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Come Donald Trump si è preso il voto dei giovani maschi bianchi

8 Novembre 2024 7 min lettura

Come Donald Trump si è preso il voto dei giovani maschi bianchi

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La sera del 5 novembre – quando la vittoria di Trump era ormai certa – il presidente dell’UFC (il principale campionato statunitense di arti marziali miste) Dana White è salito sul palco del Palm Beach Convention Center e ha ringraziato calorosamente “i Nelk Boys, Adin Ross, Theo Von, Bussin’ With the Boys e ovviamente il mitico Joe Rogan”.

Secondo White, che è un grande amico di Trump, sono proprio questi influencer e podcaster ad aver fornito un contributo decisivo al successo del candidato repubblicano.

E non è affatto l’unico a pensarlo: stando a diverse analisi, queste figure hanno ricoperto un ruolo cruciale nella strategia propagandistica trumpiana, imponendosi come una dele novità mediatiche più rilevanti di questo ciclo elettorale.

Negli ultimi mesi della campagna, infatti, Trump è stato ospite in decine di canali YouTube seguiti da milioni di persone e gestiti da creator rigorosamente maschi e bianchi.

I numeri delle apparizioni in questione sono a dir poco impressionanti. Giusto per fare qualche esempio, la diretta dello streamer Adin Ross ha totalizzato 2,6 milioni di visualizzazioni; l’intervista a IMPAULSIVE di Logan Paul ha raggiunto 6,7 milioni di visualizzazioni; la conversazione con il comico Theo Von è arrivata a 14 milioni; e quella di tre ore con Joe Rogan veleggia sui 46 milioni. 

A questi numeri vanno poi aggiunti quelli delle clip disseminate su TikTok, Instagram o gli Shorts di YouTube, e quelli delle registrazioni su Spotify e altre piattaforme audio. Solo a guardare queste cifre, insomma, si capisce molto bene perché Trump abbia snobbato la televisione e i media mainstream rispetto al 2016 e al 2020: semplicemente, non ne aveva più bisogno.  

Trump alla caccia del bro vote

Di sicuro non ne aveva bisogno per raggiungere i giovani maschi – ossia uno dei segmenti demografici su cui la sua campagna ha puntato maggiormente per riconquistare la Casa Bianca.

Secondo una rilevazione post voto di Associated Press, più della metà dei maschi tra i 18 e i 29 anni avrebbe optato per Trump. Rispetto alle presidenziali del 2020, lo spostamento a destra è di quasi trenta punti percentuali. Un dato simile l’ha registrato un exit poll di NBC News: il 49 per cento dei maschi bianchi under 30 avrebbe votato Trump, mentre Harris si è fermata al 47 per cento.

La campagna repubblicana ha dunque cercato di massimizzare una tendenza in atto da tempo negli Stati Uniti (e non solo): i maschi della generazione Z sono nettamente più conservatori delle femmine, e in generale sono più a destra delle generazioni precedenti.

Stando a varie ricerche e sondaggi, la maggior parte di loro si sente sola, in crisi d’identità, non realizzata e senza alcuna prospettiva – tutti sentimenti esacerbati dalla pandemia di Covid-19, che li ha costretti a passare buona parte degli anni più formativi della loro vita in isolamento davanti a dispositivi elettronici.

Al tempo stesso, nutrono una profonda sfiducia nei confronti delle istituzioni tradizionali, dei partiti politici e dei media. Nel disorientamento generale, in molti si sono rivolti proprio a quei podcast e quegli influencer immersi nella “bro culture” (“bro” è il diminutivo di “brother”, fratello).

Si tratta di una sottocultura associata al mondo dei college e delle confraternite studentesche, e più in generale a qualsiasi ambiente sociale maschile caratterizzato da una forma di complicità tossica che sfocia in atteggiamenti ipermaschilisti, reazionari e transmisogini.

Negli ultimi anni il termine è stato progressivamente utilizzato per descrivere comunità di giovani maschi in fissa con la palestra e gli steroidi (i gym bro), la tecnologia e l’informatica (i tech bro), oppure le criptovalute (i crypto bro).

Trump era visto di buon occhio da queste comunità già prima delle elezioni. Secondo una rilevazione di FDU Poll, ad esempio, aveva un vantaggio di dodici punti percentuali su Harris (50 a 38) presso gli investitori in criptovalute; e nel campione, il 43 per cento di questi possessori era under 30.

Secondo il professore Dan Cassino, che ha scritto un articolo apposito sul Washington Post, le criptovalute sono uno dei mezzi con cui i giovani statunitensi (non solamente bianchi) cercano di raggiungere gli standard esigentissimi – e in larga parte irrealizzabili – imposti dal sistema patriarcale.

Per i cryptobro, in sostanza, le criptovalute sono una via d’accesso preferenziale al successo finanziario e sociale – e quindi all’affermazione della propria virilità.

E questo successo, che in realtà con le criptovalute è molto aleatorio, si accompagna spesso alla cura maniacale del corpo. È per questo che i crypto bro sono generalmente anche dei gym bro: per loro, i muscoli sono un’armatura per proteggere la propria mascolinità fragile dalle minacce del femminismo, dell’“ideologia gender” e della “cultura woke”. 

Gli influencer arruolati dalla campagna trumpiana

Trump, che incarna fieramente la mascolinità tossica e il machismo più deleterio, ha promesso di ascoltare quella generazione e di prendersi carico dei suoi malesseri; e, cosa ancora più importante, l’ha fatto direttamente nei loro spazi.

