Ma davvero Trump potrà fermare la guerra in Ucraina?
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Giunti alla terza ora di domande e risposte della sessione finale del XXI incontro annuale del Valdai Club, importante think-tank russo, tenuta lo scorso 7 novembre finalmente Vladimir Putin, dopo aver parlato di intelligenza artificiale, cambiamento climatico, neocolonialismo e Occidente, si pronuncia sulle elezioni presidenziali americane. Alla domanda su come il risultato delle urne possa cambiare i rapporti tra Mosca e Washington e quali siano le possibilità di trattare con Donald Trump, il presidente russo ha colto «l'occasione per congratularmi con lui per l'elezione alla carica di presidente degli Stati Uniti d'America. Ho già detto – ha continuato Putin - che avremmo lavorato con qualsiasi capo di Stato a cui il popolo americano avrebbe affidato la propria fiducia e così sarà anche nella pratica». Tra i leader mondiali che avevano telefonato il neoeletto inquilino della Casa Bianca, proprio Putin mancava all’appello. La mattina del 6 novembre a tal proposito si era espresso Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino, sostenendo di non aver idea su possibili conversazioni telefoniche con Trump e sottolineando lo status “non amichevole” (nedruzhestvennyi) degli Stati Uniti, ritenuti impegnati in una guerra per procura contro la Russia attraverso l’Ucraina.
L’elezione di Donald Trump, a differenza del 2016, non è stata accolta con grandissimo entusiasmo dall’establishment russo, memore di come le politiche dell’amministrazione repubblicana in realtà non risposero alle aspettative di chi aveva (letteralmente) stappato lo champagne, attendendosi la revoca delle sanzioni seguite all’annessione della Crimea nel 2014 e il riconoscimento del ruolo della Russia in Europa orientale: proprio durante la presidenza Trump sono state inviate armi letali, come i Javelin, mossa evitata da Obama, e in altri scacchieri, come la Siria e l’Iran, le posizioni di Washington sono state in contrasto con Mosca. Lo scandalo delle interferenze russe nelle elezioni probabilmente contribuì a frenare possibili slanci riconciliatori da parte della Casa Bianca, senza però riuscire a far svanire accuse e polemiche sui legami dell’allora presidente e della sua cerchia con la Russia. Oggi la prudenza è dettata invece dall’andamento della guerra in Ucraina, che vede in Donbas la lenta ma continua avanzata delle truppe russe, in un conflitto rallentato ma non meno sanguinoso: d’altronde, come ha sottolineato la politologa Nina Khrushcheva (nipote del segretario generale del Partito comunista), la figura di Trump, le sue posizioni conservatrici, risultano maggiormente comprensibili per la classe politica russa, a differenza della sfidante Kamala Harris, che incarna ai loro occhi i lati liberali e progressisti degli Stati Uniti, giudicati né più né meno dalla narrazione della propaganda russa come il male assoluto.
Queste affinità elettive, visibili anche nell’aperta simpatia per Putin espressa dal blocco politico e sociale che sostiene Trump, hanno alimentato, lungo tutta la lunga campagna presidenziale, una delle principali rivendicazioni della piattaforma politica del magnate trasformato in leader dell’estrema destra americana e globale: la promessa di porre fine alla guerra in Ucraina 'entro 24 ore'. Tuttavia, il piano del candidato repubblicano per raggiungere questo obiettivo non è mai stato reso pubblico, a eccezione di alcune dichiarazioni rilasciate da J.D. Vance, candidato alla vicepresidenza e ora eletto. Secondo queste anticipazioni, confermate successivamente da fonti vicine alla stampa statunitense, il cessate il fuoco dovrebbe essere imposto lungo tutti i 1.200 chilometri del fronte, monitorato da una forza di pace internazionale che escluderebbe la partecipazione di truppe americane. L’ingresso dell’Ucraina nella NATO verrebbe rinviato di vent’anni, mentre Washington continuerebbe a garantire sostegno militare e finanziario a Kyiv. Una proposta in grado, però, di scontentare tutti, non solo in Ucraina.
Quasi immediatamente dopo i risultati elettorali, Dmitrii Trenin, tra i principali esperti di relazioni internazionali vicini al Cremlino, in un suo commento per il quotidiano Kommersant ha delineato le reazioni delle autorità russe a quanto trapelato finora sul piano Trump. “Se la proposta riguardasse un cessate il fuoco lungo l’attuale linea di contatto – scrive Trenin - è improbabile che un simile approccio venga preso seriamente in considerazione a Mosca. Una ‘sospensione della guerra’ di questo tipo rappresenterebbe soltanto una pausa, destinata a riaccendere il conflitto con una nuova intensità, probabilmente ancora maggiore. Per la Russia, infatti, sono di importanza primaria la natura del futuro regime ucraino, il potenziale militare ed economico-militare di Kiev, così come il suo status politico-militare, così come vanno prese in considerazione le nuove realtà territoriali emerse dal conflitto.
