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Come Meloni & Co stanno mettendo una pietra tombale sulla lotta alla crisi climatica

16 Novembre 2024 11 min lettura

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Come Meloni & Co stanno mettendo una pietra tombale sulla lotta alla crisi climatica

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I primi giorni delle Conferenze delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico sono quelli che vedono protagonisti i leader internazionali. I loro interventi danno già un’indicazione degli umori, delle atmosfere, degli orientamenti generali. Danno una cornice di senso per poter cogliere la direzione che stanno prendendo i governi dei vari paesi. E in questi giorni è andata in scena una vera e propria ode al fossile. 

Come interpretare d'altronde l’intervento della Presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, le parole del presidente azero, Ilham Aliyev, gli annunci del neo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump e anche i silenzi e le assenze di tanti leader mondiali, a partire dalla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen? Come spiegare la presenza record di lobbisti dei combustibili fossili?

Sul palco di COP29 a Baku, Meloni ha esordito raccontando il mondo che vorrebbe lasciare in eredità a sua figlia: “Sono una madre e come madre niente mi dà più soddisfazione di quando lavoro per politiche che consentiranno a mia figlia e alla sua generazione di vivere in un posto migliore”. Nobili intenzioni, il problema è il come. Il percorso indicato infatti dalla nostra presidente del Consiglio per dare a sua figlia un mondo ancora abitabile è proprio la strada che sta portando alla sua invivibilità: combustibili fossili mascherati come energia pulita (gas naturale), tecnologie ancora acerbe (idrogeno), di dubbia efficacia (cattura e stoccaggio della CO2) o lungi dalla loro realizzabilità (fusione nucleare). Quasi nessuna menzione per le energie rinnovabili, su cui tanti altri paesi stanno investendo, vera architrave – al momento – della transizione ecologica.

Il discorso di Giorgia Meloni sul palco di COP29 a Baku, in Azerbaigian, è stato, in altre parole, il manifesto concentrato dell’idea di transizione energetica della destra al governo. Parole che abbiamo già sentito risuonare tante volte in questi due anni di governo: “approccio pragmatico e non ideologico”, “neutralità tecnologica”, “prospettive globali realistiche”. 

E vediamolo questo approccio pragmatico e non ideologico: 1) “Al momento non c’è un’unica alternativa ai combustibili fossili, dobbiamo avere una visione realistica”; 2) Dobbiamo utilizzare “tutte le energie a nostra disposizione, non solo le rinnovabili, anche i bio-carburanti e la fusione nucleare”. E proprio riguardo alla fusione nucleare, Meloni ha detto che “intendiamo rilanciare questa tecnologia che potrebbe cambiare le carte in tavola, in quanto può trasformare l’energia da arma geopolitica a risorsa ampiamente accessibile”, ricordando che l’Italia è “all’avanguardia sulla fusione nucleare e ha organizzato il primo incontro del World Fusion Energy Group, promosso dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica”. 

Fumo negli occhi per mascherare (neanche tanto poi), tra le righe, l’intenzione del governo di continuare a puntare sul gas, anzi di fare dell’Italia l’hub europeo del gas, come sottolineato tante volte in questi ultimi anni su Valigia Blu.

È questo l’approccio pragmatico e non ideologico della destra al governo e che trova la sua più plastica manifestazione nel cosiddetto Piano Mattei, evocato da Meloni anche a Baku: un programma molto aziendale e poco ecologico, che difficilmente può allinearsi agli obiettivi dell’Accordo di Parigi. 

Poi ci sono gli accordi con l'Azerbaigian, il secondo fornitore di gas dell’Italia dopo l’Algeria, rappresentando circa il 16% dell’import totale di gas. La volontà è ampliare la cooperazione energetica raddoppiando la capacità di trasporto del gasdotto Trans Adriatic Pipeline, sebbene – spiega il rapporto del think tank ECCO ‘Lo stato del gas’ – “l’infrastruttura esistente sia già in grado di coprire i volumi di consumo richiesti”.

“La cosa forse più grave del suo intervento è il sostegno al gas, che contraddice gli impegni climatici di Dubai, fa un regalo all’industria fossile, espone consumatori e imprese ad alti costi dell’energia e mina gli obiettivi di sviluppo sostenibile”, ha scritto in un commento da Baku Luca Bergamaschi, ricercatore di Ecco. “Evocare una ‘svolta storica’ dell’energia da fusione nucleare come ha fatto la Presidente del Consiglio Meloni significa offrire false speranze, proprio in un momento in cui, come dice la stessa premier, serve un ‘approccio pragmatico’”, spiega Nicola Armaroli, direttore di ricerca al CNR e co-fondatore di Energia per l’Italia.

