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Il disturbo da deficit di attenzione e la disinformazione sui sintomi

12 Settembre 2024 11 min lettura

Il disturbo da deficit di attenzione e la disinformazione sui sintomi

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Nel connettersi allo spazio digitale può accadere di imbattersi in molteplici notizie e testimonianze relative al disturbo da deficit di attenzione e iperattività o ADHD, acronimo inglese che sta per Attention Deficit Hyperactivty Disorder ["Disturbo da deficit di attenzione"]. Non tutte corrispondono a fatti che costituiscono attualmente il complesso di conoscenze specialistiche riguardo a uno dei disordini del neurosviluppo di maggiore tendenza. Tali conoscenze evolvono con gli avanzamenti della ricerca e aggiornano nel tempo i criteri diagnostici e i trattamenti disponibili.

Nell'immagine ci sono le ricerche su Google del termine "ADHD" in Italia dal 2019 al 2024. Quella che si forma senza scrutinio e rimane statica, in base ai meccanismi interni agli algoritmi delle piattaforme online, è la versione dell’ADHD che viene resa popolare in un dato periodo e che resta immodificata nel tempo nonostante vengano aggiunte versioni correttive.

Il mito della permanenza dell'oggetto

Owen Chevalier, laureato in psicologia e dottorando in filosofia presso l’Università di Western Ontario a Toronto in Canada, si è occupato della versione popolare dell’ADHD in un recente articolo per la rivista Philosophy, Psychiatry, and Psychology in cui ha ragionato su come i contenuti riguardanti la salute mentale diffusi attraverso i media online possono plasmare la comprensione pubblica di concetti psichiatrici e psicologici.

Chevalier scrive:

“L’accesso online alle informazioni aumenta la comprensione pubblica della ricerca scientifica sulla salute mentale, colmando il divario tra le definizioni tradizionali della psicologia “popolare” della malattia mentale e le definizioni degli esperti. Tuttavia, vi è ragione di credere che il discorso online sull’ADHD distorca ancora la ricerca affidabile sulla salute mentale. Un chiaro esempio di questo malinteso deriva dal caso della permanenza dell’oggetto che su TikTok è presentato come sintomo di ADHD”.

Qualche creator di TikTok ha adottato il fenomeno della permanenza dell'oggetto descrivendolo come esperienza patologica specifica dell'ADHD. Peter Hyphen ha raccontato a Owen Chevalier che da adulto non ha fatto molto caso alla diagnosi di ADHD ricevuta da bambino e ai miglioramenti apportati dalla terapia fino a quando non si è iscritto a TikTok. Sulla piattaforma, guardando i video di altri creator che parlavano della loro diagnosi, dei loro sintomi e delle loro esperienze, ha cominciato a considerare il peso che questa diagnosi ha nella sua vita. Da quel momento ha cominciato a leggere gli episodi della vita quotidiana sotto una diversa prospettiva. Questa nuova e improvvisa consapevolezza lo ha portato a dare altri significati agli episodi della sua giornata e a raccontare la permanenza dell'oggetto come uno dei sintomi dell'ADHD che avrebbe voluto conoscere prima.

Il senso della permanenza dell’oggetto, definito dallo psicologo svizzero Jean Piaget nella sua teoria sulle fasi dello sviluppo cognitivo (1947), si riferisce all’acquisizione che avviene tipicamente nell’infante a partire dagli 8 mesi della capacità di comprendere che un oggetto continua a esistere anche quando non viene percepito dagli organi di senso. Dagli 8 mesi di età e non prima un oggetto viene ricercato nella posizione in cui è stato nascosto. Si tratta di una tappa decisiva nello sviluppo di processi percettivi e cognitivi che vanno affinandosi con la crescita, interessante da studiare in psicologia e neuroscienze, ma che non ha particolare rilevanza clinica come accade per altre acquisizioni della prima infanzia.

Nella declinazione attribuita dalla “comunità di influencer sull’ADHD” con cui è entrato in contatto Chevalier, un fenomeno evolutivo - la permanenza dell'oggetto (PO) - è diventato impropriamente un sintomo distintivo della disattenzione in persone adulte che presentano questo disturbo. Il fatto di dimenticare, ad esempio, un alimento nel forno, evento che può accadere più di una volta nella vita di ogni persona adulta per una serie di occasionali effetti attentivi e mnesici, viene superficialmente attribuito all'incapacità di concepire che un oggetto – l’alimento – continui a esistere una volta scomparso alla vista. Una regressione ai primi mesi di vita!