Le affermazioni di Trenin sono state ulteriormente approfondite e riprese da Vladimir Putin durante la lunga discussione al forum Valdai quella stessa sera. Rispondendo a una domanda di Fedor Lukyanov, direttore del think-tank e moderatore dell'evento, su negoziati a proposito dei confini ucraini, Putin ha ribadito con fermezza l’importanza della neutralità dell’Ucraina come garanzia imprescindibile per il raggiungimento di una pace duratura. Secondo il presidente russo, senza neutralità, l’Ucraina rischia di essere trasformata nuovamente in uno strumento strategico di pressione anti-russa. Questo approccio riflette una visione diametralmente opposta rispetto a qualsiasi ipotesi di sostegno militare da parte degli Stati Uniti, che favorirebbe invece l’armamento dell’Ucraina; tuttavia, è significativo il fatto che Putin abbia evitato di rispondere a domande dirette su eventuali negoziati riguardanti i territori occupati e successivamente annessi dalla Russia, mantenendo il silenzio su un punto chiave che potrebbe rappresentare una condizione di partenza per qualsiasi futuro processo negoziale. Il cessate il fuoco, inoltre, lungo la linea del fronte ad oggi includerebbe anche i territori della regione di Kursk occupati dalle forze armate ucraine durante l’offensiva di inizio agosto, e, secondo quanto emerge da fonti russe, una delle condizioni per avviare trattative è la cacciata oltre-confine delle truppe di Kyiv entro il 20 gennaio, data dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca: un obiettivo che potrebbe vedere l’intensificarsi delle operazioni militari nella zona, in una sorta di mini-escalation volta a eliminare la possibilità ventilata in questi mesi di procedere a uno scambio tra aree occupate, con le regioni ucraine riconsegnate a Kyiv in cambio dell’area tenuta sotto controllo a Kursk.
Non vi è consenso a Mosca su un cambio di direzione da parte della nuova amministrazione repubblicana, dove si teme che a prevalere saranno i “falchi”, interessati a un prosieguo della guerra per perseguire l’indebolimento strategico della Russia. Una visione che contrasta però con la volontà, espressa a più riprese, di Trump di voler fare i conti con la Cina, ritenuta il principale avversario dell’egemonia e dell’economia a stelle e strisce: puntare a una rottura dei rapporti tra Pechino e il Cremlino appare una delle possibili chiavi per garantirsi punti nella lotta anti-cinese, ma ad oggi le relazioni sino-russe appaiono stabili, e un’inversione di esse dovrebbe vedere ulteriori garanzie per Mosca, come la revoca delle sanzioni. Questi elementi vengono ritenuti da un settore importante dell’establishment russo la base per perseguire, più che trattative il cui inizio appare incerto, un aumento delle ostilità per ottenere condizioni migliori al tavolo negoziale in futuro: un’opzione anch’essa foriera di enormi rischi, legati alla capacità di arruolare e impiegare ulteriori “contrattisti” nell’esercito russo senza dover ricorrere a una nuova ondata di mobilitazione. Sergei Markov, politologo vicino all’Amministrazione presidenziale russa, ha sottolineato in un post sul suo canale Telegram i timori di quest’ala, tratteggiando un possibile “piano Zelensky” il quale descrive più alcune riflessioni presenti negli ambienti moscoviti che le intenzioni ucraine:
- 1. Trump proporrà a Putin di fermare le ostilità, con l’Ucraina fuori dalla NATO per 20 anni e l’istituzione di una zona smilitarizzata lungo la linea di contatto.
- 2. Putin rifiuterà.
- 3. Trump reagirà irritato verso Putin e, come forma di pressione, aumenterà bruscamente le forniture di armi all’Ucraina.
- 4. Anche la Cina e altri Paesi del Sud globale si infurieranno con Putin, riducendo il loro sostegno alla Russia.
- 5. Nel 2025 l’esercito russo riceverà meno equipaggiamento.
- 6. Nel 2025 l’esercito ucraino passerà all’offensiva.
- 7. Con il cambiamento della situazione al fronte, l’Occidente intensificherà rapidamente il suo supporto all’Ucraina.
- 8. Entro la fine del 2025, la guerra terminerà con un accordo di pace alle condizioni dell’Ucraina.
Voci, supposizioni, riflessioni del genere appaiono confermare la volontà prevalente delle autorità russe di voler dettare le proprie condizioni nei negoziati, ritenendo i paesi occidentali in preda a una revisione del proprio sostegno all’Ucraina, suggellata dalla vittoria di Trump e dalle dichiarazioni dei suoi sostenitori, non ultimo il figlio Donald jr., che ha polemicamente annunciato, in un post su Instagram, che Zelensky perderà il sostegno economico tra 38 giorni, data dell’insediamento del padre come nuovo presidente. Sarà però disposto il leader statunitense, ormai riferimento dell’estrema destra globale, a cedere alle condizioni di Putin?
Immagine in anteprima: Kremlin.ru, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons