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La politica, i media, la giustizia: il caso Aboubakar Soumahoro

14 Dicembre 2022 8 min lettura

La politica, i media, la giustizia: il caso Aboubakar Soumahoro

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Inchiesta su gestione dei migranti e dei minori non accompagnati: agli arresti domiciliari la moglie e la suocera del parlamentare Aboubakar Soumahoro

Aggiornamento 30 ottobre 2023: Sono finite agli arresti domiciliari Liliane Murekatete e Marie Therese Mukamatsindo, rispettivamente moglie e suocera del parlamentare, Aboubakar Soumahoro. Gli arresti sono stati disposti dal gip di Latina nell’inchiesta sulla gestione delle cooperative che si occupavano della gestione di migranti e minori non accompagnati.

La procura di Latina contesta illeciti nella gestione dei migranti come frode nelle pubbliche forniture, bancarotta fraudolenta patrimoniale e autoriciclaggio. In particolare, le cooperative Karibu e Consorzio Agenzia per l'inclusione e i diritti d'Italia, oltre alla Jambo Africa (per il tramite della Karibu), avrebbero percepito ingenti fondi pubblici da prefettura, Regione e Comuni destinati a progetti di assistenza, fornendo servizi che una nota della Gdf definisce "inadeguati e difformi rispetto a quello pattuito".

In particolare la procura contesta il sovrannumero di ospiti, alloggi fatiscenti con arredamento inadeguato, condizioni igieniche carenti e riscaldamento assente. Nelle strutture i militari della Guardia di Finanza hanno, inoltre riscontato carenze nell'erogazione dell'acqua calda, nella conservazione delle carni e scarsa qualità del cibo.

Nel 2014 il giornalista e scrittore Luca Rastello pubblicava il suo ultimo libro “I buoni”. Un romanzo-denuncia che racconta i professionisti della carità, quelli “che lottano per salvare il mondo”. Il protagonista è don Silvano, a capo della onlus “In punta di piedi”. Un prete di periferia, con il maglione consumato e lo sguardo sofferente, che tutti amano: “I potenti, i belli, i celebri e la suora che trema sotto il suo sguardo. Tutti sono orgogliosi di essere suoi amici. Perché lui cavalca con le insegne del bene. È l’eroe di questo tempo, è la consolazione”, scriveva il giornalista, poi scomparso nel 2015. L’uscita del libro fu accompagnata da una lunga polemica, perché per molti l’opera contiene riferimenti espliciti ad alcuni esponenti dell'antimafia. Ma a chi lo accusava Rastello stesso rispondeva: Don Silvano sono io. E credo che don Silvano lo siamo tutti, almeno in potenza”. E ancora: “Siamo noi l’acqua in cui cresce la pianta”.

Drammaticamente attuale, il libro ha la capacità di mettere a fuoco alcune tendenze pericolose che attraversano il mondo dell’attivismo e del non profit: quello di appaltare, per mancanza di impegno o di capacità, a figure particolarmente carismatiche le battaglie che, invece, dovrebbero rimanere collettive; lo scarto tra comportamenti privati e immagine pubblica; il rischio di un corto circuito pericoloso tra cause giuste, narcisismo e voglia di potere. Tutti meccanismi che hanno una contropartita: la ricerca continua di uomini-simbolo, eroi capaci di rappresentare il bene in senso assoluto, rende poi impossibile voltare le spalle a quei “buoni” anche quando sbagliano, perché attaccando loro si rischia di macchiare le battaglie (giuste) che portano avanti. 

In queste ultime settimane sta facendo molto discutere il caso che riguarda il deputato Aboubakar Soumahoro, eletto per la prima volta in Parlamento lo scorso 25 settembre con la lista Verdi-Sinistra italiana e finito al centro del dibattito pubblico per un’indagine che riguarda la famiglia di sua moglie Liliane Murakatete, e in particolare la suocera, Marie Therese Mukamitsindo a capo di due cooperative da lei gestite, la Karibu e il Consorzio Aid, attive nell’accoglienza dei migranti. A metà novembre, la procura di Latina ha aperto un fascicolo dopo una denuncia del sindacato Uiltcs. Si parla di stipendi non pagati ai dipendenti, di condizioni dell’accoglienza per minori non accompagnati al di sotto degli standard, di mancanza di servizi essenziali come luce e acqua in alcune delle strutture. Aboubakar Soumahoro non è indagato né coinvolto nell’inchiesta, eppure lo scandalo l’ha travolto da subito, facendo di lui il principale bersaglio della vicenda. L’accusa non è giudiziaria, ma riguarda la coerenza politica del suo operato: entrato in Parlamento con l’obiettivo dichiarato di difendere gli ultimi, gli sfruttati, poteva davvero (come sostiene) non conoscere le vicende sui migranti e lavoratori che coinvolgono direttamente la sua famiglia? Si possono portare avanti battaglie di principio, quando quegli stessi principi sono violati a casa propria?

Accuse che appaiono gravi proprio perché la storia mediatico-politica di Soumahoro nasce da una battaglia giusta a seguito di una terribile fatto di cronaca. È il 2 giugno 2018, l'allora neo ministro dell’Interno Matteo Salvini, durante un incontro elettorale a Vicenza pronuncia il suo slogan più famoso: “La pacchia è finita”. A 800 km di distanza, c’è un ragazzo che muore. Soumaila Sacko, 29 anni, originario del Mali. Viene ucciso a colpi di fucile da un uomo, Antonio Pontoriero, mentre insieme agli amici Drame e Fofana stava recuperando alcune lamiere per costruire un riparo di fortuna in una baraccopoli dei braccianti, nella piana di Gioia Tauro. La vicenda è ben descritta nel libro “La pacchia” (Zolfo editore)  della giornalista Bianca Stancanelli. Nel primo comunicato della prefettura di Reggio Calabria, Sacko viene bollato come un “ladro”, entrato in una proprietà privata e ucciso da ignoti. “È un ‘nivuru’ (nero) come tanti, la sua vicenda è destinata a finire nel dimenticatoio”, spiega Stancanelli, se non fosse per Drame che cambia il tono e il copione della storia, chiamando in causa Aboubakar Soumahoro, sociologo e dirigente di Usb. Da bravo sindacalista, Soumahoro trova le parole giuste: Soumaila “era uno di noi, iscritto al sindacato, si batteva per i diritti di tutti”, sottolinea. La sua morte diventa in poco tempo  il simbolo della condizione di quei ragazzi (molti dei quali con regolare permesso di soggiorno) sfruttati nelle campagne del Sud. E che si riuniscono in corteo per chiedere diritti, dignità e rispetto. Soumahoro, si mette a capo della protesta. 

Come ricorda il giornalista di Radio popolare Massimo Alberti, fin da subito, proprio nel mondo del sindacato e dell’attivismo iniziano a circolare le prime accuse di una gestione delle vertenze dei braccianti a fini di carriera personale. Ma Soumahoro funziona. Funziona perché incarna un simbolo. Ogni sua incursione nei ghetti è accompagnata da un video selfie con alcuni braccianti sullo sfondo, in cui si rivendicano diritti in maniera collettiva. Funziona perché comunica con gesti a effetto nel mondo della politica-instagram: si incatena agli Stati generali dell’Economia durante il governo Conte e poi davanti a Montecitorio, entra per la prima volta in Parlamento con gli stivali sporchi di fango. “Abou”, come lo chiamano tutti, sa anche coniare slogan: a chi dice “prima gli italiani”, risponde “prima gli sfruttati”; a chi parla di “pacchia”, mostra le condizioni di sfruttamento in agricoltura. In un periodo di polarizzazione del dibattito pubblico sul tema dei migranti, con il leader della Lega diventato ministro dell’Interno, sa contrapporsi. Il sistema mediatico se ne accorge e in breve lo elegge ad anti-Salvini. Poco importa se dietro quell’io collettivo, spesso invocato, c’è soprattutto autoreferenzialità.

I partiti politici lo corteggiano. Giornali e tv, italiani e stranieri, gli dedicano copertine, ritratti, approfondimenti. Oggi sostituiti da un accanimento sulla vicenda poco giustificabile solo con l’indagine sulle cooperative di Mukamitsindo. Mentre, dopo le prime notizie di stampa, i responsabili di Sinistra italiana e Verdi, che lo hanno candidato alle ultime elezioni, hanno chiesto spiegazioni. Dopo un incontro a fine novembre Soumahoro si è autosospeso dal gruppo. Ma questo non ha disteso gli animi a sinistra, con un rimpallo di responsabilità sulla selezione della classe dirigente. 