I tempi di realizzazione di reattori sperimentali a fusione nucleare sono incompatibili con quelli necessari per una transizione che faccia rimanere il pianeta sotto 1,5°C o 2°C di aumento della temperatura rispetto ai livelli preindustriali. Basti pensare che la data per la produzione di reazioni a fusione con ITER (International Thermonuclear Experimental Reactor), il reattore sperimentale a fusione nucleare più grande al mondo che verrà realizzato a Cadarache (in Francia) e di cui l’Italia è tra i partner principali, è stata rinviata al 2039. 

La transizione ecologica ha bisogno di soluzione più rapide. E questo è il motivo per cui le soluzioni prospettate dalla presidente del Consiglio sono non solo inutili, ma dannose, come fa notare Elisabetta Ambrosi in un articolo sul Fatto Quotidiano

“Nel suo discorso Meloni tira fuori una ‘ricetta’ per la transizione fatta di svariate cose diverse, ma unite dalla stessa caratteristica: l’inutilità ai fini della transizione. Anzi, in alcuni casi la dannosità, visto che Meloni salva il gas come elemento su cui puntare. Ma poi c’è altro: i biocarburanti che tanto interessano Eni, la cattura della CO2, che non serve praticamente a nulla, l’idrogeno buttato lì un po’ a caso (il governo non mi pare se ne sia mai occupato), infine, asso nel cappello del discorso della premier, la fusione nucleare. Incredibile: perché la fusione non è assolutamente detto che verrà raggiunta ma soprattutto, se lo sarà, lo sarà solo con tempi lunghissimi che non rispondono in alcun modo alle esigenze schiaccianti di ridurre le emissioni ora. Pena, letteralmente, la distruzione progressiva e repentina della terra”.

Il problema è che l’approccio di Meloni non è isolato, ma trova risonanza nelle parole e le azioni, anche solo simboliche, di altri leader di destra ora al governo. Nel suo discorso di inaugurazione, Ilham Aliyev, il presidente dell'Azerbaigian, il paese che attualmente ospita il vertice sul clima di quest’anno, ha definito il petrolio e il gas un “dono di Dio”. Aliyev ha definito “fake news occidentali” i dati sulle emissioni dell'Azerbaigian e ha detto che le nazioni “non dovrebbero essere incolpate” di avere riserve di combustibili fossili. “Raramente i discorsi di apertura delle conferenze annuali sul clima della COP hanno riservato attacchi politici così franchi e senza mezzi termini, né difese così aperte dei combustibili fossili - soprattutto da parte della nazione ospitante”, riflette un articolo di Politico, che ricorda come l'Azerbaigian – il terzo petrostato di fila a ospitare una COP – preveda di espandere la produzione di gas fino a un terzo nel prossimo decennio.

Ha fatto notizia, poi, la decisione del presidente argentino, Javier Milei, di ritirare i suoi 80 delegati dal vertice. È la prima volta che Milei dà seguito agli annunci fatti in campagna elettorale quando aveva parlato del riscaldamento globale come di una “bugia socialista” e aveva promesso di abbandonare l’Accordo di Parigi. 

Ma questo potrebbe essere il primo segnale dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Già nel 2020, sotto la prima amministrazione Trump, gli Stati Uniti sono diventati il primo paese al mondo a ritirarsi formalmente dall'Accordo di Parigi nel novembre 2020. Pochi mesi dopo, nel gennaio del 2021, il neopresidente Biden, appena eletto, aveva poi aderito nuovamente all'Accordo di Parigi e gli Stati Uniti erano tornati a partecipare attivamente al processo climatico delle Nazioni Unite. Durante il suo mandato, Biden è poi riuscito faticosamente a far approvare l’“Inflation Reduction Act”, una legge su clima, salute e tasse che prevede il più significativo investimento federale della storia degli Stati Uniti per contrastare il cambiamento climatico e ridurre il costo dei farmaci da prescrizione. 

Con la vittoria di Trump è concreto il rischio di tornare indietro di quattro anni con pericolose ricadute sul contrasto globale alla crisi climatica. Già in campagna elettorale, Trump ha più volte definito il cambiamento climatico una bufala, ha promesso di espandere la produzione di petrolio e gas e di eliminare i controlli sull'inquinamento, e ha minacciato di eliminare gli incentivi federali che promuovono le energie rinnovabili e i veicoli elettrici. 

