Hate speech: l’accordo UE – social network mette a rischio la libertà d’espressione
10 min letturaJeff Bezos is exactly right, this is the core of what the First Amendment is all about pic.twitter.com/L8DwMhH9vn
— Mathew Ingram (@mathewi) 1 giugno 2016
Il 31 maggio scorso la Commissione europea ha annunciato, insieme a Facebook, Twitter, Youtube e Microsoft (le aziende IT) il codice di condotta sulle espressioni illegali di odio online.
I recenti attacchi terroristici di Bruxelles e Parigi, ha evidenziato il commissario europeo alla giustizia Vera Jourová, ci ricordano che i social media sono ormai diventati uno strumento tramite il quale i gruppi terroristici reclutano combattenti, e la recessione economica favorisce la crescita di posizioni estremiste, razziste e xenofobe. Per garantire che Internet rimanga un luogo di espressione libero e democratico, le aziende IT si sono, quindi, impegnate a proseguire i loro sforzi per combattere i discorsi di odio online, rivedendo le loro politiche di funzionamento per rimuovere o disabilitare l’accesso a tali contenuti in meno di 24 ore.
Il comunicato conclude ricordando che la libertà di espressione è un valore europeo che deve essere preservato, e la Corte europea dei diritti dell'uomo ha fornito l’importante distinzione tra contenuti che offendono o disturbano lo Stato o la popolazione e quelli che costituiscono incitamento effettivo e grave alla violenza e all’odio.
Un tempo le aziende del web rifiutavano, in nome della libertà d’espressione, di cancellare contenuti online (tranne quelli in violazione del copyright), ma la maggiore attenzione delle istituzioni europee alla diffusione di discorsi estremisti e di violenza online ha determinato un cambio di strategia. Le aziende tecnologiche, per evitare di doverne rispondere, oggi sono più propense a posizioni meno tolleranti verso discorsi di violenza online. Twitter si è prodigata per cancellare gli account relativi a gruppi terroristici, Facebook collabora con il governo tedesco da tempo per l'eliminazione di discorsi d’odio online. E così le altre.
In base al Codice di condotta, le aziende firmatarie avranno l’onere di coniugare libertà di espressione e tutela degli utenti, dovranno avere team appositamente formati e anche educare i loro stessi utenti spiegando cosa è possibile pubblicare online e cosa no, incoraggiando le segnalazioni di contenuti che incitano alla violenza e all’odio.
Un accordo poco trasparente
Le istituzioni europee da anni si pongono il problema dell’hate speech online, fin dalla decisione n. 913 del 2008, con la quale il Consiglio d’Europa ha riconosciuto che la lotta contro il razzismo e la xenofobia richiede molteplici forme di risposta e non la sola sanzione penale. Anche perché le diversità culturali e normative tra i vari Stati impediscono un'efficace armonizzazione delle norme criminali.
Nel 2014 la Commissione europea ha emanato la decisione quadro per il contrasto delle forme di razzismo e xenofobia costituenti reato. Nel dicembre del 2015 la Commissione ha lanciato l’Internet Forum UE, nel quale i ministri degli Interni degli Stati, i rappresentanti delle principali società del web, l’Europol, discutono di come proteggere i cittadini dalla diffusione di materiale terroristico online, e di come fare un migliore uso della rete per contrastare i discorsi d’odio e la propaganda dei terroristi.
Il Forum IT ha riunito, quindi, molte aziende, per le più americane, e i rappresentanti degli Stati europei. Invece i rappresentanti della organizzazioni per i diritti civili erano autorizzati solo alla partecipazione ad alcune delle discussioni sull’odio online. Come riferisce Access Now, queste organizzazioni sono state sistematicamente escluse dai negoziati che hanno portato alla stesura del Codice di condotta. La poca trasparenza, l’impossibilità di effettiva partecipazione e di fornire un reale contributo, ha convinto Access Now e EDRi, le due principali organizzazioni per i diritti civili che si occupano della materia, ad abbandonare il tavolo rifiutando qualsiasi ulteriore partecipazione.
Si privatizzano le funzioni statali
Il testo del Codice di condotta chiarisce indubitabilmente che non saranno più le autorità di polizia bensì le aziende private a prendere l'iniziativa in materia di discorsi di odio online. Saranno le aziende private a spiegare ai loro utenti cosa è lecito e cosa non lo è, in base ai loro termini di servizio. Saranno le aziende private a incoraggiare i loro utenti a segnalare i contenuti in violazione dei loro termini di servizio. Saranno le aziende private a valutare, in base ai loro termini di servizio, cosa è lecito e cosa non lo è, e, infine, saranno sempre le aziende private a rimuovere, senza processo, senza diritto di difesa e senza rispettare il principio di innocenza fino a condanna definitiva, i contenuti ritenuti illeciti da loro stesse.
In tal modo le leggi statali e comunitarie vengono degradate a mera base per i termini di servizio delle aziende del web, che invece diventano vere e proprie leggi.