La ricostruzione dell’autore data al 2020 il collegamento tra permanenza dell’oggetto e ADHD, propriamente a quando nel mese di giugno Peter Hyphen ha pubblicato un video su TikTok:

"Il video, che dura un minuto, inizia con una definizione della permanenza dell'oggetto simile a quella di Piaget, secondo cui i bambini hanno difficoltà con il concetto di permanenza quando qualcosa non è immediatamente nella loro visuale. Il creator poi dice: "Per gli adolescenti e gli adulti con ADHD, questa è una cosa con cui hanno ancora difficoltà" (Hyphen, 2021). Il creator fornisce diversi esempi come pensare che frutta e verdura messi nel cassetto non esistano e di conseguenza dimenticarsene oppure avere difficoltà nelle relazioni con le persone per il fatto che la persona adulta con ADHD non le vede sempre”.

Nonostante fosse il primo video di Hyphen sul tema, aggiunge Chevalier, l’algoritmo di TikTok lo inserisce nel feed di tutte le persone che ricercano contenuti sull’ADHD e il video diventa virale. Ad oggi ha raggiunto più di un milione e mezzo di like e più di 100.000 condivisioni oltre a un numero notevole di citazioni in altri video.

Spinto da questa popolarità, a partire da un errore di attribuzione, Hyphen diventa un influencer sull’ADHD.

Il video viene in seguito diffuso sulla piattaforma Reddit, altri utenti aggiungono esperienze o critiche e l’associazione tra permanenza dell’oggetto e ADHD viene riportata anche da fonti di informazioni sulla salute (Chevalier cita Medical News Today e BetterHelp) che, pur non affidabili, possono essere ritenute dal pubblico come degne di credito.

I Trends di Google mostrano l’impennata nella ricerca dei termini “object permanence adhd”, proprio a partire dal 2020.

Questo caso dimostra come sia semplice trasformare in presunti sintomi dei fenomeni che non lo sono e come un disturbo possa essere ridefinito attraverso il contagio sociale. Non sono qui in discussione le descrizioni soggettive relative alle manifestazioni dell’ADHD effettivamente diagnosticato perché queste possono essere variabili, personali e informative per gli specialisti che se ne occupano. La questione è che ci si può imbattere nel travisamento di un fenomeno che neppure riguarda l’età adulta e nell’attribuzione ad esso di un significato patologico. Il travisamento e l’erronea attribuzione possono avvenire in buona fede da parte di una persona che ha una diagnosi di ADHD ma possono verificarsi anche da parte di persone che in un momento di tendenza possono approfittare di un tema per pubblicizzare i propri prodotti (libri, corsi, ecc. a pagamento), indipendentemente dall’accuratezza dei contenuti diffusi. Può addirittura accadere che qualche influencer si cimenti in un’autodiagnosi pubblica, basandosi su errori di attribuzione, nell’abitudine consolidata di profittare della viralità garantita dall’algoritmo su un determinato argomento. Quei contenuti poi restano nelle piattaforme e continuano a essere trovati o a essere suggeriti nel proprio feed.

“È difficile sapere quanto la disinformazione deliberata da parte di creator che cercano di trarre profitto dalla popolarità dell'ADHD possa influenzare il modo in cui il pubblico pensa e discute dell'ADHD”, riflette Chevalier nell'articolo sopra citato.

Si tratta in ogni caso di un effetto dell’apertura del discorso pubblico, in certi frangenti di un rumoroso sfondamento, sui temi che riguardano la salute mentale la cui copertura satura i media tradizionali e online. Questo sta comportando, da un lato, un incremento della richiesta di aiuto individuale, una maggiore accettazione sociale e, almeno per alcune condizioni, un declino della stigmatizzazione. D’altra parte, l’elevata attenzione mediatica sta generando una sovraestensione diagnostica, pur senza palesi false attribuzioni, che porta con sé il rischio di patologizzare vissuti comuni e di andare poi a sovraccaricare servizi sanitari le cui risorse umane continuano a restare limitate.

Come hanno dimostrato la ricercatrice Brooke Altmann, lo psicologo Nick Haslam e loro collaboratrici dell’Università australiana di Melbourne, la sovraestensione diagnostica – intesa come attribuzione da parte di non specialisti di etichette diagnostiche a condizioni lievi o marginali che potrebbero non richiedere un inquadramento clinico - ha effetti misti: in positivo, aumenta il supporto interpersonale verso chi vive situazioni di disagio psicologico lieve e ne incoraggia la ricerca di aiuto specialistico; in negativo, fissa la condizione alla persona implicandone la persistenza e riducendo le aspettative di azione e di recupero (pessimismo prognostico). Spingendosi ancora oltre, l’identità che viene a trovarsi definita da una denominazione diagnostica può ricevere gratificazione sociale.  