Tuttavia, azzerare l’Inflation Reduction Act sarà problematico, considerato che sono previsti più di 390 miliardi di dollari di investimenti in veicoli elettrici, batterie e altre tecnologie energetiche pulite, che stanno confluendo nei distretti e negli Stati, molti dei quali governati dai repubblicani, e si stanno trasformando in nuove fabbriche e in nuovi posti di lavoro. È probabile che ora gli Stati diventino un baluardo contro gli sforzi federali di annullare la politica climatica, spiega Martin Lockman, collaboratore del Sabin Center for Climate Change Law della Columbia University: “La sede dell'azione per il clima si sposterà negli Stati. A meno che non ci sia un'inversione completa dell'Inflation Reduction Act, questo è un aspetto in cui le questioni climatiche, anche negli Stati rossi dove non pronunciano la parola 'clima', l'impatto sul territorio è innegabile”.

Più semplice, per quanto burocraticamente laborioso, ritirarsi dall’Accordo di Parigi. Il Segretario Generale, António Guterres, ha affermato che il trattato resterà in vigore anche qualora gli Stati Uniti dovessero nuovamente sfilarsi, ma ha esortato Trump a non farlo: “L'accordo di Parigi può sopravvivere, ma a volte le persone possono perdere organi importanti o perdere le gambe e sopravvivere. Ma noi non vogliamo un accordo di Parigi paralizzato. Vogliamo un vero accordo di Parigi”.

Gli effetti potrebbero essere devastanti. Altri paesi potrebbero essere incoraggiati a sfilarsi dall’Accordo di Parigi e a disimpegnarsi dagli obiettivi climatici, con le conseguenze che stiamo già vedendo in questi anni. L'elezione di Trump arriva in un momento cruciale dello sforzo globale per combattere il cambiamento climatico. Entro il 2030 le principali economie dovranno ridurre le loro emissioni di gas serra del 50% rispetto ai livelli del 2005 per evitare di precipitare in un mondo devastato da impatti molto più devastanti del riscaldamento, tra cui carestie, sfollamenti, siccità, morti per caldo estremo e tempeste. 

Con le politiche di Biden, gli Stati Uniti erano sulla buona strada per tagliare circa il 40% delle loro emissioni entro quella data. Secondo uno studio del sito britannico Carbon Brief, le politiche di Trump potrebbero portare a un incremento di quattro miliardi di tonnellate di emissioni di gas serra nell'atmosfera.

In questo contesto politico, hanno fatto rumore poi i silenzi e le assenze di tanti leader internazionali. Alla COP non si sono presentati il presidente francese Emmanuel Macron e il presidente uscente degli Stati Uniti, Joe Biden. Il presidente brasiliano, Luiz Inácio Lula da Silva, ha annullato la sua partecipazione a causa di una ferita alla testa e non parteciperanno ai colloqui neanche i leader di Cina, Sudafrica, Giappone e Australia. Assente, soprattutto, la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. “La Commissione si trova in una fase di transizione e la Presidente si concentrerà quindi sui suoi compiti istituzionali”, ha dichiarato un portavoce. 

Gli osservatori hanno definito la defaillance di von der Leyen “un segnale fatale”. “La crisi climatica non aspetta le condizioni ideali per agire, e nemmeno noi possiamo farlo. Dopo la rielezione di [Donald] Trump, l'UE deve ora assumere un ruolo di leadership più forte, sia per sostenere lo slancio che per controbilanciare la posizione degli Stati Uniti”, ha commentato l’europarlamento olandese Mohammed Chahim, vicepresidente della delegazione del Parlamento europeo ai colloqui di Baku.

Perché le parole di Meloni, gli annunci di Trump e l’assenza di importanti leader mondiali sono dei segnali inquietanti

La COP29 arriva in un contesto di forte frammentazione e instabilità internazionale – dopo le elezioni europee e quelle statunitensi, quasi in contemporanea con il vertice dei paesi G20 a Rio de Janeiro, in Brasile, e nel bel mezzo di sanguinosi conflitti in diverse regioni del mondo. Per tutti questi motivi, la COP potrebbe rappresentare uno degli ultimi spazi internazionali in cui dimostrare che una modalità di cooperazione efficace è ancora possibile attraverso il dialogo, l’ascolto e il compromesso. Ma le parole di Meloni e Trump e il silenzio assordante di importanti leader mondiali fanno prefigurare scenari cupi sull’esito dei colloqui che si stanno svolgendo a Baku e sul ruolo del multilateralismo.

La prima ministra delle Barbados, Mia Motley, ha invitato Donald Trump a un incontro faccia a faccia, per trovare un “terreno comune” e convincerlo che l'azione per il clima è nel suo stesso interesse: “Troviamo un obiettivo comune nel salvare il pianeta. Siamo esseri umani e abbiamo la capacità di incontrarci faccia a faccia, nonostante le nostre differenze. Vogliamo che l'umanità sopravviva. E le prove [della crisi climatica] le vediamo ormai quasi ogni settimana”. 