Sul quotidiano Domani, Giorgio Meletti parla del fallimento della politica di icone acchiappavoti: “Hanno venduto come candidato premier, incarnazione di una linea politica che non c’è, uno di cui, lo ammettono adesso, non sapevano niente. Se c'è una vittima in questa storia è proprio lui”. 

A livello mediatico, dalle iniziali e comprensibili richieste di chiarimento sui troppi omissis della vicenda, si è passati alla produzione di notizie sulla vita privata del deputato, al limite del gossip. La moglie di Soumahoro, Liliane Murakatete, è stata ribattezzata Lady Gucci per alcuni scatti su Instagram con capi firmati. Alcune sue foto in lingerie, realizzate dieci anni fa, sono state pubblicate dal sito Dagospia e poi finite sulle prime pagine di alcuni quotidiani di destra e in trasmissioni televisive. Per quella che la scrittrice Djarah Kan in un lungo post su Facebook ha definito una forma di Revenge Porn: “Ad oggi Murekatete non è indagata. Ma pure se lo fosse, la natura della violenza mediatica di cui è bersaglio da settimane non cambierebbe. Per me, mostrare le foto intime di una donna che non ha dato alcun consenso, in diretta nazionale è pura e semplice  violenza di genere organizzata e di gruppo. Una violenza di genere su cui pesa l'infernale congiunzione tra razzismo e sessismo”.

Ma cosa c’entra tutto questo con l’indagine, con le cooperative e il sistema dell’accoglienza? Cosa c’entra tutto questo con le condizioni delle persone sfruttate? Non è nuovamente un modo per usare un simbolo (questa volta in negativo) solo a fini politici?

Dopo settimane di attenzione nel dibattito pubblico, a rimanere sullo sfondo sono proprio le questioni centrali: il sistema dell’accoglienza che, a vent’anni dall’entrata in vigore della legge Bossi-Fini, si fonda ancora su un sistema binario tra la gestione dello Stato e quella degli enti locali, con la proliferazione di centri di accoglienza straordinaria, senza la garanzia di standard adeguati e uniformi. Nei ghetti del Sud i braccianti agricoli continuano a vivere in baraccopoli fatiscenti e a morire, proprio come Soumaila Sacko. Nelle cooperative migliaia di operatori sociali lavorano con contratti fatiscenti e senza percepire stipendio per mesi. Eppure questo non indigna. Anzi, il cortocircuito mediatico che si è innescato in queste ultime settimane rischia di svalutare il lavoro che tanti fanno sui territori proprio per tutelare chi non ha diritti. E così questa storia di fulminea ascesa e caduta ci conferma ancora una volta come siano trattati con estrema superficialità i temi sociali e, in particolare, l’immigrazione: con una ricerca continua di storie edificanti di paladini/eroi, con le persone vulnerabili pensate sempre come oggetto della narrazione, quasi mai come soggetti; con una corsa al gossip politico, senza una visione strutturale e realmente critica del fenomeno. 

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L’estate scorsa, l’artista Jago, ha posizionato su ponte Sant’Angelo, nel cuore di Roma, la statua di un giovane profugo dal titolo "In Flagella Paratus Sum - Sono pronto al flagello". Era distesa a terra, dello stesso colore dell’asfalto. Le persone che passeggiavano sul ponte se la trovavano davanti, quasi come un inciampo. C’è chi l’ha presa a calci, chi le ha spezzato un braccio, chi l’ha messa in un angolo perché non fosse calpestata. E chi ci si è soffermato solo il tempo di un selfie. 

Quando smetteremo di occuparci delle questioni che riguardano le fasce più deboli della popolazione, solo quando ce li ritroviamo davanti come un inciampo? Le useremo ancora solo per picchiare forte contro una o l’altra parte politica? O le affronteremo mai per migliorare davvero le condizioni delle persone?

Immagine in anteprima via optimagazine.com

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