La sperimentazione su sé stessi, tra scienza ed etica: il caso della virologa Beata Halassy
|
"…Here, we describe the unique case of a 50-year-old self-experimenting female virologist with locally recurrent muscle-invasive breast cancer…"
Beata Halassy lavora come virologa all'Università di Zagreb. Ma è anche una paziente oncologica, con un tumore al seno triplo negativo (quelli più rognosi da controllare) al terzo stadio, recidivante per la seconda volta dopo la mastectomia.
Quando nel 2020 scopre la seconda recidiva, d'accordo con gli oncologi che la seguono, decide di tentare una strategia "personale", ovvero una terapia virale oncolitica (qui una rassegna recente sulla terapia).
Essendo virologa, non ha problemi a crescere in coltura e preparare degli isolati virali contenenti due virus (morbillo e VSV, virus della stomatite vescicolare) che sapeva essere in grado di infettare le cellule che compongono il suo tumore. Poi chiede aiuto per farsi iniettare nel tumore prima un virus e poi l'altro (sceglie di usare due virus in successione per minimizzare il rischio che il suo sistema immunitario ne neutralizzasse uno) e aspetta, confidando che i virus infetteranno le cellule tumorali che a quel punto saranno riconosciute dal sistema immunitario (non in quanto cellule tumorali ma in quanto infettate da un virus). Che in effetti è quello che succede: dopo tre mesi il tumore era stato consistentemente infiltrato e aggredito dai linfociti T, si era rimpicciolito e aveva perso l'aderenza col tessuto circostante che stava infiltrando: tutto questo aveva consentito di rimuoverlo chirurgicamente. Che è quello, poi, che ci si aspetta da una chemioterapia neoadiuvante, ma che in precedenza nel suo caso non aveva funzionato molto.
Dopo l'intervento Beata Halassy ha fatto regolarmente per un anno terapia adiuvante col trastuzumab, un anticorpo antitumorale specifico per i tumori che come il suo overesprimono il recettore HER2, e ora è libera da malattia da 4 anni.
Un paio di elementi in più che vale la pena dare per far capire il contesto: 1) La terapia virale oncolitica è un approccio science based che si studia in modo ufficiale da diversi anni come terapia neoadiuvante o adiuvante (cioè in preparazione alla chirurgia o dopo); 2) Beata Halassy ha seguito un protocollo col consenso e sotto il controllo dei suoi oncologi, pronti ad intervenire se le cose si fossero messe male (progressione del tumore o evidente inefficacia del metodo) e per il tempo del trattamento è stata costantemente monitorata mediante RMN. Le stesse iniezioni del virus in sede intratumorale (una massa di 2 cm di diametro) hanno richiesto competenza medica. Insomma la paziente non si è rivolta a uno sciamano, è stata sotto controllo medico esperto e non ha abbandonato le terapie raccomandate.
Eppure quando ha tentato di pubblicare uno studio sulla sua auto-sperimentazione, una dozzina di editori si è tirata indietro adducendo questioni etiche.
Il problema apparentemente non era tanto l'auto-sperimentazione (ci sono altri casi noti e importanti nella storia della medicina, come la scoperta del ruolo di Helicobacter pylori come causa dell'ulcera, che nel 2005 valse il premio Nobel per la medicina a Barry Marshall) quanto la sua comunicazione, nel timore che altri pazienti potessero leggere e decidere di curarsi da soli anche loro, non avendo però le competenze di Beata Halassy.
Io sto ancora cercando di decidere come la vedo.
Da un lato molti hanno commentato "my cancer my choice", rivisitando lo slogan "my body my choice". Poco da aggiungere.
Un aspetto da considerare, però, è che la pubblicazione possa contribuire a sostenere l'idea diffusa da molti sostenitori delle terapie alternative (specie quelle che vendono loro) che i protocolli di cura approvati non funzionino ("Le terapie negate… ci sono le cure ma devono svuotare i magazzini dai chemioterapici che non funzionano"... è un campionario ben noto).
Da ricercatore un dubbio forse potrei averlo sull'effettiva utilità della pubblicazione che descrive un caso singolo e particolare. È vero tuttavia che di case report, della descrizione di casi singoli è piena la letteratura medica.
Qui poi si descrive una procedura già nota e sperimentata. In vero, la scelta di usare due virus diversi potrebbe essere un elemento innovativo. L'altro elemento nuovo è che mediamente questo tipo di sperimentazione – che presenta diverse incognite (cosa fanno poi questi virus? Dove vanno? Che rischi ci possono essere?) e fino ad ora non sembra essere stato un game changer – viene limitata ai casi in cui non sono possibili o utili gli approcci di cura tradizionali (pazienti in età avanzata, o in fase avanzata della malattia…) che però può essere di per sé un motivo di scarsa efficacia, insomma un approccio che funziona poco perché viene usato in casi in cui funziona poco.
In questo senso la pubblicazione di Halassy potrebbe essere una spinta a osare di più con la sperimentazione della terapia virale oncololitica. Magari in abbinamento ad altre terapie. Per esempio, l'infezione delle cellule tumorali associata agli inibitori del checkpoint immunitario PD-1/PD-L1 potrebbe essere promettente per il cancro del colon-retto.
La terapia virale oncolitica nasce dall'idea di sfruttare la capacità che hanno i virus di infettare le nostre cellule, dal fatto che spesso l'infezione ha un effetto citopatico che può portare anche a morte cellulare, e dal fatto che i virus li sappiamo modificare in laboratorio. Quindi possiamo cercare di modificarne il tropismo e fargli infettare alcune cellule ma non altre, possiamo usarli per far accendere o spegnere geni una volta dentro la cellula. Insomma avrebbero un potenziale notevole.
Una possibilità più semplice è che comunque le cellule tumorali infettate da un virus anche non modificato, non dotato di "armi" genetiche particolari, attivano una risposta immunitaria contro il tumore (come nel caso descritto nell'articolo).
Un vantaggio di affidarsi a un virus poi sarebbe di poter intervenire anche in quei casi in cui il tumore non ha specificità particolari, non dipende tanto da un singolo fattore di crescita, come un recettore, da poter bloccare con un inibitore specifico, o non ha un profilo mutazionale tale da prestarsi all'immunoterapia, anche quella personalizzata mediata da vaccini a mRNA, o per le sue caratteristiche risponde male alla chemioterapia.
Se qualcuno che legge avesse altre considerazioni, sarei curioso di conoscerle.
Immagine in anteprima: Ivanka Popić via Nature