La COP29 è un passaggio importante nel percorso iniziato alla COP28 di Dubai, nel 2023, dove si è raggiunto lo storico accordo del transitioning away – o uscita progressiva – dalle fonti fossili già a partire da questo decennio, e che condurrà alla fondamentale COP30 di Belém, in Brasile, dove saranno presentati i nuovi obiettivi e piani nazionali di riduzione delle emissioni al 2035, i cosiddetti NDCs (Nationally Determined Contributions).

Ci si aspetta, in altre parole, di proseguire il percorso di abbandono delle fonti fossili e di dare seguito alle discussioni su come conseguire una transizione energetica equa

Al centro dei negoziati tecnici, infatti, c’è la questione della finanza climatica. Ovvero, quanti finanziamenti prevedere per il clima nei propri paesi? Quanti miliardi di dollari destinare agli Stati più vulnerabili per affrontare i cambiamenti climatici, quali saranno i paesi che vi contribuiranno, quali riforme e azioni mettere in atto per mobilitare la finanza per lo sviluppo, attraverso le banche multilaterali di sviluppo e la finanza privata? Di quali strumenti dotarsi per evitare che i paesi più esposti agli effetti della crisi climatica e più vulnerabili economicamente si indebitino ulteriormente per ricostruire dopo la devastazione portata da eventi meteorologici estremi? 

Fino al 2024 ci si era dati l’obiettivo di destinare 100 miliardi di dollari all’anno per aiutare i paesi più vulnerabili ad affrontare i cambiamenti climatici e accelerare la transizione verso le rinnovabili. COP29 dovrà darsi un nuovo ambizioso obiettivo – si parla di migliaia di milardi di dollari – e fare in modo di rendere più trasparenti e più verificabili i criteri attraverso i quali vengono definiti e individuati i finanziamenti per il clima. Come spiega un approfondito articolo del sito britannico Carbon Brief, la finanza climatica è attualmente un “selvaggio west”, perché non esiste una definizione condivisa di ciò di cosa considerare come “finanziamenti per il clima”, la contabilità dei finanziamenti per il clima non è coerente o trasparente e, di conseguenza, alcuni finanziamenti per il clima non contribuiscono ad affrontare il cambiamento climatico, a volte gli Stati dichiarano di investire denaro per clima che potrebbe non essere mai speso o è utilizzato per promuovere gli interessi economici dei paesi donatori. 

Come raccogliere, dunque, mille miliardi di dollari per contrastare la crisi climatica, si chiede l’editorialista Damian Carrington, che danni si occupa di cambiamento climatico per il Guardian nella newsletter inviata alla vigilia della COP29? E come farlo in modo trasparente e utilizzare questi soldi realmente? È la grande domanda dei negoziati di Baku.

Mille miliardi di dollari sembrano un sacco di soldi, spiega Carrington, ma riflettendoci non sono poi una cifra così esorbitante. Negli ultimi 50 anni, l'industria mondiale del petrolio e del gas ha realizzato ogni anno mille miliardi di dollari di puro profitto. Nel contesto globale mille miliardi di dollari sono meno dell'1% del PIL mondiale.  “Ogni giorno, ministri delle finanze, amministratori delegati, investitori e banchieri per lo sviluppo spostano migliaia di milardi di dollari”, osserva Simon Stiell, il massimo funzionario delle Nazioni Unite per il clima. Si tratta di indirizzare quelle cifre nella giusta direzione. Gli Stati Uniti hanno già impegnato un miliardo di dollari in tre anni per la propria azione a favore del clima.

Quindi, i soldi ci sono, si tratta di decidere di spenderli, e anche in fretta, considerato che, osserva ancora Stiell, sono molti meno “dei costi che ogni nazione pagherà se lasciamo che la crisi climatica continui a dilagare, devastando ogni anno sempre più vite e territori”. Tuttavia, questa verità, che ci viene sbattuta in faccia praticamente ogni giorno da tutte le latitudini, non suscita la reazione politica che sarebbe lecito attendersi. In pratica i leader mondiali fanno finta di non sapere e continuano a ritardare l'azione per il clima portandoci sempre di più in cima al precipizio

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“In definitiva, va presa una decisione politica che faccia progredire il mondo verso un luogo più sicuro per i nostri figli e per tutti”, afferma Ani Dasgupta, direttore del World Resources Institute.

I venti di destra, però, non fanno presagire nulla di buono all’orizzonte.

Immagine in anteprima via governo.it

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