Il clamore attorno all’ADHD è stato costruito negli ultimi anni anche attraverso la narrazione di un presunto progressivo declino dell’attenzione umana dovuto all’uso degli smartphone e ai social media. Non è difficile trovare libri, articoli divulgativi e (ahimé) ricerche scientifiche discutibili che attribuiscono erroneamente la concomitanza di fenomeni (ADHD e tempo di esposizione agli schermi) a una prova di causalità (allora gli schermi causano l’ADHD) o addirittura che hanno quantificato in secondi la perdita di attenzione negli ultimi decenni. Quest’ultima è la tesi più fantasiosa perché si basa su definizioni confuse di attenzione e quindi non misurabili ma, facendo seduttivamente ricorso a unità numeriche (ad es., 8 secondi), fornisce l’illusione di scientificità: la pratica pseudoscientifica al suo meglio.

Ascolta la puntata di Radio 3 Scienza: ADHD, questa sconosciuta

La presa sul pubblico è assicurata e il mercato dei prodotti (libri, corsi, pacchetti vacanze digital detox, ecc.) si espande a discapito di un'informazione onesta e responsabile. L’implicazione è che sia sufficiente fare a meno dei dispositivi digitali per risolvere i disturbi di attenzione: questa è la versione dell’ADHD dalla prospettiva del determinismo tecnologico secondo la quale la tecnologia fa e disfa la società e le persone indipendentemente dalle loro dinamiche, predisposizioni, caratteristiche.

Come si diagnostica l'ADHD

Nella versione condivisa dalla comunità scientifica e clinica, il Disturbo da Deficit di Attenzione Iperattività che indichiamo ormai comunemente come ADHD o DDAI è un disordine del neurosviluppo che si manifesta in epoca prescolare con iperattività (ad esempio, non riuscire a stare fermo), impulsività (ad esempio, non riuscire a frenare azioni o espressioni) e disattenzione (ad esempio, non riuscire a non distrarsi). La diagnosi richiede un percorso codificato e viene effettuata dalla fanciullezza all’età adulta. Più precoce è la diagnosi, più tempestivi saranno i trattamenti messi in atto per migliorare la sintomatologia dell’ADHD e per minimizzare le conseguenze che questo disturbo ha sugli apprendimenti, sulla socializzazione, sull’adattamento, sulle relazioni, sulle scelte di vita personale e lavorativa quindi per tutto l’arco di un’esistenza.

Non si tratta di una condizione del nuovo millennio: le prime descrizioni cliniche dei disturbi che conosciamo come ADHD risalgono alla fine del 1700. Non esiste, dunque, solo da quando è diventato di tendenza sui media. Dal 1970 ad oggi, “i criteri diagnostici per l'ADHD si sono evoluti sulla base di ricerche che dimostrano che la diagnosi è predittiva della risposta al trattamento, del decorso clinico e della storia familiare del disturbo” come specificato nella Dichiarazione di Consensus Internazionale della Federazione Mondiale per l'ADHD pubblicata nel 2021.

La diagnosi si basa su un colloquio clinico da parte di una/o specialista che attraverso l’osservazione del/della bambino/a o della persona adulta e la raccolta di informazioni da una persona di riferimento (genitore, partner) avvia il processo diagnostico. A tale processo, nella fanciullezza e nell’adolescenza contribuiscono le osservazioni in classe riferite da docenti. Ulteriori indagini neuroradiologiche, neurologiche e neuropsicologiche possono essere richieste a completamento del processo. Ad esempio, una valutazione cognitiva è fondamentale per differenziare le manifestazioni dell’alto potenziale cognitivo (in cui l’iperattività è funzionale alla concentrazione e alla ricerca di stimoli) dall’ADHD (in cui l’iperattività interferisce sulla concentrazione e indebolisce la resistenza agli stimoli interni e esterni), due condizioni che in rari casi possono trovarsi associate. L’ADHD può trovarsi anche in associazione con altri disordini del neurosviluppo come la disabilità intellettiva e il disturbo dello spettro dell’autismo.

Affinché sia posta una diagnosi di ADHD è necessario registrare sistematicamente in più contesti un complesso di sintomi a un livello di gravità tale da condizionare le attività tipiche della vita quotidiana di persone di una determinata età. Nel caso si raggiungano i criteri per una diagnosi di ADHD, in base ai sintomi osservati, le presentazioni possono essere: prevalentemente disattentiva, prevalentemente iperattiva/impulsiva, combinata.