In un certo senso, è stato quasi obbligato a farlo. La campagna di Kamala Harris ha investito molti soldi nella pubblicità digitale; basti pensare che, solo durante la settimana dell’unico dibattito televisivo presidenziale, ha speso 12 milioni di dollari in contenuti sponsorizzati su Facebook e Instagram. Di contro, la campagna di Trump ne ha spesi soltanto 611mila.

Per colmare quel divario è stata così presa la decisione di rivolgersi ai bro influencer. Come ha raccontato a Wired il consulente Alex Bruesewitz, “abbiamo dovuto trovare strade alternative per massimizzare la visibilità del presidente Trump”.

Un altro consulente (rimasto anonimo) ha spiegato alla Columbia Journalism Review che la scelta è stata piuttosto intuitiva: “ci sono tuoi potenziali elettori che non guardano la tv, e nemmeno Fox News, ma guardano questi podcast”.

Andare lì presentava anche notevoli vantaggi dal punto di vista comunicativo. “Quando sei in televisione c’è un limite a quello che puoi dire, devi comunque smussare le tue dichiarazioni”, ha proseguito il consulente, “ma sui podcast sei in un ambiente più rilassato, dove puoi parlare della tua pizza preferita e apparire molto meno distante e ingessato del solito”.

Bruesewitz ha detto più o meno le stesso cose in un’altra intervista a Forbes: “avere a che fare con podcaster, comici e influencer permette di far emergere il lato umano del presidente Trump, una cosa che non si può fare con i media mainstream”.

Trump, da consumato uomo di spettacolo, l’ha capito subito. E facendosi aiutare dal figlio minore Barron si è immerso nella cultura dei creator, andando nei loro studi e adeguandosi ai loro formati. Non è mai apparso fuori posto, insomma, e questo emerge dai tantissimi commenti di elogio sotto i video su YouTube.

“Hai fatto un gran lavoro, Theo – si legge ad esempio in un commento alla chiacchierata con il comico Theo Von – a far emergere il lato umano di Donald Trump. Nonostante la sua immagine da duro si sapeva che Trump è uno a cui importano davvero le persone, ma i media non lo fanno mai vedere. Grazie!”

Il nuovo ecosistema mediatico trumpiano e la fine dei media mainstream

Quel genere di podcast è conveniente anche per un altro motivo: la totale assenza di moderazione ed etica giornalistica.

I creator si percepiscono come degli intrattenitori, non come dei giornalisti. Per loro Trump è l’occasione perfetta per fare del content virale e aumentare in maniera esponenziale le proprie metriche. Di conseguenza non hanno alcun interesse a fare domande scomode, né tanto meno incalzare Trump sulle sue bugie o sulle teorie del complotto razziste che rilancia a tutto spiano.

Il clima delle ospitate è dunque accomodante, confortevole e a tratti deferente. È un po’ il sogno di ogni politico autoritario: un’intervista senza domande, fatta da un intervistatore senza la minima pretesa giornalistica.

Del resto, come ha scritto su Threads la professoressa ed esperta di disinformazione Renée DiResta, “comprare gli influencer è molto meglio che creare dei profili falsi, perché gli influencer si portano dietro il loro pubblico e sono, be’, reali”.

La destra statunitense l’ha capito da tempo, molto prima delle elezioni. “L’ecosistema mediatico conservatore è ben finanziato, curato meticolosamente e organizzato fino all’ultimo dettaglio”, ha scritto la giornalista Taylor Lorenz nella sua newsletter UserMag.

È una macchina ben oliata ed estesa su vari social (soprattutto quelli apertamente di destra come Rumble o Truth Social), che permette agli influencer di crescere vertiginosamente e di guadagnare cifre rilevanti molto in fretta.

Naturalmente, questo ecosistema prospera sulle debolezze altrui – a partire da quella dei liberal. Nel campo democratico non esiste infatti una rete di creator e influencer così rilevante e strutturata.

Lo streamer di sinistra Hasan Piker, uno dei pochissimi che riesce a competere numericamente con la controparte, ha fatto notare che “se hai meno di trent’anni e hai qualche hobby – che sia giocare con i videogiochi, andare in palestra o ascoltare un podcast di storia – finirai per forza di cose a contatto con la propaganda di destra o trumpiana”.

Gli influencer di sinistra, puntualizza Lorenz, non possono contare su ingenti finanziamenti né tanto meno sul Partito democratico, e deve quindi affidarsi alla “crescita organica su piattaforme come YouTube, Twitch e TikTok, che spesso premiano algoritmicamente i contenuti di destra o di estrema destra”.

Le stesse piattaforme, del resto, hanno abbandonato ogni pretesa di moderare i contenuti d’odio o di contrastare le notizie false. X, lo sappiamo, è diventato direttamente il megafono ufficiale della propaganda trumpiana. YouTube non ha contrastato in alcun modo le teorie del complotto elettorali; anzi, ci ha pure lucrato sopra. E Meta ha direttamente deciso di far finta che non esistano i contenuti politici, per evitare gli scandali e le polemiche del 2016 e del 2020.

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Infine, l’ascesa dei bro influencer e del nuovo ecosistema mediatico trumpiano è direttamente proporzionale al declino dei media tradizionali. Queste elezioni ne hanno ulteriormente certificato il tracollo e la crescente irrilevanza. 

Trump è diventato Trump grazie ai tabloid, ai reality show e ai programmi televisivi di approfondimento: ora può permettersi di farne a meno. E questo è davvero un cambiamento di paradigma epocale, che segna l’alba di una nuova era politica e mediatica.

Immagine in copertina: Donald Trump al podcast "Flagrant", via YouTube

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