Si tratta a tutti gli effetti di una privatizzazione di funzioni statali, come già è avvenuto in materia di copyright. Poche (solo 4) società si trovano, quindi, in prima fila per decidere della legalità dei contenuti online, fungendo da legislatori, giudici ed esecutori.
È di solare evidenza l’illegittimità del Codice in questione in quanto in palese contrasto con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la quale prevede che le restrizioni ai diritti fondamentali dei cittadini devono essere stabilite per legge.
Oltre il copyright
Il Codice di condotta affida alle società private del web, tutte americane tra l’altro, l’attuazione di quella che si può tranquillamente definire una censura.
Tale forma di censura si basa sulla rimozione dei contenuti, quindi di fatto è una forma di estensione del già esistente takedown dei contenuti in violazione del copyright. Negli anni passati si è svolta una discussione molto accesa tra coloro che ritenevano che i takedown non sono legittimi e nemmeno efficaci per combattere la pirateria. Adesso quel medesimo strumento viene esteso anche ad altre categorie di contenuti online, e in base ad una richiesta espressa della Commissione europea alle aziende americane, una vera e propria delega alle gestione delle “cose” di Internet.
Lo strumento del takedown è una creazione dell’industria del copyright (articolo di Business Insider che mostra come lo strumento creato per gestire le violazioni del copyright non è adatto per altre problematiche online), che si pose il problema di eliminare i contenuti in violazione dei propri diritti, ma senza passare per le tediose procedure giudiziarie, ritenute eccessivamente lunghe e poco pratiche.
L’industria del copyright si è in tal modo resa protagonista di una vera e propria guerra intentata spesso e volentieri contro i suoi stessi utenti, trattandoli da criminali, con risultati devastanti per l’intero settore musicale.
La guerra per il copyright, ormai vinta dall’industria dei contenuti, è stata una guerra sulla libertà di comunicazione privata, sulla possibilità di dialogo anche anonimo, sulla possibilità per i giornalisti di tutelare le proprie fonti, sulla possibilità delle persone di parlare anche di cose che un giorno potrebbero essere usate contro di loro. La guerra per il copyright ha portato alla sbarra oltre 18mila cittadini, proprio mentre l’industria stessa sosteneva, mentendo, di voler contrastare solo la grande pirateria commerciale, evidenziando così il suo approccio nei confronti di Internet nel momento in cui i governi abdicano al proprio ruolo di regolatori.
L’approccio intransigente e restrittivo, in base al quale tutto ciò che non piace, che dà fastidio, va eliminato senza pensarci due volte, è l’approccio classico dell’industria, e che è ormai entrato nella coscienza globale come l’unica possibile risposta ai contenuti online. Con il nuovo Codice c’è il concreto rischio che anche una banale molestia online sia trattata come un reato grave, rimosso, senza difesa, senza processo.
Vi sono tantissimi casi, raccontati nel sito Onlinecensorship, che mostrano, senza ombra di dubbio, che le aziende violano regolarmente i diritti fondamentali in Internet.
Il "peccato originale" di Internet
Il peccato originale di Internet è di essere un mezzo di comunicazione diverso, un media multidirezionale e ad accesso non selezionato. A differenza dei giornali cartacei e della televisione, chiunque può, con modica spesa, aprire un blog, partecipare ad un forum, scrivere su Twitter o Facebook, in tal modo attuando concretamente, e per la prima volta, le leggi che prevedono il diritto all'informazione e la libertà di manifestazione del pensiero. I media tradizionali selezionano non solo i contenuti ma anche chi vi partecipa, che deve dare garanzie preventive di affidabilità su cosa e come lo dice.
Internet rompe gli schemi e consente, per la prima volta, a chiunque di dire la propria opinione, addirittura di dirla nel modo che preferisce. Certo, questo non vuol dire che si debbano tollerare minacce di morte, che non si debbano reprimere minacce terroristiche, ma quando si comincia a parlare di linguaggio d’odio, così genericamente, si ricade facilmente nel solito refrain del dissenso poco tollerato, del desiderio di controllo. Avverte Ben Emmerson, relatore speciale per l'ONU sul controterrorismo, che in diversi Stati le leggi contro l'estremismo sono state utilizzate come repressione politica:
Governments must be careful in responding to the dangerous grey zone of expression where speech is not a direct call for action but prepares the ground for violent action. There is now a troubling trend of criminalising the ‘glorification’ of terrorism – we need to look not just at the words but at the speaker’s intention and the impact they have.
Some States have misused these poorly defined concepts to suppress political opposition or ideological dissent from mainstream values”, “legislation against extremism has in some instances been used against journalists, religious groups or critics of state policy and this is not acceptable
Il linguaggio d’odio e le molestie online non sono un problema recente. Già nel 1984, ben 13 anni dopo l’invenzione della posta elettronica, esistevano i primi manuali per contrastare i messaggi “abusivi” online. Negli anni ‘80 abbondavano le liste di blocco dei messaggi indesiderati, nel 1990 divenne un problema pubblico.
È del 1993 l’articolo di Julian Dibbel, uno stupro nel cyberspazio.
Negli anni successivi le aziende tecnologiche hanno assunto migliaia di moderatori per mantenere le relazioni online a livello sopportabile. Poi abbiamo avuto i movimenti sociali online che hanno provato a sfruttare le emozioni pubbliche per fini politici, e infine le stesse piattaforme online hanno iniziato a influenzare le emozioni degli utenti del web, con conseguenze di radicalizzazione e estremizzazione delle opinioni ancora difficili da analizzare.
La maggior parte delle ricerche sulle molestie online è inaccessibile al pubblico per motivi di copyright, come ad esempio gli studi del professor Cliff Lampe dell’Università del Michigan, che si occupa della materia dal 2000, a partire da Slashdot. Le aziende non si preoccupano di condividere i risultati delle loro ricerche, quanto piuttosto di evitare che i risultati poco lusinghieri possano portare a nuove responsabilità. Il Guardian è stata la prima piattaforma a pubblicare i dati comportamentali degli abusi nei commenti.
Gli informatici danno per scontato che il pregiudizio e l’odio siano dei comportamenti devianti, ma i risultati delle ricerche contestano questa ipotesi. I messaggi d’odio e di violenza, le minacce, lo stalking nel web, sono un problema diffuso perché connaturato agli essere umani. Il razzismo, la xenofobia, fanno parte della cultura umana, la misoginia è profondamente radicata nella cultura occidentale. Quindi le molestie online non possono essere combattute individuando e rimuovendo singoli contenuti. Quello che si ottiene è solo un mettere lo sporco sotto il tappeto, nasconderlo ai più, casomai per utilizzare il “successo” a fini elettorali o di propaganda. Dice Joe McNamee, direttore esecutivo di EDRi:
È ironico pensare che la Commissione minaccia di portare dinanzi ad un tribunale gli Stati che non attuano le norme dell’Unione in materia di razzismo e xenofobia, quando poi tratta per convincere aziende come Google e Facebook a nascondere i reati sotto il tappeto
Il rischio censura
Con il Codice di condotta il rischio concreto è che si dia sfogo alle istanze paternalistiche dei tecnocrati del web, giovani americani non eletti e esenti da responsabilità, i quali spesso hanno il desiderio nemmeno troppo nascosto di imporre le loro idee e i loro standard al mondo intero. Queste aziende non perdono occasione per censurare contenuti a loro fini. Per le aziende del web gli utenti sono un prodotto per un fine, quello di guadagnare sempre più soldi, la tutela dei diritti è solo un accidente che si frappone a quel fine.
Le norme della piattaforma sono applicabili a livello globale, il risultato è sempre una forma di censura. Su Facebook, tanto per fare un esempio, sono state censurate campagne di sensibilizzazione del cancro al seno perché mostravano un accesso di capezzolo, discorsi politici, ecc...
Con i suoi generici termini di servizio di fatto Facebook sta ridefinendo un nuovo standard in materia di sessualità che considera il corpo delle donne quasi come una vergogna.
E coloro che decidono effettivamente cosa noi possiamo immettere o meno online, nella maggior parte dei casi non sono altro che lavoratori in outsourcing ad esempio delle Filippine, a basso salario.
Il Codice di condotta obbliga le aziende di tecnologia a identificare e promuovere le “contronarrazioni” (“identifying and promoting independent counter-narratives, new ideas and initiatives and supporting educational programs that encourage critical thinking”), una frase talmente generica che di fatto concede alle aziende carta bianca nel modificare i flussi delle notizie pubblicate sulle loro piattaforme, potendo promuovere alcuni contenuti a scapito di altri. Provate ad immaginare in una campagna elettorale quanto potrebbe pesare un potere del genere.
Per comprendere il potenziale di abuso politico basti ricordare che nel Sudafrica dell'apartheid le limitazioni sui discorso d’odio sono state utilizzate per criminalizzare la critica al dominio dei bianchi. Un problema denunciato da Rebekka MacKinnon, avvocatessa e co-fondatrice di Global Voices Online, rete internazionale di blogger e cittadini attenta agli avvenimenti importanti che accadono nella blogosfera:
We have a situation where private companies are applying censorship standards that are often quite arbitrary and generally more narrow than the free speech constitutional standards that we have in democracies. Or they're responding to censorship requests by authoritarian regimes that do not reflect consent of the governed. Or they're responding to requests and concerns by governments that have no jurisdiction over many, or most, of the users and viewers who are interacting with the content in question
Non è con la rimozione di contenuti che si educano i cittadini, ma casomai con una scuola efficiente, con una politica che educhi al rispetto. È compito dello Stato e della scuola pubblica costruire un’etica e una morale, ciò che occorre davvero è una azione politica e sociale persistente nel tempo, che possa poi indurre un cambiamento sistemico nella società. Se io dico che “gli immigrati puzzano e sono tutti delinquenti”, è considerato “odio sociale”, se invece un politico in campagna elettorale asserisce che “un'immigrazione massiccia degrada le periferie e aumenta la criminalità”, nessuno protesta. Eppure è la stessa cosa.
Foto via TechCrunch.com.