La prevalenza media nelle fasce di età dalla fanciullezza all’adolescenza è del 5,9%, nell’età adulta è del 2.5% con variazioni nei diversi paesi del mondo in cui sono stati condotti studi epidemiolgici. La causa è nella maggior parte dei casi attribuibile a una combinazione di fattori genetici e ambientali (questi ultimi incidono prima della nascita e dopo la nascita). Tra questi ultimi fattori, la ripetuta esposizione all'alcol durante la gravidanza ne incrementa il rischio nel nascituro, andando ad alterare la maturazione del cervello.

Il trattamento è multimodale. In epoca prescolare prevede sia interventi individuali educativi e neuropsicomotori per incrementare la focalizzazione e la regolazione comportamentale sia interventi di parent training affinché i genitori possano acquisire le strategie necessarie alla gestione dei comportamenti problematici senza rischiare di provocarli con atteggiamenti inappropriati. Nei casi in cui il disturbo non sia rispondente a interventi riabilitativi o abilitativi, a partire dai 6 anni è possibile iniziare una terapia con farmaci psicostimolanti come il metilfenidato e non psicostimolanti come l’atomoxetina prescritti presso i centri di riferimento sanitari che si trovano nelle diverse regioni.

Attraverso il percorso di cura, dall’identificazione alle indicazioni di gestione o alle terapie per le gravità da moderata a severa, fin dalla fanciullezza il controllo delle manifestazioni dell’ADHD non impedisce di raggiungere livelli ottimali di benessere, apprendimento, socializzazione, relazioni. L’attivazione del trattamento multimodale con inclusa la terapia farmacologica riduce il rischio di effetti avversi sulla salute fisica (ad esempio, incidenti, traumi, fratture) e mentale (depressione, dipendenza da sostanze).

L’introduzione in Italia dei farmaci per l’ADHD nella fanciullezza e nell’adolescenza è avvenuta attraverso una sperimentazione coordinata dal 2007 al 2016 dall’Istituto Superiore di Sanità con l’obiettivo di “valutare il profilo di sicurezza della terapia farmacologica” la cui prescrizione controllata avviene da allora “nei centri accreditati dalle Regioni italiane”. Nel 2016 è stato attivato il Registro nazionale per le persone adulte con l’individuazione di centri che, ad oggi, hanno una limitata distribuzione sul territorio nazionale.

I dati sulla sicurezza della terapia farmacologica fornite attraverso la sperimentazione sono stati accompagnati dall'evidenza di una notevole disuguaglianza nella distribuzione dei servizi specialistici e quindi di disparità di accesso alla diagnosi e al trattamento dell’ADHD in età dello sviluppo ma soprattutto in età adulta.

Quella che effettivamente manca è una rete distribuita per la presa in cura delle famiglie e delle persone adulte con ADHD. Due sono le priorità che si delineano per il futuro: una maggiore diffusione e accessibilità dei centri per la diagnosi e il trattamento dell’ADHD che adottino linee guida condivise; un incremento della conoscenza pubblica sull’ADHD che si basi sulla diffusione di informazioni affidabili e verificate e sul contrasto a versioni distorte delle sue manifestazioni.

Altri miti sull'ADHD da sfatare

Un lavoro infaticabile per sensibilizzare la popolazione sull’ADHD è svolto dall’AIFA APS Associazione Italiana Famiglie ADHD con eventi formativi e divulgativi e dall’associazione AIDAI Associazione Italiana Disturbi di Attenzione e Iperattività che riunisce esperti e genitori.

Oltre alla permanenza dell’oggetto, ci sono altri miti che attendono di essere superati, con collaborazione e azione dopo azione anche sui social media, in modo da rendere meno complicata la vita delle persone e delle famiglie con ADHD:

- L’ADHD è dovuto alle scarse capacità educative dei genitori. Questo è un mito classico che esemplifica il giudizio morale a cui sono ripetutamente esposti i genitori di bambine e bambini con condizioni neurobiologiche che oltre a gestire la cura devono attrezzarsi contro le umiliazioni

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- Una dieta senza zuccheri migliora i sintomi dell’ADHD. In realtà, non è stato evidenziato alcun miglioramento significativo da diete senza zuccheri e additivi nell’ADHD

- I farmaci psicostimolanti creano dipendenza. In realtà, il controllo dei sintomi dell’ADHD riduce il rischio di dipendenza da sostanze stupefacenti e le ricerche longitudinali non dimostrano che il trattamento farmacologico nella fanciullezza incrementi in età adulta il rischio di dipendenza.

Immagine in anteprima via Associazione Aifa

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