero impegnarsi congiuntamente, perseguendo realmente l’interesse comune per la collettività, più che utilitaristici interessi privati.

Immagine in anteprima via depositphotos.com

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